Il doppio gioco della Turchia
Analisi di Paolo Crucianelli
Testata: Il Riformista
Data: 15/11/2025
Pagina: 3
Autore: Paolo Crucianelli
Titolo: Il doppio gioco della Turchia. Ridimensionare Israele e guidare la fase post-Hamas

Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 15/11/2025, l'analisi di Paolo Crucianelli dal titolo "Il doppio gioco della Turchia. Ridimensionare Israele e guidare la fase post-Hamas".

Erdogan da che parte sta? E cosa vuole da noi? Da un lato la magistratura della Turchia (che non è più indipendente) emette mandati di cattura per 37 funzionari israeliani, oltre che per Netanyahu, dall'altro ordina ad una brigata del suo esercito di prepararsi per il trasferimento a Gaza, come parte di una forza di pace internazionale. E' chiaro perché, per Israele, Erdogan sta diventando un pericolo imminente e rischia di compromettere il piano di pace.

La Turchia ha emesso 37 mandati di arresto contro funzionari israeliani, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, accusandoli di genocidio e di crimini di guerra a Gaza. Ma dietro il linguaggio altisonante si nasconde un’operazione squisitamente politica, priva di qualsiasi valore giuridico internazionale. Quei mandati, infatti, non hanno alcuna validità al di fuori dei confini turchi, poiché solo la Corte Penale Internazionale o la Corte Internazionale di Giustizia hanno la competenza per riconoscere il reato di genocidio. Nessuno Stato può dichiararlo unilateralmente e, di conseguenza, nessun’altra nazione darà esecuzione a tali mandati.

Parallelamente alla mossa giudiziaria, Ankara ha annunciato la creazione di una brigata di 2.000 soldati destinata a entrare nella Striscia di Gaza come parte della futura Forza Internazionale di Stabilizzazione prevista dal piano Trump per la pace. Ufficialmente, la missione avrebbe scopi umanitari e di peacekeeping. In realtà, mostra tutta l’evidenza di un cavallo di Troia militare e politico per consolidare la presenza turca nel territorio e condizionare la fase post-Hamas.

Secondo fonti israeliane e occidentali, Erdogan punta a un duplice risultato: da un lato garantire alla Turchia un ruolo guida nella ricostruzione e nel controllo di Gaza; dall’altro limitare il margine d’azione israeliano sia nel sud — con truppe turche nella Striscia — sia nel nord, dove Ankara è già militarmente attiva, in Siria. Una strategia che, se portata a termine, renderebbe Israele di fatto circondato da forze turche, una condizione strategicamente inaccettabile per Gerusalemme.

La doppia mossa di emettere mandati di arresto contro i leader israeliani e, al tempo stesso, proporsi come protagonista della stabilizzazione di Gaza consente a Erdogan di presentarsi agli occhi del mondo arabo come il salvatore della causa palestinese, un leader che conserva un’integrità morale che altri, per opportunismo o calcolo diplomatico, avrebbero smarrito.

L’obiettivo di fondo di Erdogan è chiaro: erodere l’influenza israeliana nella regione e indebolire l’asse economico e diplomatico nato dagli Accordi di Abramo, che unisce Israele ai Paesi arabi moderati e si interseca con il corridoio India–Medio Oriente–Europa (IMEC). Quel progetto, destinato a fare di Israele un hub economico e logistico tra Asia ed Europa, contrasta direttamente con gli interessi turchi nel Mediterraneo orientale. Assumere un ruolo riconosciuto dagli Stati Uniti all’interno di Gaza significherebbe per Ankara recuperare prestigio internazionale, consolidare la propria influenza sul mondo sunnita e, al tempo stesso, ridimensionare Israele sul piano diplomatico e operativo.

Per Israele, questo scenario rappresenta una minaccia strategica esistenziale. È impensabile che Gerusalemme accetti una presenza militare turca a Gaza, tanto più in un contesto di ostilità dichiarata e antisemitismo aperto da parte di Erdogan. Con ogni probabilità, Israele cercherà di convincere Washington a sostenere una linea che limiti l’influenza turca, rafforzando invece il coinvolgimento dell’asse Egitto–Arabia Saudita–Emirati Arabi Uniti, Paesi che condividono la diffidenza verso le ambizioni neo-ottomane di Ankara.

Ma questa crescente frizione non è solo un problema bilaterale: rischia di compromettere il piano di pace. Ogni settimana di stallo, di rivalità o di calcolo geopolitico è una settimana in più in cui Hamas non si disarma, consolidando il caos e rinviando la stabilizzazione.

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