L'Unità di oggi, 21-09-04, pubblica in prima pagina un articolo firmato John F. Kerry. La lettura di questo testo rende evidente la somiglianza tra la strategia irachena del candidato democratico e quella del presidente in carica: invio di truppe non americane in Iraq, addestramento delle truppe irachene, rispetto delle date indicate per le elezioni politiche. L'Unità manca purtroppo di rilevare questo fatto e pubblica senza commenti e con un titolo fuorviante ("Fermerò la guerra infinita", che fa immaginare un inesistente Kerry pacifista) un testo molto lontano dalla linea politica del giornale.
Ecco il pezzo:Tre anni fa gli eventi dell’11 settembre hanno ricordato a ogni americano un obbligo. Quel giorno ha portato sulle nostre rive la battaglia fondamentale della nostra epoca: la battaglia tra la libertà e il fondamentalismo estremista.
Quel giorno ha reso chiaro a tutti noi che il nostro compito più importante è quello di combattere e vincere la guerra contro il terrorismo.
Nel combattere la guerra al terrorismo, i miei principi sono chiari e netti. I terroristi sono dei folli privi di qualsiasi giustificazione razionale. Come presidente, farò tutto ciò che è necessario, per tutto il tempo che sarà necessario, per sconfiggere i nostri nemici. Ma i miliardi di persone in tutto il mondo che aspirano a una vita migliore sono favorevoli agli ideali americani. È nostro dovere conquistare il loro consenso.
Nel nostro paese deve esserci un dibattito importante e onesto sull’Iraq. Il Presidente afferma che l’Iraq è l’elemento fondamentale della sua guerra al terrorismo. In realtà, l'Iraq ha costituito una profonda diversione da quella guerra e dalla battaglia contro il nostro più grande nemico, Osama bin Laden e i terroristi. L’invasione dell’Iraq ha provocato una crisi di proporzioni storiche e, se non cambiamo rotta, la prospettiva che abbiamo di fronte è quella di una guerra senza fine.
Questo mese abbiamo raggiunto un record atroce: oltre 1000 vite americane perse in Iraq. Il loro sacrificio sta a ricordarci che l'Iraq rimane di gran lunga un fardello americano. Oltre il 90 per cento dei soldati presenti sul territorio iracheno - e quasi il 90 per cento delle vittime - sono americani. A dispetto delle affermazioni del Presidente, non esiste una grande coalizione.
Lo scorso giugno, il Presidente ha dichiarato: «L’Iraq è di nuovo nelle mani del popolo iracheno». La settimana passata ci ha detto: «Questo paese è incamminato verso la democrazia... La libertà sta arrivando». Tuttavia, sono gli stessi servizi di intelligence dell’amministrazione a raccontare una storia diversa. L'intelligence, secondo fonti di stampa, in un rapporto consegnato al Presidente lo scorso luglio, ha smentito di sana pianta quello che il Presidente sta dicendo al popolo americano. Così come lo smentiscono i fatti sul terreno.
La sicurezza si sta deteriorando, per noi così come per gli iracheni. Nel mese di giugno - prima del passaggio di poteri - in Iraq sono morti 42 americani. Ma a luglio ne sono morti 54... 66 in agosto... e già 54 solo nella prima metà di settembre. E ad agosto sono rimasti feriti oltre 1.100 americani - più che in qualsiasi altro mese dall'inizio dell'invasione. Ci troviamo a combattere una ribellione crescente in una zona di guerra il cui perimetro si allarga sempre più. A marzo, i ribelli hanno attaccato le nostre forze 700 volte. Ad agosto, 2700 volte - un aumento del 400 per cento.
Falluja, Ramadi, Samarra, perfino alcune aree di Baghdad adesso sono zone fuori controllo, rifugio di terroristi liberi di pianificare e lanciare attacchi contro i nostri soldati. Moktada al-Sadr, il leader sciita radicale accusato di complicità nell'assassinio di americani, ha il controllo dei quartieri periferici di Baghdad.
La violenza contro gli iracheni, dalle autobomba ai rapimenti alle intimidazioni, sta aumentando. Anche le condizioni di vita più elementari si stanno deteriorando. Gli abitanti di Baghdad devono far fronte a blackout elettrici che durano fino a 14 ore al giorno. I liquami delle fognature invadono le strade, fin sopra i coprimozzi dei nostri blindati. I bambini, per andare a scuola, sono costretti ad aprirsi un varco nella spazzatura. La disoccupazione ha superato il 50 per cento. I ribelli non hanno difficoltà a reclutare per 150 dollari centinaia di persone disponibili a lanciare granate sui convogli militari statunitensi.
(...) Non è mai facile discutere di cosa è andato storto mentre i nostri soldati sono in costante pericolo. Ma è fondamentale, se vogliamo invertire la rotta e fare quello che è giusto per i nostri soldati, anziché ripetere all'infinito sempre gli stessi errori.
