La barriera difensiva (e i suoi effetti) visti da vicino
e raccontati da Emanuele Ottolenghi
Testata:
Data: 17/09/2004
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: Questo dettaglio è brutto ma vitale. Ho visto il muro e non mi è piaciuto. Ho visto Gerusalemme viva e senza paura, e ho capito
L'inserto di oggi, 17-09-04, del Foglio è dedicato a un articolo di Emanuele Ottolenghi, che ha visitato le zone attraversate dalla barriera difensiva israeliana. La quale danneggia l'economia, crea disagi, indigna l'opinione pubblica internazionale, ma, incontestabilmente, salva vite umane. E, in futuro potrebbe divenire il confine tra Israele e Territori, contribuendo alla soluzione politica del conflitto.
Ecco il pezzo:

Gerusalemme. La strada che collega Gerusalemme al mare scende rapidamente tra aspre, brulle e alte colline in mezzo a uno stretto wadi (valle) fino a una gola dove improvvisamente irrompe la pianura. E’ poco dopo questa gola, che si chiama proprio Porta della Valle – Sha’ar Hagai in ebraico, Bab el Wad in arabo – che lascio la strada per immettermi sull’autostrada 6, la nuova e imponente arteria di traffico che, una volta completata, attraverserà Israele da nord a sud. L’autostrada 6 corre lungo la pianura, a ovest il mare e a est le montagne di Giudea, oltre alle quali la terra sprofonda nella deserta desolazione della depressione del Mar Morto. La geografia qui è impietosa: fertile, calda e umida la pianura, dalla quale, pochi chilometri a est, la terra sale improvvisamente, con colline sempre più alte e pietrose, separate da profonde e strette gole. Finisce improvvisamente la vegetazione e iniziano la pietra e la polvere, che brillano bianche nel cocente sole estivo. E’ lì, lungo il primo tratto d’autostrada costruito che appare la barriera. L’autostrada corre lungo il vecchio confine, sul lato israeliano, lambendolo a volte. Sono nel centro d’Israele, molto vicino al mare. Tra la linea verde e la costa ci sono non più di quindici chilometri. Qui vicino c’è Netanya, a mezz’ora di cammino veloce, forse meno, dalla linea verde, dove un terrorista palestinese si fece esplodere alla vigilia della Pasqua ebraica a fine marzo 2002, massacrando decine di ebrei radunati nella sala da pranzo del Park Hotel per la tradizionale cena rituale. E’ poco distante anche Tel Aviv, anch’essa colpita più volte da attentati. Poco più a nord Afula e Hadera, dove un terrorista fece irruzione a una festa di Bar- Mitzva, l’equivalente ebraico della Cresima, sparando sui festanti e uccidendone cinque. Da quando c’è la barriera questa zona è tranquilla, da mesi non ci sono più attentati. Mi fermo a guardare. Sono passate da poco le otto del mattino. Il traffico scorre, alleggerendo gli ingorghi attorno alla tangenziale di Tel Aviv. Lungo l’autostrada la barriera difensiva è un muro di cemento, alto e grigio, fiancheggiato da una stretta strada per le pattuglie che corre lungo l’autostrada. Del muro, però, ormai si vede poco. Da dicembre scorso, è stato eretto un terrapieno dove campeggiano aiuole e fioriere, e della barriera si vede soltanto la punta, che emerge appena. Niente fiori dal lato palestinese, soltanto otto metri in verticale che i terroristi non riescono a saltare, e che separa chi con il terrore non ha nulla a che fare dai lavori giornalieri che in tempi di pace decine di migliaia di palestinesi avevano in Israele e che sostenevano un’economia nei Territori oggi invece esausta. Qalqilya, città di confine come Tulkarem, è quasi interamente circondata dal muro. Prima che gli israeliani lo erigessero, i cecchini sparavano sulle macchine in transito. La