Nella base di Kiryat Gat, dove si studia il futuro di Gaza
Analisi di Sharon Nizza
Testata: Il Foglio
Data: 21/11/2025
Pagina: 4
Autore: Sharon Nizza
Titolo: Nella base di Kiryat Gat, dove si studia il futuro della “Gaza verde”

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 21/11/2025, a pag. 4, l'analisi di Sharon Nizza dal titolo: "Nella base di Kiryat Gat, dove si studia il futuro della “Gaza verde”".

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Sharon Nizza
Nella base di Kiryat Gat, dove si studia il futuro della “Gaza verde” | Il  Foglio
Kiryat Gat è diventata il centro operativo del nuovo Cmcc del Centcom, che coordina la tregua a Gaza e l’ingresso degli aiuti con oltre 600 funzionari da 40 paesi, esclusa l’Unrwa.
La risoluzione Onu 2803 apre alla creazione di una Forza internazionale di stabilizzazione e alla ricostruzione della “Gaza verde”, mentre resta incerto il futuro della parte ancora controllata da Hamas

Kiryat Gat. Posizionata strategicamente a metà strada fra Tel Aviv e la Striscia di Gaza, nata negli anni ‘50 come una “cittadina di sviluppo” per popolare le periferie israeliane, abitata principalmente da classe lavoratrice di immigrati da Marocco, Etiopia ed ex Unione sovietica, nell’ultimo mese l’anonima cittadina di Kiryat Gat si è trasformata nel crocevia della geopolitica mediorientale. E’ qui che il Centcom, il Comando centrale dell’esercito statunitense (con competenza sul medio oriente, e sotto la cui egida è stato posto Israele nella precedente Amministrazione Trump, spostandolo dal Comando Europa), ha stabilito, il 17 ottobre scorso, il Centro di Coordinamento civile-militare (Cmcc), per monitorare l’implementazione della tregua a Gaza e l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia. Accolto da un militare americano, il Foglio ha visitato il Centro, collocato in un grande magazzino dismesso nell’area industriale della città. Il soldato a stelle e strisce si scusa per il rumore, ma i lavori sono in corso per rendere la struttura adatta a ospitare gli oltre seicento funzionari arrivati da quaranta paesi. Ventuno di questi (tra cui Inghilterra, Spagna, Francia, Australia, Italia, Germania, Canada, Emirati, Giordania) sono presenti con delegazioni militari, mentre gli altri sono rappresentati da delegazioni di cooperazione internazionale e ong. Ci sono anche la Croce Rossa e l’Onu, ma non nella forma dell’Unrwa, L’Agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi è stata estromessa. “E’ diventata una sussidiaria di Hamas”, ha detto il mese scorso il segretario di stato Marco Rubio visitando il Cmcc.

Mentre ci apprestiamo a iniziare la visita, le auto nei parcheggi riservati confermano che si trovano in loco anche il generale Patrick Frank e Steven Fagin, fino all’altro ieri ambasciatore in Yemen, responsabili rispettivamente della parte militare e civile delle operazioni per gli Stati Uniti. E’ parcheggiata anche l’auto del generale Yaki Dolf, l’omologo israeliano di Frank, e quella dei vertici del Cogat, l’ente che coordina le attività civili dell’esercito nei Territori palestinesi. Una settimana fa, ci racconta una fonte, è avvenuto un “passaggio di consegne formale dal Cogat al Cmcc”, ma de facto sono ancora principalmente gli israeliani a gestire le operazioni sul campo. Sempre dal parcheggio capiamo che si trova qui anche il Generale di Brigata Sergio Cardea – un passato in servizio, tra gli altri, in ex Jugoslavia, Kosovo e Afghanistan – come responsabile della delegazione militare italiana, che vede ancora un’esigua presenza, destinata a crescere secondo le fonti. La gestione civile è stata invece affidata all’ambasciatore Bruno Archi, inviato speciale dell’Italia per la ricostruzione di Gaza, che pure ha già inviato dei funzionari. La maggior parte dei soldati, duecento, è attualmente americana (cosa che sta facendo fibrillare l’app di conoscenze online Tinder, come ci racconta una ragazza di qui, entusiasta della nuova linfa vitale nella cittadina sonnolente). Il soldato americano che ci guida spiega che i cambiamenti sono dinamici e repentini e che in questo momento al Cmcc sta diminuendo la componente militare rispetto a quella civile. Un’informazione lineare con quanto trapelato nei giorni corsi: gli Stati Uniti stanno cercando di stabilire un’altra base, prettamente militare, sempre in territorio israeliano ma più a ridosso della Striscia di Gaza, per cui l’Amministrazione Trump avrebbe allocato mezzo miliardo di dollari.

