Abu Mazen da Meloni: il monologo stanco di un autocrate che non ha più consenso
Commento di Aldo Torchiaro
Testata: Il Riformista
Data: 13/12/2025
Pagina: 3
Autore: Aldo Torchiaro
Titolo: Abu Mazen da Meloni: il monologo stanco di un autocrate che non ha più consenso

Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 13/12/2025, a pagina 3, il commento di Aldo Torchiaro dal titolo: "Abu Mazen da Meloni: il monologo stanco di un autocrate che non ha più consenso".

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Aldo Torchiaro

Lo stanco discorso di Abu Mazen alla kermesse Atreju di Fratelli d'Italia. Solite tesi poco credibili, "due popoli in due Stati", da parte del vecchio leader palestinese, laureato con tesi negazionista, doppiogiochista con il terrorismo islamico (lo combatte di facciata, ma sotto continua a sostenerlo) e privo di consensi anche in patria. Ma perché Giorgia Meloni ha deciso di invitarlo? Così è la solita politica italiana.

Sul palco di Atreju, Abu Mazen appare subito affaticato. Cammina a fatica, parla a stento. È Giorgia Meloni ad accompagnarlo passo dopo passo fino al centro della scena, ed è ancora la presidente del Consiglio a offrirgli il podio, quasi a sorreggere — fisicamente e politicamente — una presenza che da subito appare fragile.

Quello del presidente dell’Autorità nazionale palestinese non è un dialogo, né un confronto. È un monologo: inemendabile, ininterrotto. Un discorso che procede senza pause, senza domande e senza repliche, ma anche senza ritmo. Dopo pochi istanti diventa evidente che Abu Mazen fatica persino a farsi sentire. Uno dei volontari di Atreju è costretto ad avvicinarsi per sistemare con cura i microfoni del podio, accostandoli alle labbra del leader palestinese. Un gesto discreto, ma eloquente.

La traduzione simultanea non aiuta. Parte in ritardo, con le stesse incertezze della voce che dovrebbe inseguire. Passano oltre due minuti prima che il solfeggio in arabo — lento, cantilenante — trovi una resa in italiano. Nel frattempo la platea resta sospesa, più per disorientamento che per ostilità. Quando finalmente le parole arrivano, Abu Mazen dice ciò che ripete da anni: «Aspiriamo a vivere nella nostra patria con libertà e dignità, in uno Stato moderno che crede nel pluralismo, nell’uguaglianza e rigetta la violenza, così come fa l’Italia». È una dichiarazione di principio impeccabile, quasi occidentale. E proprio per questo già sentita.

Presentandolo, Giorgia Meloni rivendica il valore politico della sua presenza: «Con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese oggi sul palco di Atreju si fa giustizia di tante falsità che abbiamo sentito sull’operato del governo a Gaza». È un messaggio rivolto soprattutto alla politica italiana, più che al Medio Oriente.

Abu Mazen prosegue senza interruzioni: «Vogliamo costruire uno Stato basato su pilastri solidi. Un unico Stato, con una sola legge, e con le armi soltanto nelle mani delle istituzioni legittime». È il passaggio più netto del discorso, quello che implicitamente chiama in causa Hamas. Ma resta una formula, non una strategia; una linea teorica, non un rapporto di forza. Tra i parlamentari seduti nelle prime file si coglie un comprensibile scetticismo. Chi fa politica lo sa: i vuoti si riempiono. Ed è proprio dalla debolezza della leadership di Fatah, giunta al tramonto, che Hamas ha tratto la propria linfa vitale e ferale. La forza dei “giovani leoni”, come amano definirsi, nasce dalla vacatio sedis dell’autogoverno palestinese che, dalla firma degli accordi di Oslo a oggi, ha attraversato uno smarrimento profondo.

Abu Mazen parla poi di elezioni, come se fossero a portata di mano: «Confermiamo la volontà di favorire un processo elettorale, sia parlamentare che presidenziale, subito dopo la conclusione delle ostilità». Anche qui la traduzione arriva lenta, e la platea ascolta con crescente diffidenza. Quelle elezioni sono promesse da anni e puntualmente rinviate. “Ragioni di sicurezza”, “crisi del Covid”, “guerra a Gaza” sono stati gli ultimi alibi. Sono passati vent’anni dalla morte di Yasser Arafat: dal 2005 Abu Mazen governa senza un mandato elettorale. È difficile credergli quando evoca un ritorno al voto libero.

La perplessità aumenta quando il discorso si allarga al quadro regionale: «I recenti eventi dimostrano che la mancata esistenza di uno Stato palestinese è uno degli elementi di instabilità in Medio Oriente». È una lettura parziale, che scarica sul vuoto statuale una crisi ben più complessa, fatta di attori armati, sponsor regionali e leadership fragili.

Infine, l’appello all’Italia: «Sono 160 i Paesi che riconoscono lo Stato palestinese. Auspichiamo che l’Italia possa proseguire su questo tracciato». Il riconoscimento come chiave universale — uguaglianza, pace, riduzione della forza — diventa una scorciatoia diplomatica che elude la questione centrale: chi governa davvero oggi i territori palestinesi.

Il discorso si chiude così com’era iniziato: senza domande, senza contraddittorio. Abu Mazen resta al podio, sostenuto più dalla forma che dalla sostanza. Atreju ascolta, traduce, registra. Ma la sensazione diffusa è che, più che un progetto per il futuro, quello andato in scena sia stato il racconto stanco di un passato che non riesce a diventare presente.

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