barriera di rete, che incontro più avanti, non sarebbe bastata a fermarne i proiettili. Ora il solo pericolo è il traffico un po’ aggressivo e un po’ sbadato di questo paese. Per un po’ l’autostrada scorre lungo la linea verde, il vecchio confine provvisorio che tra il 1949 e il 1967 divise il paese in due e creò una barriera impenetrabile in luoghi dove di confini politici non ve n’erano mai stati, ma soltanto ostacoli geografici. Ma il muro dura poco, una manciata di chilometri, fino a che l’autostrada vira verso nord ovest allontanandosi dal tracciato della barriera. Dopo ricomincia la rete elettronica. Lascio l’autostrada per la prima tappa della giornata, nel piccolo triangolo, una zona densamente popolata da arabi israeliani, quegli arabi che alla fine della guerra del 1948 si trovarono a far parte dello Stato d’Israele. Attraverso rapidamente Baka el Gharbiya e passo Jatt, che si trova insieme a Baka lungo la linea verde e ora anche lungo la barriera. Qui vicino c’è Beisan, oltre il confine ci sono Baka el Sharkiya, Ziitta e Dera. Qui, linea verde o no, sono tutti parenti, tutti membri di clan che il confine ha separato per i diciannove anni d’occupazione giordana. La guerra del 1948, con la sua linea del cessate il fuoco stabilita casualmente dagli eventi di quel conflitto, li ha divisi e ne ha determinato diversi destini. Dal 1967, il confine aperto li ha riuniti. Ora la barriera li divide di nuovo. Tutt’attorno ai villaggi della zona ci sono cooperative agricole e centri residenziali abitati da ebrei. Nemmeno qui, dove da quasi sessant’anni i rapporti sono buoni, le due popolazioni si mischiano. Eppure prima dell’Intifada gli arabi lavoravano nelle cooperative e gli ebrei venivano nei villaggi a comprare prodotti a buon mercato. Gli arabi fanno i muratori, gli artigiani, gli agricoltori. Gli ebrei fanno anche loro gli agricoltori o gestiscono piccole fabbriche o industrie. Chi ha la terra non lavora per gli ebrei, ma vende loro i prodotti agricoli. Chi non ha terra fa il bracciante. Ma ora di lavoro ce n’è meno, e la fiducia è diminuita. I rapporti personali sono ancora buoni, ma di affari se ne fanno meno. E ci perdono tutti. Le cooperative qui intorno sono laiche e di sinistra. Tra loro c’è il Kibbutz Metzer. Erano tutti contrarissimi alla barriera, nella quale vedevano la sconfitta del principio di convivenza su cui questa piccola regione vive e prospera da sempre. Poi, una sera, nel 2002, un commando palestinese
ha attraversato i campi e le serre, i villaggi e le strade polverose. Cinque, forse dieci minuti a piedi dai Territori fino a Metzer, cooperativa di sinistra che crede e pratica la convivenza. Il commando penetra in una dimora scelta a caso, e in pochi minuti stermina l’intera famiglia, madre e due figli, tutti bambini neanche adolescenti. I bimbi li ammazza a letto, nei loro pigiami, abbracciati ai loro orsacchiotti. Ora a Metzer non ci si arriva più, né in dieci né in cento né in mille minuti. Il facile percorso tra Territori e kibbutz è interrotto dalla barriera. Il confine, aperto dal 1967 e annullato da 37 anni d’occupazione e insediamenti, ora improvvisamente è risorto.

L’economia è peggiorata per tutti

Verde a perdita d’occhio, serre, campi coltivati e villaggi in lontananza. Mi fermo di nuovo a guardare la barriera che vi scorre in mezzo: riappare la rete, con l’imponente sistema di sicurezza che la attornia: il filo spinato, un perimetro largo tre metri coperto di sabbia per identificare rapidamente impronte di passaggio, una strada asfaltata per le jeep militari, ancora tre metri di sabbia e la barriera di rete elettronica.
