Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 20/12/2025, a pagina 1, l'editoriale di Iuri Maria Prado dal titolo "Israele è forte perché è libero".

Iuri Maria Prado
Non è un caso che Israele, nonostante sia bersagliato da ogni fronte diplomatico e politico, proprio in questi giorni concluda contratti e instauri rapporti di scambio commerciale con Paesi a democrazia avanzata. Succede perché Israele è forte. Ma non è forte perché ha un esercito forte.
Israele è forte perché ha investito nel sapere scientifico, nella ricerca, nell’istruzione, nell’avanzamento tecnologico. Soprattutto, Israele è forte perché la società israeliana è libera e perché sono liberi i cittadini che l’hanno costruita. Le reti produttive, finanziarie e industriali delle democrazie economicamente avanzate che commerciano e definiscono protocolli di collaborazione con Israele non lo fanno valutando il numero dei carri armati o dei caccia di cui dispone lo Stato ebraico. Lo fanno perché Israele è affidabile, e perché rinunciare a esserne partner significa rinunciare a possibilità di sviluppo e di posizionamento competitivo.
Se non è mai esistita una politica di isolamento, di embarghi e di boicottaggi nei confronti delle democrazie economicamente avanzate, non è perché queste proteggevano con le armi la propria azione produttiva e commerciale. È perché l’efficienza di quelle economie, fondate su società libere e sorrette da sistemi democratici affidabili, remunerava in benessere diffuso e in maggiore stabilità il circuito dei partecipanti a quel sistema virtuoso.
Per questo motivo non funzionano le architetture di blocco disegnate nelle risoluzioni, nelle mozioni e nelle raccomandazioni che invocano la chiusura dei rapporti economici e commerciali con Israele. Non perché siano soltanto ingiuste, ma perché sono incompatibili con la realtà, che necessariamente va da un’altra parte e non può restare inviluppata in limitazioni insensate.
Va inoltre ricordato che nessuna delle iniziative vagheggiate in campo internazionale e umanitario a detrimento delle possibilità produttive, economiche e commerciali di Israele porterebbe alcun vantaggio alla popolazione palestinese, né avvicinerebbe anche solo di poco una soluzione del conflitto. I sistemi di difesa, i farmaci, le biotecnologie, le intelligenze artificiali, le innovazioni nella produzione agricola e i progressi in campo medico, sanitario e diagnostico che provengono da Israele arricchiscono di progresso le società che li adottano.
Immaginare che tutto questo costituisca un dispositivo di profitto organizzato da un’entità coloniale che “scarica bombe sul diritto di autodeterminazione dei palestinesi”, magari con la complicità di multinazionali e Stati senza scrupoli, può andare bene per i pamphlet delle agitatrici dell’Onu che straparlano di “economia del genocidio”. Ma si tratta, ancora una volta, di desolanti dimostrazioni di ideologico attaccamento all’irrealtà.
Se Israele prospera, essendo passato in pochi decenni da un’economia da Terzo Mondo alla posizione attuale, cioè al vertice qualitativo dei sistemi democraticamente avanzati, è perché ha investito in sé stesso, nella propria libertà e nel proprio futuro. È perché non ha investito in una rete di tunnel. Resta così, anche se si fa finta che non sia così.
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