Il silenzio che fa carriera
Commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise
C’è un’arte antica, nelle nostre vite pubbliche, che non compare nei manuali di comunicazione e neppure nei corsi di leadership: quella di non dire nulla quando bisognerebbe parlare, e di parlare solo quando non costa più niente. È un talento diffuso e trasversale, che premia gli astuti e punisce i coraggiosi, e che oggi – nell’ecosistema politico-mediatico – è diventato una vera strategia di avanzamento: la promozione per omissione.
Il meccanismo è semplice. Quando un tema brucia davvero – antisemitismo in rialzo, violenza politica, aggressioni alle democrazie liberali, Hamas che devasta la regione, minoranze sotto attacco – chi ambisce a una carriera istituzionale o accademica sa che una parola di troppo può diventare un marchio. Meglio tacere, aspettare che il fumo si diradi e far finta di non vedere. Nel frattempo, si osserva chi rischia: giornalisti, studiosi, amministratori che espongono la faccia e si prendono secchiate di fango. E proprio mentre loro pagano il prezzo della chiarezza, gli altri lucidano la propria reputazione neutrale e rassicurante.
Poi arriva il momento giusto, quello in cui il pericolo politico è svanito. Lì, come per incanto, i silenziosi risorgono: dichiarazioni tardive, indignazioni postume, prese di posizione sterilizzate dal tempo. Sono parole che non rischiano più nulla, e che anzi permettono di presentarsi come saggi, moderati, capaci di ponderare. È il coraggio a orologeria, un coraggio che sboccia soltanto quando non serve più.
Gli esempi sono sotto gli occhi di chiunque voglia guardarli. Accademici che hanno taciuto per mesi davanti a mobilitazioni che dipingevano Israele come un’entità da cancellare, e che oggi scoprono – buon per loro - “la complessità” del Medio Oriente. Amministratori che sul tema dell’antisemitismo hanno sussurrato per non irritare segmenti del proprio elettorato, salvo poi ergersi a paladini della concordia quando la polemica si è spenta. E, naturalmente, politici di ogni livello che hanno lasciato soli i bersagli del linciaggio social per poi intestarsi, a tragedia consumata, l’ovvietà del “dobbiamo abbassare i toni”.
Il silenzio utile non è mai un incidente. È una postura, una tecnica sopraffina. Funziona così: si misura l’aria, si calcola chi può offendersi e naturalmente si prevede il costo reputazionale di ogni parola. Se il prezzo è alto, si tace. Se è basso, si parla. Se è nullo, si parla moltissimo. È un algoritmo umano che premia la prudenza travestita da equilibrio e punisce la franchezza spacciata per radicalità.
Eppure – e questo è il punto davvero interessante – il silenzio utile non è soltanto un comportamento individuale. È diventato un criterio di selezione: chi tace al momento giusto dimostra di essere affidabile, gestibile, innocuo. È così che si apre la strada a una carriera lineare, senza scossoni. Chi invece sceglie la parola vera quando la situazione è incandescente viene considerato problematico, spigoloso, troppo indipendente. Non adatto.
Ma le democrazie maturano solo quando qualcuno rompe questo schema. Non servono eroi, basta che ogni tanto una voce si alzi mentre tutto rischia di bruciare. Non dopo. Non quando è comodo. Altrimenti la vita pubblica si riempie di statue perfette nell’inerzia: persone che hanno fatto del silenzio un curriculum e dell’omissione un titolo di merito. Non stupiamoci allora se il rumore dell’epoca è così assordante: spesso è fatto proprio da chi ha taciuto quando contava. E che ora, a costo zero, rivendica un coraggio mai avuto.
takinut3@gmail.com