Metzer era contrario. Ora sono in molti a sostenere la barriera. Arrivo a Baka el Gharbiya, cioè la Baka israeliana. Qui negli anni buoni era un continuo viavai. Migliaia di lavoratori palestinesi transitavano per il villaggio la mattina e vi ripassavano la sera, dopo una giornata di lavoro in Israele. Nel villaggio
compravano viveri e si fermavano ai caffè in attesa di essere raccolti dai loro datori di lavoro. Ora il flusso si è interrotto. Di qui passavano gli israeliani che andavano a mangiare e ad acquistare nei Territori. Non vengono più. L’economia di tutto il paese ha sofferto negli ultimi quattro anni, ma la barriera ha colpito gli arabi di Baka el Gharbiya più dei loro cugini ebrei. Le bombe qui non esplodevano e quindi la rabbia per la barriera è grande. Mi siedo a un caffè e comincio a chiacchierare con i presenti. Sono le dieci passate, il sole è alto e fa caldo, ma al caffè un pubblico di soli uomini di tutte le età indugia pigramente su una tazza di tè alla menta. Mahmoud, sessant’anni e sei figli, gioca con il suo rosario e mi invita al suo tavolo. Mi racconta dei suoi viaggi a trovare i parenti a Baka el Sharkyia, due minuti di macchina prima dell’Intifada. Ora ci vuole un’ora e mezzo, più la fermata ai posti di blocco intorno a Tulkarem. Tulkarem è a circa quindici chilometri da Baka. E’ il punto d’accesso più vicino. Ma partire non significa arrivare. A volte il posto di blocco è chiuso: ci sono passato anch’io e non c’era nessuno. Tutto deserto e abbandonato, cancelli chiusi, oggi non si passa. A volte si passa in fretta, e a volte si perdono ore. Attraversato il posto di blocco bisogna entrare e uscire da Tulkarem e la cosa non è semplice perché prima di arrivare a Baka el Sharkiya ce n’è un altro di posti di blocco, a Shueika. Ore per andare a trovare un cugino, senza mai sapere se oggi si passa o no. Mahmoud dice che è come prima del 1967. Allora Baka el Sharkiya era in Giordania. C’era un confine ed era chiuso. Dopo il 1967 il confine è scomparso sul terreno, rimanendo soltanto sulle mappe politicamente corrette, cioè non quelle prodotte nella regione da entrambi i contendenti. Nemmeno ora c’è il confine, ma adesso è di nuovo chiuso. E ascoltando Mahmoud, il potenziale della barriera appare chiaro e limpido. Israele oggi dà il 15 per cento dei permessi di lavoro nei Territori rispetto a prima dell’inizio dell’Intifada: troppi i terroristi che si sono infiltrati come braccianti. Ma la povera gente è alla fame. Mahmoud mi dice che porta cibo ai parenti che non hanno soldi per comprarselo. Pian piano la vita dalle due parti della barriera ricomincia a essere diversa. I contatti calano. E il confine, che 37 anni di occupazione e dozzine di insediamenti hanno fatto di tutto per cancellare, sta risorgendo per dividere due popoli e forse un giorno due Stati. E tutto questo lo sta facendo il premier Ariel Sharon, che più di ogni altro militare e politico in Israele aveva fatto per annullare quel confine. Nessuno al caffè spende una parola di approvazione per Sharon o per la barriera. Non amano nemmeno il leader laburista Shimon Peres di cui non si fidano, e disprezzano Ehud Barak, ex primo ministro, che per loro ha tradito tutte le promesse fatte. Hanno invece nostalgia di Amram Mitzna, ex candidato premier, che sosteneva il ritiro unilaterale e criticava Sharon perché esitava a costruire la barriera. Questo è un paese dove arabi ed ebrei hanno la memoria lunga. L’identità di entrambi affonda nella storia e nella preistoria. Le loro recriminazioni si basano sulla storia, che citano ad nauseam a sostegno delle rispettive cause. Ma in politica, qui a Baka elGharbiya, mi sembra che la memoria sia corta se a un anno e mezzo dalla sconfitta di Mitzna, con Sharon che segue una linea politica simile a quella da lui sostenuta, il premier è odiato da tutti, mentre l’ex rivale causa persino qualche lacrima di nostalgia. Come biasimarli? Per loro, l’Intifada prima e adesso la barriera sono state la rovina economica. Tutti gli interpellati ripetono di volere una soluzione equa al conflitto.

