Su L'Unità di oggi, 29-09-04, a pagina 12, Umberto De Giovannangeli intervista Mustafa Barghuti, "leader della società civile palestinese".
Barghouti, senza contestazioni da parte di De Giovannangeli, definisce "militarizzazione dell'Intifada" il terrorrismo, e lo qualifica poi come legittimo. Quando De Giovannangeli introduce l'argomento "kamikaze", Barghouti svicola equiparando le stragi terrorriste alle risposte israeliane, senza ricevere repliche. Sia Barghouti che u.d.g. mostrano di condividere l'assunto che l'intifada sia stata scatenata dalla "passeggiata" di Sharon al Monte del Tempio. Come abbiamo già ricordato in altre occasioni, il ministro per le comunicazioni dell’Autorità nazionale palestinese ha dichiarato alla stampa che nel luglio 2000, dunque prima della "passeggiata" l’insurrezione palestinese era in preparazione. La dichiarazione non è mai stata smentita.
Ecco il pezzo: "Un errore la militarizzazione dell'Intifada"Ventotto settembre 2000. L'allora candidato primo ministro Ariel Sharon dà vita ad una iniziativa dal forte carattere simbolico e dal devastante esito sul campo: protetto da un imponente spiegamento di forze, il leader del Likud visita la Spianata delle Moschee, terzo luogo santo dell'Islam, nel cuore dell'antica Gerusalemme. È la miccia che fa esplodere la rabbia palestinese; una rabbia che covava da tempo sulle ceneri del fallimento degli accordi di Oslo e sul malessere diffuso per la corruzione dilagante ad ogni livello dell'Anp. Ventotto settembre 2004. Quattro anni dopo, migliaia di morti, da ambedue le parti dopo, buona parte della popolazione dei Territori è esausta, la situazione economica disastrosa. Un dato per tutti: oggi oltre il 40% dei palestinesi vive sotto la soglia di povertà (erano il 20% prima dell'Intifada). Gran parte delle migliaia di lavoratori che prima erano impiegati in Israele ora sono senza una occupazione. Il commercio e la produzione industriale inoltre sono stati messi in ginocchio dal blocco dei centri abitati attuato dall'esercito israeliano per ragioni di sicurezza. Una situazione di sofferenza, rabbia, frustrazione, che la realizzazione da parte israeliana del "Muro" in Cisgiordania rischia di alimentare ulteriormente. Ventotto settembre 2004: come è cambiata la società civile palestinese e cosa resta delle speranze di autodeterminazione nazionale che furono alla base della prima Intifada. L'Unità ne discute con Mustafa Barghuti, presidente dei «Comitati di soccorso medico palestinesi» e leader della società civile palestinese.
La storiografia fissa al 28 settembre 2000 l'esplosione della prima Intifada. Visto quattro anni dopo, cosa rappresentò per i palestinesi la visita di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee?
«Fu l'avvisaglia di ciò che da lì a poco sarebbe stata la politica d'Israele nei confronti dei palestinesi: Sharon puntava allora e punta tutt'oggi a una escalation militare per evitare un serio negoziato con i palestinesi. In una terra che vive di simboli, l'irruzione di Sharon sulla Spianata delle Moschee conteneva un messaggio devastante per i palestinesi: Gerusalemme est non sarà mai la vostra capitale, la forza guiderà ogni mia scelta. Così è stato».
Quattro anni dopo, i palestinesi fanno i conti con i risultati della rivolta. Qual è il suo di bilancio, dottor Barghuti?
«In discussione non è il diritto inalienabile di un popolo oppresso a ribellarsi alle forze di occupazione. Gli errori che sono stati commessi, e ce ne sono e di gravi, nella conduzione dell'Intifada non possono far velo ad una incontestabile verità storica: alla radice del conflitto c'è uno Stato occupante e un popolo oppresso, e fino a quando non sarà data giustizia agli oppressi la violenza sarà, purtroppo, inarrestabile».
Dare giustizia, lei dice. Ma come?
