A pagina 26 de L'Unità di oggi, 15-09-04, Alon Altaras firma l'articolo "Le promesse mancate di Sharon". E' difficile intendere il pensiero di Altaras, che inizia il suo pezzo mettendo in dubbio la sincerità di Sharon circa il piano di ritiro da Gaza e lo conclude con una frase che sembra essere anche più di un auspicio: "Un leader della sua età e della sua esperienza sa che bene che decisioni dolorose possono migliorare il futuro di una nazione". La presenza di questa conclusione, in ogni caso, sembra rendere il titolo, incentrato solo sulle "promesse mancate" di Sharon poco fedele al testo.
Le promesse mancate citate da Altaras, per altro, in alcuni casi sono state mantenute, in altri non sono mai state fatte.
Il gabinetto ristretto israeliano ha approvato un piano di risarcimento per i coloni che lasceranno Gaza (è notizia di oggi), alcuni insediamenti illegali sono stati smantellati, il tracciato della barriera difensiva è stato corretto seguendo le indicazioni della Corte suprema israeliana. La sentenza dell'Aia, che condannava la barriera in quanto tale e non il suo tracciato, è invece stata ignorata: ma Sharon non aveva mai "promesso" che ne avrebbe tenuto conto. Aveva al contrario chiaramente promesso di ignorarla, negandone la legittimità e l'equità con parole durissime.
La leadership palestinese dei Nusseibeh e dei Dahlan è tenuta lontano dal potere da Arafat e non da Sharon. Non si vede poi come un referendum consultivo come quello interno al Likud sul ritiro possa essere considerato antidemocratico. La democrazia non include più la pratica del voto?I giorni prima del capodanno ebraico (15 settembre) sono per ciascun ebreo il momento per riflettere sui peccati, le mancanze, i torti commessi. Anche il primo ministro israeliano è parte di questa comunità e deve valutare le cose fatte - o meglio le non fatte.
Il famoso piano del ritiro dalla Striscia di Gaza e da alcune parti della Giudea e Samaria è un passo importante, che però non viene portato avanti da Ariel Sharon, ma anzi fu bocciato dal suo partito con un referendum poco democratico. La proposta del primo ministro non ha avuto l'appoggio del Likud e si tratta - è doveroso sottolinearlo - non di un piano di pace, bensì di un ritiro unilaterale.
Quando il primo ministro promette che il ritiro avrà luogo agli inizi del 2005, dobbiamo ricordare che fu lui a dire, almeno tre volte quest'anno, che chi dei 6.000 coloni della Striscia (non 800.000 come riportato da Repubblica il 1 settembre) vorrà lasciare la sua casa prima del ritiro, potrà trattare subito per un indennizzo con il governo. Chi ha tentato di farlo, però, non ha trovato nessun interlocutore governativo e ha scoperto che il governo non ha preparato alcun piano di risarcimento.
Negli ultimi mesi Sharon e il ministro della Difesa Mofaz hanno promesso ad americani, europei ed egiziani di smantellare nuove colonie illegali, consistenti in due o tre prefabbricati posizionati durante la notte in posti che creano disagio ai palestinesi. Le colonie sono rimaste al loro posto e a giustificazione di ciò il ministro della Difesa risponde di non aver smantellato questi avamposti perché sta ancora aspettando le foto satellitari per capirne meglio l'ubicazione.
Se non bastassero le sopraddette promesse mancate, che grande danno recano alla credibilità internazionale di Israele, si deve aggiungere la questione del muro. Un anno fa Ariel Sharon era contrario, diceva che non serviva. Sono passati i mesi, si sono succeduti gli attentati, Sharon e il suo staff hanno cambiato idea, scegliendo in fretta un tracciato che non si basa sui confini del '67, riconosciuti da Occidente, Russia e Cina, e anche - elemento di non poca importanza - dai paesi arabi moderati. Il tracciato scelto da Sharon prendeva forma dalle dure reazioni dei coloni diventando un compromesso fra le istanze della destra israeliana e quelle per la sicurezza di Israele. Alla vigilia del capodanno è opportuno riconoscere che il progetto del muro non proviene da Sharon e dal Likud: già due anni fa lo scrittore A. B. Yehoshua parlava della necessità di separare i due popoli per un periodo di tempo, ipotizzando un muro sui confini del '67.
Il tracciato di Sharon è stato bocciato due volte: una dalla Corte Suprema israeliana (che ha riconosciuto la necessità difensiva, ma ha criticato la sofferenza che l'attuale muro crea a migliaia di palestinesi) e una dal Tribunale dell'Aja. In entrambi i casi Sharon ha assicurato di prendere in considerazione le decisioni espresse dai due prestigiosi organi, ma ad oggi nulla è stato fatto. Questa esitazione ha contribuito, a mio avviso, ad alimentare nella leadership dei coloni la convinzione che con minacce e violenza essi possono bloccare il ritiro e modificare il muro.
Trovandosi in una posizione di estrema debolezza dentro il suo partito, un mese fa Sharon ha tentato di usare il vecchio trucco di ogni primo ministro israeliano in difficoltà: il governo di unità nazionale (che non ha mai portato ad accordi di pace e trattative serie).
L'attentato del 31 agosto sarà certamente portato dal governo come prova della inaffidabilità dell'Autorità Palestinese e usato per convincere le opinioni pubbliche israeliane e americane, alla vigilia delle elezioni presidenziali. Da anni Ariel Sharon non conduce trattative serie con un primo ministro palestinese e nega autorevolezza alla giovane leadership palestinese che pure esiste: Mohammed Dahlan, Seri Nusseiba e Gibril Ragiub.
Negli ultimi giorni, dopo la grande manifestazione contro il governo Sharon organizzata a Gerusalemme dai coloni, tornano in mente le contestazioni contro Rabin di dieci anni fa. Sharon può contare sull'appoggio della maggior parte della società israeliana se prenderà decisioni storiche. Un leader della sua età e della sua esperienza sa bene che decisioni dolorose possono migliorare il futuro di una nazione.
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