Gli arabi che non vogliono Arafat

Nessuno fa il barricadiero o parla per slogan, non soltanto almeno. Al caffè sono tutti lavoratori, concreti, con i piedi per terra. Conoscono i temi del conflitto e hanno idee molto nette anche su cosa occorra fare per risolverlo. Per loro è impossibile pensare che i rifugiati palestinesi tornino in blocco in Israele. Per loro ci vogliono due Stati. E quando ci saranno, loro rimarranno con Israele, in Israele, con il passaporto israeliano. Non vogliono nemmeno la doppia nazionalità. Non si sognano neanche lontanamente di sostenere aggiustamenti di confine che li lascino, loro a Baka o altri insediamenti arabi-israeliani come Umm el Fahm o Taibeh o Jaljulya, sotto sovranità palestinese. Il rais sarà anche il
leader indiscusso dei palestinesi, ma sotto di lui nessuno vuole starci. I miei interlocutori sono poco ottimisti. "Non c’è volontà politica", mi dice Muhammad. Gli chiedo di chi è la colpa, di Arafat o di Sharon, e lui accusa entrambi, anche se per Ka’adan, che fa il fornaio a un catering dell’aeroporto di Tel Aviv, è il più forte dei due contendenti ad avere più responsabilità e a dover smettere per primo. Tocca a Israele ritirarsi. "E il terrorismo?". "Finirà subito", mi dice Ka’adan. "E Hamas?". "Hamas vuole la pace", mi dice serafico. Quelli di Hamas sono pragmatici per lui e disposti ad accettare i due Stati. Per i miei commensali tutto dipende da Israele. Oltre alla rabbia trovo anche un po’ di realismo: "Arafat ha fatto un errore storico nel 2000 a Camp David", dice Muhammad. Ka’adan crede che Barak bluffasse, Muhammad dice che non importa. Arafat poteva dire di sì, se fosse stato un bluff avrebbe smascherato l’ex premier israeliano. Ma se fosse stata un’offerta genuina, nulla di quanto è poi accaduto sarebbe successo. Nonostante questo, per Muhammad, Arafat è l’unico leader arabo eletto democraticamente, e se i palestinesi lo vogliono come guida bisogna negoziare con lui. Ka’adan non è certo sicuro che l’elezione sia stata regolare, ma è d’accordo. Il rais rimane il rais. Domando loro se Israele debba chiedere scusa ai palestinesi per il problema dei rifugiati. Muhammad, nato a Haifa nel 1946, dice che è un problema politico, non spetta a lui rispondere. Ma non ha paura di dire chiaramente che per lui Israele può stare tranquillo. I rifugiati non devono tornare. Meglio una soluzione pratica, con gli insediamenti evacuati e utilizzati per assorbire i rifugiati che volessero tornare. Tutti i presenti concordano: due Stati per due popoli. Altro che Stato binazionale. Non si fanno illusioni, non si fanno prendere da fantasie liberali. Per loro la soluzione è semplice. Finire l’occupazione. Iniziare i negoziati. Ritiro israeliano sul confine del 1967. Riconoscimento d’Israele da parte del mondo arabo. "Israele non può ignorare di trovarsi nel cuore del mondo arabo, ci sono 250 milioni di arabi e un miliardo e passa di musulmani nel mondo – mi dice Muhammad – Il tempo non è a favore d’Israele".

"Welcome to hell"

Perché allora sfugge la pace? "Manca la volontà politica", mi dice Muhammad. Sharon e il suo partito, il Likud, da queste parti, non riscuotono simpatia. Ka’adan ritiene che se non ci fossero gli attentati palestinesi ci penserebbe il Likud a mettere le bombe. Una teoria del complotto in medio oriente non manca mai, ma anche qui, in quest’angolo d’Israele dove c’è rabbia e disillusione, gli arabi alla fine si definiscono israeliani e vogliono restare cittadini d’Israele. Nessuno di loro è disposto a dire una parola buona sulla barriera. Per loro è rovina economica e umiliazione. Hanno perso terre: il villaggio è stretto tra l’autostrada 6 e la barriera. Chiedo a Ka’adan se l’Intifada allora sia servita a qualcosa. "A sensibilizzare il mondo – mi dice – Ora il mondo sa". E prima non sapeva? Ci volevano le bombe per sensibilizzare l’opinione pubblica? "No, le bombe no", interrompe Muhammad imperiosamente. Un uomo grande grande, figlio di un marinaio che all’inizio della guerra del 1948 lasciò Haifa e riportò la famiglia al villaggio dei padri, ha due grandi occhi azzurri e un piglio schietto e sincero. Mi sembra quasi di essere in un cascinale sulle colline toscane, invece sono a un chilometro dalla barriera israeliana a un caffè arabo nel caldo di mezzogiorno: "La violenza è stata un grandissimo errore. Non ci doveva essere violenza nell’Intifada", dice Muhammad. No, non ci doveva essere. Ma è forse troppo tardi per recriminare, e né Mahmoud, né Muhammad, né Ka’adan decidono i destini del mondo che li circonda. Esprimono solidarietà ai loro fratelli, ma ne disapprovano la strategia. E intanto ne pagano le conseguenze. A loro, che aspirano a due Stati e a un confine aperto, a una vita normale con lavoro