«Realizzando un accordo di pace fondato sul principio di due popoli e due Stati. Ciò che la stragrande maggioranza dei palestinesi chiede, per cui si batte, non è la distruzione di Israele ma la realizzazione di una convivenza tra due Stati indipendenti. Un’intesa è possibile, ma per raggiungerla occorre porre fine ad ogni sogno di grandezza, sia esso la Grande Israele come la Grande Palestina»
Lei parla però di errori commessi. Quale è stato a suo avviso il più grave?
«La militarizzazione dell'Intifada. Sia chiaro: i palestinesi hanno anche il diritto di ribellarsi in modo armato all'occupazione militare, ciò è sancito anche dalla Convenzione di Ginevra, ma è giusto, direi obbligato porci interrogativi sull'utilità dell'uso delle armi. Con qualche fucile non si sconfigge uno Stato potente come Israele, si può ottenere di più, molto di più con le manifestazioni pacifiche e la piena partecipazione della popolazione alla rivolta. Si tratta, in altri termini, di recuperare lo spirito della prima Intifada,che fu in primo luogo una rivolta popolare».
Questo sul piano dei metodi di lotta. E su quello politico, qual è il limite più evidente della seconda Intifada?
«L'aver introiettato la logica di Sharon, quella dello scontro frontale. L'Intifada andava invece indirizzata verso il raggiungimento di un compromesso politico con Israele ma ciò non è avvenuto e i gruppi più radicali, contrari a qualsiasi soluzione, alla fine hanno avuto il sopravvento».
Compromesso significa in primo luogo riattivare canali di dialogo con la società israeliana. Ma come è possibile farlo quando Israele vive sotto il continuo incubo dei kamikaze?
«Ripensare gli strumenti di lotta significa anche questo: porsi l'obiettivo di dialogare con quella parte d'Israele che crede in una pace giusta, tra pari. Anche per questo occorre battersi contro i terrorismi. Quello dei kamikaze, ma anche il terrorismo in divisa. Tutti, israeliani e palestinesi, devono proteggere i civili ed evitare atrocità, il diritto internazionale deve essere rispettato da tutti, anche da noi».
Nei Territori è cresciuta in questi anni anche il malessere verso la gestione del potere dell'Anp.
«La popolazione chiede trasparenza nella gestione del denaro pubblico, si ribella alla corruzione dilagante, vuole il rispetto dei diritti umani, esige un ricambio della classe dirigente, mette in discussione non la figura di Arafat ma una concezione autocentrica del potere. In una parola, chiede giustizia. Ma la risposta tarda ad arrivare. Ed è un silenzio inaccettabile».
Anche Michele Giorgio intervista Mustafa Barghuti, per il Manifesto. Sul pezzo "Palestina, 4 anni di sangue", a pagina 6, valgono osservazioni analoghe a quelle fatte su quello di u.d.g. Si deve inoltre osservare che, contrariamente a quanto sostenuto nell'articolo, la maggioranza delle vittime palestinesi del conflitto erano armate. Colpisce il modo in cui Barghuti esprime la propria soddisfazione per il rilascio delle due italiane rapite in Iraq: "Sono contento che in Iraq comincino finalmente a riconoscere amici e nemici della loro causa".
I nemici della "causa irachena", che è poi la causa di chi vuole imporre una nuova dittatura al paese, pare di capire, vanno trattati diversamente dagli "amici".
