La Repubblica di sabato 3 aprile è un numero da leggere e da conservare, per me ma penso per chiunque sia non tanto "di sinistra" quanto un idealista romantico, un amante dell' epopea e della mitologia del pionierismo ebraico. Il governo di Sharon ha deciso di aprire la strada verso la privatizzazione del kibbutz, e pare che già la metà dei kibbutzim abbia aderito a questa proposta.E su Repubblica ci sono tre pagine di rievocazioni che ricostruiscono bene, tra cronaca e mito, l' atmosfera eroica che ha sempre aleggiato attorno al kibbutz. Il kibbutz è stato, più di qualunque altra realizzazione od iniziativa ebraica, l' incarnazione stessa del mito del "ritorno alla terra" inteso come un ritorno alla "Terra" con l' iniziale maiuscola, la terra promessa, ma anche come un ritorno alle umili e faticose attività che ai tempi biblici avevano creato una forte simbiosi fra il popolo ebraico e la sua terra, che esso coltivava con amore. Non per nulla molte delle festività ebraiche sono legate al volgere delle stagioni ed alle fasi ripetitive dell' agricoltura. Ma il kibbutz è stato anche il simbolo principale della volontà di autopurificazione del popolo ebraico, profondamente avvertita dai padri fondatori del sionismo: il popolo della Bibbia era stato costretto dagli eventi e dagli "altri" a trasformarsi in un popolo migrante, legato al denaro come strumento universale di sopravvivenza fisica, al commercio come mezzo di comunicazione e di accettazione, a valori che non erano mai stati i suoi.E per secoli il contatto con la terra, con la solida concretezza della proprietà agricola, gli era stato impedito da leggi discriminanti. Dunque, tornare alla terra, e quanto più fatica questo richiedesse tanto meglio era, simboleggiava anche un riappropriarsi del proprio destino di popolo. Ogni volta che vado in Israele, e ci vado spesso, frequento un kibbutz che fa un vanto del proprio essere "duro e puro". Amo quel kibbutz perché è un luogo familiare, seguo con interesse e partecipazione la sua sofferta accettazione delle regole della moderna economia, sorrido scettico e critico dinanzi a certe scelte che mi appaiono singolari. Il suo laicismo, il suo "essere di sinistra" a tutti i costi fino a consumare scissioni, trovano ampia giustificazione nell' amore che esso dimostra per i propri anziani e per chi nella comunità è più debole.Il suo ideale collettivistico è stato ferito nel profondo dalla creazione di una industria che produce succhi di frutta e che è tra le prime in Israele, che esporta in tutta Europa la sua tecnologia e la sua esperienza; ma quanta fatica per affermarsi in un ambiente che non la voleva, che se ne sentiva estraneo ed inquinato! Ho visto le conseguenze di alcuni aspetti di questo collettivismo, che oggi si incrina definitivamente. Essere privati dell' educazione dei figli, non poter scegliere la scuola e la carriera, sono parte dell' ideale del kibbutznik, del suo bagaglio di vita vissuta - ma quanta sofferenza generano! Ecco, tutto d' un tratto tutto ciò si trasforma, e sono certo che qualche kibbutznik percepirà questa decisione di un governo di destra come una liberazione, come un atto di giustizia e di riparazione. Ma altri, non pochi altri, avvertiranno lo strappo con la loro storia personale e collettiva, con i loro ideali, con le loro speranze. Io mi sento in mezzo. Condivido con profondi sentimenti e forti emozioni la mitologia del kibbutz, la sua forza ed i suoi ideali, e sono consapevole dell' importanza di questa realizzazione nella costruzione della nuova patria del popolo ebraico - nuova nella sua concezione, ma antica nelle sue radici. Ma sono ugualmente consapevole dell' impossibilità di far convivere questi ideali con le esigenze della moderna economia di mercato, con le regole della democrazia libertaria ed aperta, con le necessità di uno stato che accoglie decine di migliaia di profughi ogni anno e deve dare loro una casa ed un lavoro. Questa contraddizione interna del kibbutz, sopravvissuto a sé stesso ma sempre vivo nei cuori, è lacerante e farà in modo che nessuno per decreto ne possa sanzionare la morte.Il nostro addio al kibbutz si riferisce al futuro, ed ha un riferimento nelle regole dominanti, ma non potrà seppellirne l' affettuoso ricordo, che con ammirazione e gratitudine ne conserviamo nel cuore.