Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 16/11/2025, a pagina 5, il commento di Peppe Rinaldi, dal titolo: "Leggere Albanese aiuta a capire cos’è davvero l’Onu".
Cinquantotto pagine in tutto: non molte, in teoria, per descrivere gli aspetti economici e finanziari di un genocidio, tema che richiederebbe ben altro sforzo analitico. O forse, ironicamente, ne richiederebbe meno. Di queste cinquantotto pagine, ventotto riguardano analisi o testo, mentre ben trenta sono dedicate alle fonti dalle quali Francesca Albanese ha attinto per redigere il suo rapporto “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio. Rapporto della Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”, presentato la scorsa estate.
L’autrice non ha più bisogno di presentazioni: spessore, identità e impostazione emergono già nella conclusione del preambolo, scritto con toni che sembrano evocare suggestioni a metà tra Goebbels ed Engels, dove si afferma che il rapporto “è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale che lo ha permesso”. Smantellare, si dice. Genocidio, si ripete come in una sorta di mantra.
Trenta pagine di bibliografia, due in più del testo principale, costringono il lettore a scorrerle per comprendere da dove discendano certe affermazioni e certe arditezze concettuali. L’impressione è quella di trovarsi davanti a un Pantheon intellettuale costruito con precisione, un insieme di riferimenti che tratteggiano la formazione culturale dell’autrice—irpina, formatasi a Londra, incaricata di valutare la condizione dei diritti umani in Palestina, dove a quanto pare i diritti sono rispettati da tutti, tranne che da Israele. Già nei primi dieci-quindici titoli si capisce che strada si sta percorrendo.
Tra i riferimenti compaiono alcuni autori di origine ebraica, spesso con un background culturale preciso, a volte quasi psicanalitico. C’è l’immancabile Ilan Pappé, storico dell’Università di Exeter, figura di riferimento dei “new historians” israeliani e cavallo di battaglia dei circoli pro-Palestina più colti. C’è Antony Loewenstein, giornalista investigativo australiano, autore di The Palestine Laboratory, apprezzato anche negli ambienti di Hamas.
La maggioranza delle fonti proviene tuttavia da quel vasto circuito accademico e attivista anglo-statunitense, un mondo dove corsi e cattedre sembrano più titoli di pamphlet ideologici che percorsi formativi: “Intersezionalità e coscienza di classe”, “Decolonizzazione e patriarcato”, “Apartheid e questione di genere”, “Blackness e oppressione del bianco”. Una costellazione di studi che, in un’Europa già intossicata da simili derive, produce l’effetto di vedere genocidi anche nel sonno.
Ecco allora Susan Koshi, studiosa statunitense autrice di Sexual Naturalization: Asian Americans and Miscegenation; Patrick Wolfe, teorico del “colonialismo di insediamento” come eliminazione delle popolazioni indigene; Andy Clarno, sociologo e studioso dell’intersezione tra razzismo, capitalismo e colonizzazione, autore di Neoliberal Apartheid. E poi c’è un volto noto anche in Italia: Tariq Dana, palestinese, dottorato all’Università di Pisa, consulente politico per “Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network”. Sul 7 ottobre, Dana non ha dubbi: “Operation Al-Aqsa Flood” avrebbe infranto il mito dell’invincibilità israeliana. Non una Shoah in miniatura, dunque, ma un evento “rivelatore”.
Sono esempi sufficienti a delineare il quadro. Gli ultimi anni hanno visto un uso nevrotico di sillogismi spuri, iperboli e metafore, che cadono come pioggia. A volte, però, possono tornare utili per alleggerire il discorso. Il rapporto di Albanese ha la stessa credibilità che avrebbe un’analisi commissionata dalla UE a Marco Travaglio per valutare la “Legislazione fiscale e antimafia in Italia durante il berlusconismo”: un lavoro fondato sugli scritti di Flores D’Arcais, Scalfari, Zagrebelsky, Caselli, Pardi e altri autori affini.
Vale comunque la pena leggerlo, il rapporto di Francesca Albanese. Non tanto per la sua capacità di chiarire la realtà mediorientale, quanto per comprendere meglio perché l’ONU sia diventata ciò che è oggi e perché in Medio Oriente continui a scorrere sangue senza sosta. Un documento che dice molto più sulla cultura politica e ideologica che lo ha prodotto che non sui fatti che intende indagare.
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