Conosco questo dilemma sulla mia pelle. Dopo aver prestato servizio militare al fronte, ritornai a casa per mettere la mia voce al servizio della verità. Lo feci perché ero fermamente convinto che dire la verità al potere era un atto dovuto nei confronti di coloro che rischiavano la propria vita. È quello che facciamo ancora oggi.
Saddam Hussein era un dittatore efferato che merita il suo speciale posto all’inferno. Ma questa non era di per sé una ragione valida per dichiarargli guerra. La soddisfazione che ricaviamo dalla sua caduta non nasconde i fatti: abbiamo sostituito un dittatore con un caos che ha reso l'America meno sicura.
Il Presidente ha ammesso di aver «fatto male i propri calcoli» in Iraq. In realtà, il Presidente ha preso una serie di decisioni catastrofiche, sin dall'inizio: a ogni bivio ha preso la svolta sbagliata e ci ha condotto nella direzione sbagliata.
Il primo errore fondamentale che ha commesso il Presidente è non aver detto la verità al popolo americano. Non ha detto la verità sui motivi alla base della guerra. E non ha detto la verità sul fardello che questa guerra comporta per i nostri soldati e i nostri cittadini.
Il Presidente ha dato 23 motivi diversi alla base della guerra. Se il suo obiettivo era confondere e fuorviare il popolo americano, ci è riuscito.
I due motivi principali - le armi di distruzione di massa e i legami tra Al Qaeda e l'11 settembre - si sono rivelati falsi... a detta degli stessi ispettori statunitensi e della Commissione sull'11 settembre. La scorsa settimana il segretario di Stato Powell ha ammesso i fatti. Solo il vicepresidente Cheney si ostina a ripetere che la terra è piatta.
Il Presidente poi non ha detto al popolo americano cosa è necessario fare per vincere in Iraq.
Non ci ha detto che sarebbero necessari ben più di 100mila soldati, e per anni, non per mesi. Non ci ha detto che ha preferito non perder tempo a costruire un'ampia e forte coalizione di alleati. Non ci ha detto che i costi della guerra supereranno i 200 miliardi di dollari. Non ci ha detto che anche pagando un prezzo così elevato, la vittoria sarà lungi dall'esser garantita.
Ma il fatto che questo Presidente non ci abbia detto la verità prima della guerra è superato dai macroscopici errori di valutazione commessi durante e dopo la guerra.
Questo Presidente si è circondato di ideologi allontanando chi era in disaccordo, inclusi leader del suo stesso partito e vertici delle forze armate. Il risultato è una lunga sequela di errori di valutazione dalle conseguenze terribili.
Il club del terrorismo internazionale si è allargato. L'estremismo in Medio oriente sta crescendo. Abbiamo diviso i nostri amici e unito i nostri nemici. E il nostro prestigio nel mondo è ai minimi storici.
Riflettiamoci sopra per un minuto. Pensiamo a dove eravamo e dove siamo adesso. Dopo gli eventi dell'11 settembre avevamo l'opportunità per unire il nostro paese e il mondo intero nella lotta contro il terrorismo. Il 12 settembre, i titoli dei giornali all'estero dichiaravano "oggi siamo tutti americani". Ma con la sua politica in Iraq, il Presidente ha gettato al vento questa opportunità e piuttosto che isolare i terroristi ha isolato l'America dal resto del mondo.
La politica del Presidente ha diviso le nostre alleanze più antiche e gettato al vento il nostro prestigio nel mondo musulmano. Tre anni dopo l'11 settembre, Osama bin Laden è più popolare degli Stati Uniti d'America.
Lasciatemelo dire con franchezza: la politica del Presidente in Iraq non ha rafforzato la nostra sicurezza nazionale, l'ha indebolita.
In Iraq, ci siamo cacciati in un bel guaio. Ma non possiamo lavarcene le mani. Non possiamo permetterci di vedere l'Iraq trasformarsi in una fonte permanente di terrore che rischia di mettere in pericolo la sicurezza dell'America per gli anni a venire.
(...) In Iraq, dobbiamo voltare pagina e ricominciare da zero.
I principi che devono guidare la politica americana in Iraq ora e in futuro sono chiari: dobbiamo fare in modo che il mondo intero si assuma la responsabilità dell'Iraq, perché tutti ne hanno interesse e anche altri dovrebbero assumersene gli oneri. Dobbiamo addestrare efficacemente gli iracheni, perché devono essere responsabili della loro sicurezza. Dobbiamo procedere nella ricostruzione, perché è essenziale per arrestare la spirale di terrore. E dobbiamo aiutare gli iracheni a costruire un governo efficace, perché spetta a loro governare il loro paese. Questa è la strada giusta per completare il lavoro e riportare a casa i nostri soldati.
Credo che l'invasione dell'Iraq ci abbia reso meno sicuri e più deboli nella guerra al terrorismo. Ho un piano per combattere una guerra al terrorismo più intelligente ed efficace. E renderci più sicuri.
Oggi, a causa della politica di George Bush in Iraq, il mondo presenta più pericoli per l'America e per gli americani.
Il testo riportato è tratto dal discorso pronunciato ieri da John Kerry
alla New York State University
Traduzione di Andrea Grechi
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