Ecco il pezzo:«La liberazione di Simona Torretta e Simona Pari è la notizia più bella, un segnale di speranza, che i palestinesi ricevono in questo quarto anniversario di Intifada». Non trattiene la sua felicità Mustafa Barghuti, medico, attivista del movimento per la democrazia ed esponente di primo piano della società civile palestinese, che con i volontari internazionali, anche italiani, lavora ormai da anni. «Sappiamo che le due Simone sono sostenitrici dei diritti dei palestinesi e degli iracheni. », ha aggiunto Barghuti ricordando anche l'avvenuta liberazione, ieri pomeriggio, del giornalista druso (con passaporto israeliano) Riad Ali sequestrato lunedì a Gaza city da militanti delle «Brigate dei martiri di Al-Aqsa». La giornata di ieri è stata segnata anche dalla notizia delle lettere di protesta contro abusi e violenze a danno dei palestinesi inviate ai comandi militari da quattro ufficiali di una unità speciale dell'aviazione israeliana. Barghuti ha tracciato un bilancio drammatico di questi quattro anni di Intifada: 3.400 palestinesi uccisi (in maggioranza civili innocenti, tra cui donne e bambini); circa mille civili, soldati e coloni israeliani (centinaia dei quali rimasti uccisi in attentati kamikaze); 53.000 palestinesi feriti (2.500 sono oggi disabili); migliaia di feriti israeliani; 424 palestinesi vittime di «assassinii mirati» (186 erano semplici passanti, tra cui 39 bambini), migliaia di case palestinesi demolite o danneggiate in modo irreparabile; migliaia di arresti (spesso arbitrari)in Cisgiordania e Gaza. Allo stesso tempo l'esponente palestinese guarda avanti, ad uno sviluppo positivo della rivolta.
Dottor Barghuti, in questo quarto anniversario dell'Intifada vediamo intorno a noi macerie e sofferenze. I palestinesi sono in grande difficoltà di fronte alle forze di occupazione israeliane. Cambierà qualcosa in questo quinto anno di rivolta?
Prima di tutto i palestinesi dovranno essere pienamente consapevoli del progetto del governo israeliano di creare una situazione di apartheid in Cisgiordania e Gaza. Il muro (che Israele sta innalzando nei Territori occupati, ndr) è una evidente conferma delle intenzioni di Ariel Sharon. Dopo questo necessario riconoscimento di ciò che sta avvenendo sul terreno, il nostro popolo non potrà far altro che resistere all'occupante con più intensità e determinazione, ma anche in modo diverso da questi ultimi quattro anni.
Vuole dire che dovrebbe abbandonare le armi?
La strada da seguire dovrà essere quella della resistenza pacifica all'occupazione, delle manifestazioni popolari, delle proteste di massa contro la costruzione del muro. La nostra forza dovrà essere nella nostra volontà, nella capacità di dire no ai piani di Sharon. Dovremo spiegare che la nostra Intifada non è contro gli israeliani o gli ebrei ma contro la politica di Sharon e George Bush, contro chi vuole negarci la libertà e il diritto ad essere un popolo sovrano. Allo stesso tempo le forze democratiche della società palestinese dovranno insistere per ottenere l'attuazione di riforme politiche non più rinviabili.
I palestinesi tuttavia avranno bisogno anche di sostegni internazionali. Crede che potranno recuperare la simpatia di una opinione pubblica mondiale che in questi anni è stata gravemente condizionata nel quadro della presunta "lotta al terrorismo", portata avanti da Sharon e Bush?
Con una Intifada popolare e pacifica i palestinesi sapranno spiegare al mondo intero le loro ragioni e mettere a nudo la politica israeliana. Non solo, ma potranno trovare maggiori intese con quelle forze realmente democratiche e pacifiste in Israele che condannano la politica di Sharon e si oppongono alla creazione dell'apartheid in Cisgiordania e Gaza
Lei è ottimista eppure il quadro internazionale e locale non offre prospettive così rosee ai palestinesi.
Il mio è un ottimismo ben fondato. Durante i miei recenti viaggi in Europa ho riscontrato l'interesse di tante persone che vogliono capire le ragioni di questo conflitto. Tutto ciò mi conforta perchè chi vuole comprendere e conoscere alla fine non potrà che sostenere la causa del nostro popolo che non chiede, come purtroppo molti sostenitori di Sharon continuano a scrivere e ad affermare, la distruzione di Israele ma invece di poter vivere in suo stato indipendente in Cisgiordania e Gaza, con capitale Gerusalemme est, così come affermano le risoluzioni internazionali. Alla fine, sono certo, la ragione avrà la meglio sull'oppressione.
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