Su L'Unità di oggi viene pubblicata un intervista a cura di Udg a Sari Nusseibeh, voce moderata palestinese, a proposito della sentenza del tribunale dell'Aja sul processo farsa che vede imputato Israele e la barriera difensiva. Un'occasione che il buon Udg non poteva perdersi per attaccare Israele.«La Corte dell’Aja può restituire un senso forte a dei concetti che in Medio Oriente hanno perso di significato: quelli di legalità e di giustizia. Ciò che mi attendo dai giudici dell’Aja è un segnale di speranza che supporti l’azione di quanti, palestinesi e israeliani, sono convinti che non è erigendo muri, determinando ghetti, trasformando città e villaggi in prigioni a cielo aperto, così come non è con la militarizzazione estrema dell’intifada che israeliani e palestinesi riusciranno un giorno a vivere in pace». A parlare è Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al-Quds di Gerusalemme Est, tra gli intellettuali palestinesi più impegnati nel dialogo. «Essersi rivolti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja - annota la colomba palestinese - è anche un modo per internazionalizzare una crisi che da soli i due popoli e le rispettive leadership politiche non sono oggi in grado di portare a soluzione». Sugli effetti determinati nei Territori dalla costruzione del «muro», Nusseibeh è perentorio: «Il muro - dice - significa la morte lenta dei palestinesi».
Un preambolo che anticipa perfettamente il tono dell'intervista: condanna totale del "muro dell'apartheid". Il muro per Nusseibeh significa la morte lenta dei palestinesi, il sindaco di Nablus dice invece che il "muro" è stata la chiave di rinascita della città; ma la sua è un'opinione che L'Unità non ha pubblicato
Professor Nusseibeh, domani la Corte internazionale di giustizia dell’Aja si pronuncerà sul «muro». Qual è la sua aspettativa?
«Ai giudici chiedo solo di essere se stessi, senza vestire mentalmente i panni del politico o dello statista chiamati a dare soluzione a un conflitto interminabile. Mi auguro che i giudici affermino che legalità e diritto internazionali non sono parole vuote, da sacrificare sull’altare della realpolitik o dell’esercizio di potenza. Ho fiducia in loro e penso che concluderanno che la costruzione del muro su un territorio occupato è illegale in rapporto al diritto internazionale».
Come faranno i giudici ad emettere una sentenza di diritto su una questione che è di natura politica per il modo stesso in cui è stata posta, rifiutando di giudicare, contestualmente alla legittimità della barriera, anche il terrorismo che l'ha resa necessaria per proteggere la vita di civili innocenti?
Il pronunciamento della Corte dell’Aja ha solo un valore consultivo.
«Quel "solo" mi pare troppo riduttivo. Certo, i giudici dell’Aja non possono imporre a Israele di bloccare la costruzione del muro ma sul piano politico ed anche su quello etico una censura del comportamento israeliano avrebbe delle ricadute importanti sul piano interno e a livello internazionale, riportando la questione in sede Onu, e darebbe nuovo impulso all’azione delle forze che nei due campi credono e si battono per il dialogo e per una pace giusta, fondata sul principio dei due Stati. La Corte può stabilire quali siano i confini oltre i quali la politica di potenza non può spingersi senza calpestare legalità e diritto delle persone e dei popoli; anche per questo il suo pronunciamento è di grande importanza».
Le autorità israeliane sottolineano il carattere difensivo del «muro».
«Francamente trovo molto poco "difensivo" un muro che si incunea per decine di chilometri all’interno della West Bank, che tende a separare fisicamente Gerusalemme Est dalla Cisgiordania; un muro la cui realizzazione sottrarrà il 56% della nostra superficie territoriale configurando una annessione de facto di questi territori allo Stato d’Israele. Il muro rappresenta la forma più avanzata e devastante dell’illusione della destra israeliana di poter risolvere con forzature unilaterali la questione palestinese. Si tratta di una illusione destinata a trasformarsi sempre più in tragedia. Per ambedue i popoli. Il muro è un atto arbitrario, ingiusto, che alimenta rabbia e frustrazione e che, in prospettiva, innescherà altra violenza».
Finora il "muro", assieme al grande lavoro dei servizi di sicurezza, ha oggettivamente impedito una grande quantità di attenati; se questo non è un aspetto difensivo ...Cosa significa il muro nella quotidianità dei palestinesi della Cisgiordania?
«Lo chieda ai 40mila abitanti di Qalqiliya i quali si trovano al di qua del muro, e la terra che coltivano, anzi di cui vivono, si trova dall’altra parte. Le conseguenze del muro sono chiarite dal Rapporto stilato dal Segretario generale delle Nazioni Unite. Cito solo alcuni dati: le aree della West Bank che verrebbero a trovarsi al di là del muro, in area israeliana, sono pari approssimativamente a 975 chilometri quadrati, cioè il 16,6% dell’intero territorio, porzione popolata da 17mila palestinesi in Cisgiordania e 220 mila a Gerusalemme Est, ed altri 160 mila palestinesi verrebbero a trovarsi in enclaves completamente circondate dal muro stesso. In tali enclaves verrebbero a trovarsi l’intera città di Qalqiliya ed interi villaggi specie nella prossimità di Gerusalemme. L’impatto del muro sulla situazione socio-economica palestinese sarebbe, e già in parte lo è, devastante, sul piano della disoccupazione, che già oggi ha toccato picchi altissimi, e delle condizioni di vita. Anche qui alcuni dati emblematici: 30 località sarebbero separate dai servizi sanitari, 22 dalle scuole. 8 dalle fonti idriche e 3 dalla rete elettrica. Quella che si configura, al di qua del muro, è una lenta agonia».
la sentenza della Corte Suprema israeliana ha dimostrato che il tracciato della barriera difensiva, là dove la proporzionalità tra esigenze di sicurezza e disagi creati ai palestinesi non è rispettata, può essere modificato. Se le situazioni che descrive Nusseibeh non possono trovare soluzione in questo quadro, perchè una modifica del tracciato in quei punti comporterebbe rischi troppo elevati per gli israeliani, c'è un'unica cosa da fare: i palestinesi devono smetterla con il terrorismo.Professor Nusseibeh, la realtà da lei descritta può rafforzare i gruppi dell’estremismo armato palestinese?
«Questo rischio esiste ma non dobbiamo arrenderci a chi predica e pratica la lotta armata come unica risposta all’occupazione israeliana. Dobbiamo renderci conto che la militarizzazione della rivolta ha provocato solo danni alla causa palestinese. Uccidere civili inermi non ha nulla a che vedere con una lotta di resistenza. C’è solo un modo per salvare la causa palestinese dalla catastrofe: abbassare le armi, rinunciare alla vendetta, trasformando l’"intifada dei kamikaze" in una protesta popolare, unitaria, non violenta. Puntare sulla disobbedienza civile e sulla pratica non violenta non è una resa alla potenza militare israeliana, è l’esatto contrario. Significa rilanciare su basi nuove e più efficaci le ragioni della nostra lotta per realizzare uno Stato indipendente a fianco di Israele. È l’intifada della speranza e del coraggio civile. L’unica che può vincere».
Parole che lasciano un barlume di speranza e che ci auguriamo possano essere condivise da un numero sempre maggiore di palestinesi.Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de L'Unità. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita. lettere@unita.it9