L’approvazione lunedì al Consiglio di Sicurezza dell’Onu della risoluzione 2803 qui è vista come fondamentale: “Fornisce la cornice legale”. Uno dei punti più critici e sibillini riguarda l’istituzione di una “Forza di stabilizzazione internazionale (Isf) temporanea a Gaza, da schierare sotto un comando unificato, con forze fornite dagli stati partecipanti, in stretta cooperazione con Egitto e Israele” si legge nel testo. L’Isf dovrebbe avere un ruolo nella “demilitarizzazione” della Striscia e gradualmente subentrare all’Idf. Tuttavia, dalle conversazioni con i funzionari al Cmcc, non emerge alcun dettaglio in merito al disarmo di Hamas, previsto dall’implementazione della seconda fase del piano dei 20 punti di Trump, che peraltro è stampato nella sua interezza su enormi cartelli posizionati ovunque nella base, una sorta di tavole della legge presidenziali.

Un piano del Cmcc è dedicato unicamente ai militari israeliani, un altro a quelli americani. Il piano di mezzo, dove ci è consentito sbirciare, è quello dove si incontrano tutte le delegazioni in un enorme spazio aperto con postazioni di lavoro improvvisate. In questa torre di Babele di lingue e divise, si trova un gigante monitor con la mappa della Striscia di Gaza, dove viene monitorato il flusso dei convogli in entrata (900 nella giornata di ieri) Un alto comandante militare con vasta esperienza in complessi scenari di guerra, sussurra che è un “modello assolutamente nuovo: tutti condividono gli stessi spazi. La collaborazione tra la componente militare e gli operatori civili è inedita”. Qui si parla di modelli per la ricostruzione, di sistema scolastico, diritto di proprietà, costituzione di “comunità sicure alternative”, di rimozione dei detriti e di bombe inesplose. Si affronta anche il tema della formazione delle Forze di polizia palestinesi, coordinata da Egitto e Giordania, in cui l’Italia potrebbe avere un ruolo, considerata l’esperienza dei carabinieri nella missione Eubam al valico di Rafah. Quello che emerge dalle conversazioni è che tutti questi aspetti riguardino solo Gaza est – che nel gergo in uso alla base è la “Gaza verde” – ossia l’area ancora sotto l’Idf. Cosa dovrebbe succedere invece nella “Gaza rossa” – o Gaza ovest, il 47 per cento della Striscia ancora sotto Hamas – non è l’argomento di cui ci si occupa qui, non quantomeno al piano di lavoro congiunto. Un funzionario condivide che si sta cercando di testare un modello: accelerare la ricostruzione della “Gaza verde” per consentire agli sfollati di farvi rientro, con l’idea che ciò possa diventare una leva contro Hamas anche da una prospettiva intrapalestinese, specie considerato che l’Autorità nazionale palestinese ha accettato il piano. Questo avviene in parallelo all’applicazione di un modello di “tregua libanese”, che vede l’Idf colpire nel momento in cui si presenta una minaccia alle proprie truppe, previo coordinamento con gli americani, come accaduto solo mercoledì a Khan Yunis. Un approccio su cui al momento Netanyahu segue Trump, ma criticato in casa, compreso dal suo principale rivale politico oggi, Naftali Bennett, secondo cui “Israele non può essere uno stato vassallo degli Stati Uniti”.

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