per i figli e onore per i loro fratelli al di là del muro, questo confine, che si erge a due passi da casa, proprio non piace. Fatico a pagare il conto, perché l’ospitalità qui è sacra e preziosa almeno quanto
l’acqua e riparto. Lungo Wadi Ara, zona del triangolo, la barriera è nascosta dalle colline. Oltre i monti di Giudea, nella zona centrale del paese, c’è il deserto, ma risalendo verso nord il paesaggio si addolcisce e a mano a mano che la strada si allontana dalla costa le aspre e brulle colline lasciano spazio a un terreno più fertile e rigoglioso, che declina infine nella grande piana dello Yezreel, all’altezza di Megiddo, la città dell’età del bronzo, punto di passaggio tra nord e sud e porta d’accesso alla vallata, dominata a nord dal Monte Tabor, dove secondo un’importante tradizione avvenne la trasfigurazione di Gesù, e teatro, secondo l’Apocalisse, della futura battaglia finale dell’Armageddon (da Har Megiddo in ebraico, "monte di Megiddo") tra le forze del Bene e le forze del Male. Arrivo a Saleem, villaggio arabo israeliano alle porte della spianata vicino a Megiddo, a mezzogiorno. Il sole è cocente e abbaglia con i suoi raggi riflessi dalle pietre bianche delle ultime colline circostanti. A nord si apre un paesaggio verde e dall’altra parte della valle, dietro il Tabor, s’intuiscono nella canicola i dorsi delle colline della Galilea che pian piano risalgono verso il confine con il Libano. La stretta striscia di terra che separava il Mediterraneo dalla linea verde è alle mie spalle, lo spazio tra mare e confine ridà respiro a un paese che da sempre teme di esser tagliato in due da un’invasione proveniente da est. Arrivo ai margini del villaggio che si erge su una collina. Due blocchi di cemento colorano un piazzale desolato dove parcheggio. Su di essi un burlone di un’unità di mezzi pesanti dell’esercito israeliano ha scritto, in un pessimo inglese, "Welcome to Hell", benvenuti all’inferno. Oltre le colline che si vedono a ovest si intravede Jenin. Il posto di blocco che controlla l’accesso ai territori è a poche centinaia di metri. E la barriera scorre appena sotto il mio posto d’osservazione. Nel 2002, quando l’esercito lanciò l’operazione Muro Difensivo ed entrò a Jenin per snidare il terrorismo che dalì aveva mandato decine di assassini nel cuore d’Israele, qui stavano appollaiate le troupe delle televisioni straniere. Ora non c’è nessuno. Sotto di me la barriera, con la solita strada per le jeep, i sensori, il filo spinato e la rete elettronica, il tratto di sabbia per identificare le impronte. Sfreccia una jeep. Un gregge bruca tranquillo accanto alla barriera i pochi fili d’erba rimasti a fine estate. Sui monti a sud si vedono le ultime case di Umm el Fahm, città arabo- israeliana, prospera e pigra, roccaforte del movimento islamico. Da Jenin sono arrivati molti attentatori. Hanno colpito ad Afula, a Hadera, a Haifa, a Kfar Saba, a Netanya, a Nahariya, seminando morte tra ebrei e arabi. Ora non arriva più niente e nessuno. In mezzo alle brulle colline che il piazzale sovrasta, la barriera salta subito all’occhio, ma appare di nuovo innocua, mentre si snoda indisturbata lungo la linea verde in un tratto disabitato. Pomeriggio. Si ritorna verso sud. Passo accanto a Qalqilya, dove c’è di nuovo il muro, non la barriera. Un pugno di case della città sono rimaste a ovest del suo percorso. Invece che abbandonarle, gli abitanti sono rimasti, ottenendo carte d’identità israeliane e permesso di residenza. Palestina sì, ma è più importante mangiare e il nazionalismo non si spalma sul pane. Chi ha la carta d’identità israeliana e vive al di qua dal muro lavora e mangia. Chi sta al di là, invece, di questo non è sicuro. Il muro aggira la città e poi si trasforma, sotto lo sguardo vigile di una torretta, in rete. Vicino a Qalqilya passa la strada che da Netanya va sino a Nablus, nei territori, sulla quale si trovano alcuni insediamenti israeliani. Lì la barriera ha creato una piccola enclave che si allunga oltre la linea verde, incorporando alcuni insediamenti. Ne visito uno, Alfei Menashe, circa 6.000 abitanti, villette a schiera, un centro sportivo
