Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 19/11/2025, a pagina 2, il commento di Iuri Maria Prado dal titolo "Nazioni Unite: lo Stato ebraico resta a Gaza, «finché sarà minacciata dal terrorismo»".

Iuri Maria Prado
La risoluzione su Gaza adottata l’altra sera dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta, per molti, una catastrofe. L’ambizione era diffusa e la convinzione salda: l’ultimo capitolo del conflitto israelo-palestinese avrebbe dovuto concludersi secondo le direttrici imposte da due anni di manovre apparentemente vincenti, tra discorso pubblico e posizionamenti diplomatici internazionali. In sostanza, si immaginava un esito fondato sulla minimizzazione del 7 ottobre, sul salvacondotto politico in favore di forze terroristiche ulteriormente ammesse a influire sulla Striscia, su Israele e i suoi dirigenti condotti alla sbarra della giustizia internazionale, sull’Autorità Palestinese legittimata così com’è al posto di Hamas e sulle agenzie umanitarie rimesse al loro posto nel governo, spesso ambiguo, degli aiuti.
La risoluzione del 17 novembre travolge catastroficamente quelle ambizioni e quelle certezze, e non sorprende che abbia suscitato la furibonda reazione delle dirigenze terroristiche palestinesi. Già l’esordio dice tutto, quando afferma che «la Striscia di Gaza minaccia la pace regionale e la sicurezza degli Stati vicini»: un principio che contraddice e svuota un biennio di propaganda secondo cui il semplice ritiro israeliano avrebbe spalancato le porte della pace. Ma il cuore del testo è nel prosieguo.
La risoluzione afferma senza ambiguità che non esiste alcun futuro di ricostruzione possibile senza una reale opera di de-radicalizzazione di Gaza. Sostiene che l’Autorità Palestinese, oggi, non è un soggetto affidabile e che potrà diventarlo solo se dimostrerà concretamente — non a parole — di riformare le proprie basi costitutive e di ispirare alla trasparenza la propria amministrazione. Stabilisce che il sistema di assistenza sarà gestito dalle organizzazioni internazionali e umanitarie a condizione che non finisca per finanziare i gruppi terroristici. E questa non è una sterile riaffermazione di principio: è una condanna. Significa riconoscere che, fino a oggi, quelle agenzie sono state inefficaci nell’impedire — o conniventi nel consentire — che il sistema di aiuti andasse più a vantaggio delle formazioni terroristiche che della popolazione ridotta in ostaggio.
La risoluzione precisa inoltre che il processo di pace non implica affatto un ritiro incondizionato di Israele dalle posizioni il cui mantenimento è necessario a garantire la sicurezza dello Stato ebraico; anzi, chiarisce che Israele continuerà a presidiare le aree di interesse «fino a quando Gaza non sarà adeguatamente protetta da qualsiasi rinascita di minaccia terroristica». Stabilisce poi che il compito del presidio internazionale a Gaza comprenderà la distruzione delle installazioni militari e la prevenzione della loro ricostituzione. Bisognerà vedere cosa accadrà nei fatti, ma sulla carta significa una cosa evidente: a quella forza internazionale si chiede di continuare ciò che Israele ha fatto finora, e che era dovuto.
Infine, si afferma che gli Stati membri del “Board of Peace” — l’entità dotata di personalità giuridica internazionale incaricata di attuare il piano — saranno direttamente responsabili nel garantirne rispetto ed esecuzione, in collaborazione con Israele. Un passo avanti a dir poco notevole rispetto alle stagioni, anche recenti, in cui si vagheggiava il coinvolgimento degli Stati in una politica generale di boicottaggio e incriminazione di Israele.
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