Arafat presidente a vita
l'auspicio di Udg e dei dirigenti palestinesi che ha intervistato
Testata:
Data: 19/07/2004
Pagina: 9
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Rischiamo di diventare la Somalia del Medio Oriente
Accanto alle cronache degli ultimi giorni della rivolta di Gaza, Umberto de Giovannangeli è solito inserire un'intervista ad un qualche personaggio rappresentativo della realtà palestinese, il quale immancabilmente non perde occasione di tirare in ballo le malefatte dell'unilateralismo di Sharon, causa di tutti i mali. E' questo il caso dell'intervista pubblicata oggi a Kadura Fares (19.07.04) dove l'intervistato appare più che altro desideroso, nonostante ne critichi la gestione accentratrice del potere, di affermare la propria lealtà ad Arafat. Saeb Erekat, nell'intervista pubblicata ieri 18.07.04, sostiene la necessità delle riforme degli apparati di sicurezza e della lotta alla corruzione, ma auspica che le riforme attese vengano attuate dalla vecchia leadership di Fatah, accusando gli oppositori interni di star "lavorando nella stessa direzione di Ariel Sharon", ovvero per la "delegittimazione dell'Autorità palestinese" della quale per altro fa parte. I due intervistati quindi non discutono la leadership di Arafat, così come non sembra farlo Udg che dà esclusivamente loro voce.Un atteggiamento, questo del giornalista dell'Unità, che dimostra il suo persistere su posizioni che persino amici storici di Arafat, come Antonio Ferrari sul Corriere della Sera di ieri domenica 18-07.04, sembrano finalmente propensi ad abbandonare.
Ecco il pezzo sull'Unità:

Altro che embrione di uno Stato palestinese in divenire. La Striscia di Gaza rischia di trasformarsi in una sorta di Somalia mediorientale dove a farla da padrone sono i signori della guerra e le loro bande. Occorre saper distinguere tra la richiesta di riforme e di lotta alla corruzione che proviene dalla società palestinese, a cui dobbiamo una risposta immediata, e i tentativi in atto da parte di vari capi fazione di strumentalizzare il malessere popolare per rafforzare il proprio potere. Una cosa è certa: dalla crisi di legittimità e di capacità di azione in cui l'Autorità palestinese è precipitata non se ne esce con operazioni di facciata o peggio ancora alimentando la logica perdente dei clan». A parlare è Kadura Fares, ministro dell'Anp ed esponente di punta dell'ala riformatrice di Al Fatah. «Gli avvenimenti di Gaza - sottolinea Fares - sono utilizzati da Sharon per dimostrare al mondo che non esiste una controparte con cui intavolare un serio negoziato di pace. I signori della guerra di Gaza si dimostrano ancora una volta i migliori alleati dei falchi israeliani». E sull’anziano raìs, Fares dice: «Non è in discussione l’Arafat simbolo della lotta di resistenza e di liberazione nazionale; in discussione è l’Arafat presidente e la sua gestione accentratrice del potere».
Nella Striscia di Gaza regna il caos armato. È una situazione ormai ingovernabile?
«Lo può diventare se l'Anp non darà prova di saper prendere in mano la situazione e agire su due fronti: quello del ristabilimento della legalità e quello dell'avvio di riforme interne che spazzino via la corruzione e portino ad un ricambio di classe dirigente. I due piani sono tra loro strettamente intrecciati. Gaza è un problema politico e non solo di ordine pubblico».
Le nomine dei nuovi capi dei servizi di sicurezza operate dal presidente Arafat hanno scatenato la protesta popolare a Gaza.
«Occorre saper distinguere tra le ragioni vere di un malessere diffuso tra la gente e il tentativo operato da vari capi fazione di strumentalizzarli. Le riforme necessarie per ristabilire un rapporto di fiducia tra la dirigenza e il popolo palestinesi non possono certo limitarsi alle nomine operate dal presidente Arafat. E nel merito di alcune di queste nomine anch'io ho forti riserve. La lotta alla corruzione e l’emarginazione di chiunque ne sia stato responsabile o complice deve essere al primo posto nell’azione di un governo che voglia riconquistare la fiducia della società palestinese. Ma deve essere altrettanto chiaro che dietro le espressioni più violente della lotta di potere scatenatasi a Gaza vi sono logiche personalistiche che nulla hanno a che fare con la necessità di attuare un piano di riforme che garantiscano trasparenza e pluralità nelle decisioni che investono il futuro del popolo palestinese».
Il premier Abu Ala ha rassegnato le sue dimissioni. Il presidente Arafat le ha respinte. Ma le dimissioni restano sul tavolo.
«Riterrei gravissima una rottura tra Arafat e Abu Ala, perché rafforzerebbe il processo di disintegrazione dell'Autorità palestinese e aprirebbe la strada ad una situazione, senza ritorno, di caos e anarchia armata nei Territori. Molto dipenderà dall'atteggiamento di Arafat: frenare il processo di riforme o divenirne uno dei massimi artefici. In gioco non c'è solo il destino personale di un leader. C'è il futuro stesso della causa palestinese. Ad Arafat dico: non basta il carisma per superare la crisi».
Il premier israeliano Ariel Sharon ha affermato che gli scontri di Gaza dimostrano che non esiste una controparte palestinese affidabile e legittimata con cui intavolare un negoziato.
«Sharon ha fatto di tutto per delegittimare e colpire con ogni mezzo l'Autorità palestinese e i suoi dirigenti. Ogni suo atto si è mosso in questa direzione. La destra israeliana non ha mai puntato a favorire la crescita di una nuova classe dirigente in campo palestinese ma ha operato, politicamente e sul piano militare, per realizzare il caos nei Territori, illudendosi così di non dover mai sedersi ad un tavolo negoziale per trattare una pace giusta, tra pari. L'unilateralismo forzato di Sharon prescinde dall'esistenza di una controparte disposta al compromesso, come dimostra la demonizzazione operata nei confronti dell'Accordo di Ginevra (il piano di pace messo a punto da politici, intellettuali, militari israeliani e palestinesi, ndr.). Sharon teme, o spera, che la Striscia di Gaza possa trasformarsi, dopo il ventilato ritiro israeliano, in un feudo di Hamas. Ma il rischio vero è che la Striscia divenga una sorta di Somalia mediorientale, dove a dettar legge sono i signori della guerra».
Qual è il segnale politico che emerge dal «caos di Gaza»?
«È un segnale chiaro e drammatico. È una sorta di ultima chiamata per la dirigenza palestinese. L'alternativa alle riforme non è il mantenimento dello status quo ma un processo di disintegrazione dell'idea stessa di un'autorità politica in grado di guidare il popolo palestinese alla libertà e all'indipendenza».
Lei è stato tra i fautori di una smilitarizzazione dell’Intifada. È ancora di questo avviso?
«Lo sono sempre di più perché l’intifada dei kamikaze ha provocato solo guasti per la causa palestinese. La pratica terroristica espropria il popolo palestinese di quel protagonismo che fece della prima intifada una vera rivolta popolare. La militarizzazione della rivolta non è solo il prodotto del pugno di ferro israelaino, è anche un esercizio di potere interno di chi comprende e vuol imporre il linguaggio della forza.
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