e un’aria borghese e tranquilla su una collina a 400 metri circa d’altezza sul mare, con una vista meravigliosa e una magnifica brezza anche sotto il sole a picco sulle due. Qui nessuno è estremista: ci sono religiosi e laici, gente di sinistra e di destra, nessuno in cerca di messianesimo militante, molti convinti di aver trovato l’eldorado borghese della casa a basso costo, dell’alta qualità della vita e dell’aria buona, a mezz’ora di macchina da Tel Aviv. Gli abitanti lascerebbero le loro case, se ben ricompensati, ma se la barriera è un confine, dubito che dovranno andare via. Dalla cima del colle su cui si inerpicano le case di Alfei Menashe, vedo la barriera a destra e a sinistra. A sud dell’insediamento c’è un wadi profondo che lo separa da un villaggio arabo. Non più di cento metri in linea d’aria, ma al centro, a mezza costa sulle pendici della collina, passa la barriera. A nord, la barriera è più distante, ma corre poco lontano dalla strada cui è parallela fino a includere Alfei Menashe e Karnei Shomron, altro insediamento, in un’enclave che penetra come un dito dentro la Cisgiordania circondando in parte Qalqilya. E al ritorno, meno di un chilometro dalla linea verde, mi fermo a guardare l’ultima innovazione del sistema difensivo. La barriera qui è a pochi metri da ambo i lati della carreggiata, sotto alla quale scorre un’altra strada perpendicolare, anch’essa delimitata da un reticolato difensivo, e una via per le jeep. Per collegare Qalqilya ad altri villaggi e risparmiare ai palestinesi posti di blocco e lunghi percorsi che aggirano l’enclave, il governo israeliano ha fatto aprire una galleria sotto la strada. Mentre fotografo passa una macchina. Niente più posti di blocco, niente più ore di attesa. Oltre confine, questo l’obiettivo della barriera, alla fine l’intrusiva presenza israeliana dovrebbe scomparire o almeno ridursi al minimo. Il paesaggio ne esce un po’ deturpato. Ma anche qui, non lontano da Netanya, dove la morte è arrivata tante volte, all’improvviso, dopo il settembre 2000, una galleria e un reticolato sembrano una cosa naturale. E’ tardi e risalgo a Gerusalemme. Lungo la strada 444 che dai pressi dell’aeroporto di Tel Aviv lambisce Modi’in – una città sorta dal nulla nel 1994 e che ora ha più di 200 mila abitanti – si perde di vista la barriera. La ritrovo arrivando a Gerusalemme e di nuovo la riperdo. Qui la barriera, che di nuovo attraversa villaggi e caseggiati, è muro alternato a rete, ed è soltanto in parte costruita. In pochi minuti arrivo al Monte degli Ulivi. Dal cimitero ebraico, che da secoli si estende sull’altura dove i morti guardano il Monte del Tempio aspettando con pazienza l’arrivo del Messia, intravedo in lontananza il muro che a tratti già taglia a metà i villaggi di Abu Dis e Betania. Comincia poco sotto la chiesa francescana di Beit Fajje, da dove ogni anno parte la processione della Domenica delle Palme. Una volta, da Abu Dis passava la strada che collega Gerusalemme a Gerico. Ora esiste una superstrada che dalla Porta di Damasco passa a sud di Bet Hanina e, virando bruscamente dietro il Monte Scopus, scende rapida al Mar Morto. Una volta si passava soltanto da Abu Dis. Ora la strada è interrotta dal muro. A poche decine di metri la stazione della guardia di frontiera le cui jeep escono ogni quindici minuti per pattugliare il tracciato. Dall’altra parte si vede il minareto della moschea. Sullo spiazzo ora deserto si fanno le manifestazioni contro il muro; i graffiti e le scritte di cui è ricoperto si prestano