L’incapacità di dire: 'Intifada globale'
Editoriale di Claudio Cerasa
Testata: Il Foglio
Data: 19/12/2025
Pagina: 1/VII
Autore: Claudio Cerasa
Titolo: L’incapacità di dire: 'Intifada globale'

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 19/12/2025, a pag. 1/VII, con il titolo "L’incapacità di dire: 'Intifada globale'", l'editoriale del direttore Claudio Cerasa.

ClaudioCerasa
Claudio Cerasa

Una settimana dopo il massacro degli ebrei a Sidney, nessuno dei commentatori nota che si è trattato dell'applicazione alla lettera dell'Intifadah Globale. Ormai è normalizzata la caccia all'ebreo. Questo attentato è figlio del suo tempo.

Sono passati sei giorni dalla strage di Sydney. Sono passati sei giorni dall’orrore che ha portato su una delle più importanti spiagge australiane, durante una delle più importanti feste ebraiche, sangue, terrore, vittime e lacrime.

Sono passati sei giorni da quel pomeriggio, in cui la furia cieca di due terroristi ha tolto la vita a quindici ebrei colpevoli di essere ebrei, e sei giorni dopo quei fatti drammatici nell’opinione pubblica internazionale, e anche in quella italiana, emerge con forza, con preoccupazione e con tristezza l’assenza di una consapevolezza.

L’assenza di un’espressione.

L’assenza di una verità. Quella di Sydney non è stata solo una strage dettata da un raptus improvviso di antisemitismo. E non è stata, come appare dalle cronache di questi giorni, una semplice sparatoria, come se fosse un classico attentato in una scuola americana. Quella di Sydney è stata una strage dettata da un nuovo spirito del tempo, che ha normalizzato la caccia agli ebrei in nome della globalizzazione dell’Intifada. La globalizzazione dell’Intifada, e la normalizzazione della caccia agli ebrei, è un fenomeno carsico, per così dire, che si alimenta di silenzi, che si alimenta di sottovalutazioni, che si alimenta di distrazioni e che si alimenta di assiomi molto pericolosi. Se il sionismo diventa il male da estirpare dal mondo e se ogni ebreo diventa il simbolo del sionismo, non ci vuole molto a capire che ogni tentativo di combattere un sionista, con tutti i mezzi a disposizione, è un tentativo che improvvisamente trova una sua legittimità.

Il vocabolario dell’Inti fada globale è qui con noi, nel nostro quotidiano. E’ nelle manifestazioni nelle piazze. E’ negli slogan nelle università. E’ nei volantini delle occupazioni dei licei. E’ nel linguaggio della nostra nuova normalità. Jillian Segal, inviata speciale del governo australiano per la lotta contro l’antisemitismo, mesi fa aveva avvertito del fatto che “il comportamento antisemita non è solo presente in molti campus, ma è parte integrante della nostra cultura”.

Nel mondo della destra, spesso, nella destra più estrema, si registra sempre un certo disagio, una volontà di rimozione, ogni volta che un suprematista uccide qualcuno, commettendo qualche strage, utilizzando le parole d’ordine pronunciate dalla destra xenofoba. In quei casi, la sinistra, quella mondiale, è sempre pronta a lanciare un qualche allarme, è sempre pronta a chiedere alla destra di ragionare sulla “radice” della violenza, è sempre pronta a notare che se si predica odio prima o poi qualcuno utilizzerà le parole dell’odio per passare all’attacco. Nel mondo della sinistra, però, non in tutta, solo in quella che più in questi anni non ha fatto abbastanza per evitare di trasformare le critiche a Netanyahu in una demonizzazione del sionista, dell’ebreo, ogni volta che vi è un atto di antisemitismo, ogni volta che vi è un tentativo di esportare con i fatti l’Intifada globale, emerge con forza un desiderio opposto: una volontà di rimozione, di contestualizzazione, di non generalizzazione. Succede quando un islamista commette una qualche strage in nome dell’islam. Succede quando qualche estremista compie una strage in nome dell’antisionismo. Jonathan Sacerdoti, formidabile commentatore dello Spectator, qualche giorno fa ha messo insieme qualche puntino per spiegare qual è il dramma che non vogliamo mettere a fuoco quando parliamo di antisemitismo. Piccoli puntini, con un disegno chiaro. La persecuzione che ci viene rivolta e il pericolo che corriamo, dice, sono dovuti alla convergenza di diverse forze. Gli islamisti forniscono il motore teologico. L’estrema sinistra fornisce la copertura ideologica. Anarchici e regimi stranieri sfruttano le crepe. La sinistra mainstream annuisce silenziosamente. Il risultato è “un’alleanza empia, diffusa ma coordinata”, il cui effetto finale è “destabilizzare l’occidente dall’interno”. Perché, in fondo, i bersagli dei promotori dell’Intifada globale non sono solo gli ebrei, ma sono anche le norme che sostengono la civiltà occidentale: “Sicurezza pubblica, uguaglianza giuridica, libertà di espressione, fiducia civica”. Il primo ministro australiano, due giorni fa, ha annunciato, dopo la strage, norme ancora più severe per punire l’odio e la sua diffusione. Le leggi possono servire, è ovvio, ma quello che manca in occidente, e anche in Italia, non sono norme più severe. Manca qualcosa di più importante. Manca la consapevolezza di non voler lasciar passare uno spiffero. Manca la consapevolezza che condannare l’antisemitismo senza andare alla radice dell’antisemitismo significa creare le condizioni per far nascere nuova violenza. Manca la consapevolezza che un ebreo che diventa colpevole di essere ebreo non è una minaccia per il popolo ebraico. E’ una minaccia per la libertà di tutti. Le idee sono importanti, ha scritto Bret Stephens sul Wsj, perché plasmano ciò che le persone arrivano ad accettare, soprattutto quando vengono ripetute senza essere contestate. In questo senso, “globalizzare l’Intifada” non è lo slogan di un movimento di protesta. Non è una generica resistenza. E’ l’evocazione di un jihad fatto di omicidi, di terrore e di distruzione. E per questo non ci si può stupire se dopo aver globalizzato l’Intifada alla fine c’è qualcuno, in qualche parte della terra, che quella Intifada la trasforma in sangue, terrore, violenza e realtà.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostanti

lettere@ilfoglio.it