a una photo-op: "Paid by Bush", pagato da Bush; "From Warsaw Ghetto to Abu Dis Ghetto", dal Ghetto di Varsavia al Ghetto di Abu Dis, si legge sulla barriera. Poco più su, in uno spiazzo più piccolo e discreto, nascosto da viuzze e da qualche complicità, c’è un posteggio per i taxi accanto a una breccia aperta nel muro, a dieci metri dalla strada. Attraverso la breccia c’è un andirivieni di palestinesi. Un vigile controlla il transito dal passaggio, mentre un anziano signore, seduto in un angolo su una sdraio, vende fichi ai passanti. Il giro è finito. Il muro, la barriera difensiva o antiterrorismo che dir si voglia, c’è. C’è nonostante la Corte internazionale, le Nazioni Unite e tutti i no global che arrivano a manifestare da varie parti del mondo la loro ingenuità sul piazzale di Abu Dis, che era un tempo una strada, non lontano dal signore che vende fichi ai passanti. Ma soprattutto c’è in barba ai terroristi che per quattro anni hanno cercato di piegare Israele senza riuscirci. Quando il 31 agosto scorso due attentatori suicidi si sono fatti esplodere su altrettanti autobus a Beersheva, nel sud del paese, la reazione più diffusa qui è stata: nel sud manca la barriera, occorre costruirla. Brutta, intrusiva, invasiva, deturpante; chiude (o crea) il confine, ferma il flusso di lavoratori, danneggia l’economia dei villaggi che avevano guadagnato dall’occupazione e dalla sparizione del confine; ha piegato le già stremate popolazioni dei Territori e ha sottratto terre agricole ai palestinesi. Ma ha fermato il flusso del terrore. Questa volta gli israeliani, davanti all’ennesimo attentato, non sono sprofondati nella disperazione e nel pessimismo. Ora hanno una risposta, una soluzione efficace per far fronte alla micidiale arma utilizzata dal nemico. La barriera funziona: ha sconfitto il terrorismo. Ma la barriera è molto di più. Ariel Sharon, i suoi portavoce, i suoi sostenitori insistono che si tratta soltanto di una misura di sicurezza, provvisoria e removibile nel caso arrivi la pace e finisca il terrorismo. Ma Sharon si sta ritirando da Gaza, unilateralmente, perché dice di non credere che al momento ci sia la possibilità di raggiungere un accordo di pace, e perché ritiene che il terrorismo continuerà. E in questo si contraddice: senza pace a breve termine e con il terrorismo che continua, la barriera resterà ancora per molto. E con il tempo, anche i fatti transitori e provvisori acquistano permanenza, perché creano nuove realtà.

Lo Stato che Sharon ha in mente

La barriera sta creando un confine. Chiuso, come prima del 1967, ma un confine. Troppi sono i 37 anni in cui le opposte illusioni di chi credeva alla Grande Israele e chi lottava per la Grande Palestina si sono
alimentate della mancanza di un confine e della sempre più difficile opera di tracciarne uno. Ora il confine sta sorgendo, per buona pace di chi s’oppone. Se volete sapere quale Stato palestinese Sharon abbia in mente, guardate dove passerà la barriera. Israele da ormai due anni la sta erigendo nel cuore di questi luoghi per porre un ostacolo invalicabile tra se stesso e i palestinesi: a detta delle fonti ufficiali soltanto quei palestinesi animati da intenzioni assassine, che nei quattro anni di Intifada, iniziata il 29 settembre 2000, hanno massacrato in centinaia di attentati suicidi più di mille israeliani. Ma il colpo d’occhio dà un’altra impressione, che un giorno di viaggio lungo i meandri della barriera conferma. Questo è un confine, è qui per restare, è qui per dividere, è qui per demarcare. La sera esco a cena. Gerusalemme, così deserta, vuota e desolata tre anni fa, quando ogni autobus poteva essere una cassa da morto, ogni bar una tomba, ogni ristorante un cimitero, ora brulica di giovani, di turisti, di gente con una tremenda voglia di vivere nonostante la guerra. Ho visto la barriera e non mi è piaciuta. Ma poi guardo la vita che mi scorre attorno, finalmente senza paura di morire a ogni angolo della strada. E in tutto questo, la bruttura che sta sorgendo nel cuore di questa terra appare di nuovo un insignificante dettaglio.
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