Duecento miliziani nel tunnel a Rafah bloccano il futuro del piano di pace
Analisi di Micol Flammini
Testata: Il Foglio
Data: 14/11/2025
Pagina: 1
Autore: Micol Flammini
Titolo: I duecento miliziani nel tunnel a Rafah bloccano il futuro del piano

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/11/2025, a pag. 1/4, con il titolo "I duecento miliziani nel tunnel a Rafah bloccano il futuro del piano", l'analisi di Micol Flammini.

Micol Flammini
Micol Flammini

I duecento miliziani di Hamas nel tunnel a Rafah bloccano il futuro del  piano per Gaza | Il Foglio
Gli Stati Uniti spingono per far avanzare l’accordo su Gaza, ma Hamas rifiuta di disarmarsi e i 200 miliziani nascosti a Rafah sono diventati il banco di prova della sua reale volontà di rispettare l’intesa. Intanto Washington punta a ottenere progressi con Mohammed bin Salman sugli Accordi di Abramo

Roma. Gli americani vanno e vengono da Israele, convinti che l’accordo non fallirà e determinati ad aggiustare ogni dettaglio. Vogliono cercare il modo di far funzionare l’intesa, convinti che sia il punto di partenza per un nuovoordine in medio oriente. Gli Stati Uniti sanno che per il momento, l’ostacolo più grande rimane Hamas, che rifiuta di disarmarsi. Ci sono duecento miliziani oltre la Linea gialla, quindi all’interno della parte di Gaza che è attualmente ancora controllata dall’esercito israeliano. Come Tsahal si è ritirato da metà della Striscia, così imiliziani avrebbero dovuto lasciare la parte di territorio che nella prima fase del piano di Trump rimaneva sotto il controllo dei soldati di Israele. Duecento miliziani non lo hanno fatto, sono rimasti in un tunnel nella zona di Rafah da dove hanno condotto due attentati contro l’esercito israeliano. Ai duecento è stata fatta un’offerta, condivisa da Israele e dagli Stati Uniti: disarmatevi, accettate l’esilio e avrete un passaggio in sicurezza. L’alternativa è che il tunnel venga colpito dall’esercito e non poche persone dentro Israele, di qualsiasi schieramento politico, ritengono che il premier Benjamin Netanyahu stia concedendo troppo tempo ai terroristi.

La scorsa settimana, sul giornale online Maariv è apparso un commento molto duro in cui si sosteneva che ai miliziani non si sarebbero dovute concedere più di settantadue ore per accettare l’offerta e l’indecisione dimostrava ancora una volta l’incapacità del premier di capire la mentalità di Hamas. I duecento terroristi sono diventati una prova per capire se Hamas intende o meno rispettare gli accordi presi e disarmarsi. Alle volontà del gruppo si aggiunge un problema ulteriore: i duecento, come poi dovrebbero fare anche gli altri miliziani che sono nella metà di Gaza controllata da Hamas, per ottenere l’amnistia devono accettare l’esilio, ma finora non ci sono paesi pronti ad accogliere i terroristi esiliati. Neppure il Qatar, il paese che ha sponsorizzato Hamas e che ospita gran parte della sua leadership, ha detto di volere i miliziani. Soltanto la Turchia ha espresso con molta vaghezza un’apertura.

Cresce la schiera di paesi che, pur dicendo di tenere al futuro di Gaza e dei palestinesi, rifiuta qualsiasi misura concreta per aiutarli: ieri il Sudafrica ha tenuto bloccato su un aereo un gruppo di profughi palestinesi uscito da Gaza che volava da Israele minacciando di rispedirlo nella Striscia. I paesi che hanno accettato di diventare parte del piano in venti punti del presidente americano vedono Gaza come un posto in cui mettere piede quando i problemi con Hamas saranno risolti, non prima. Nessuno è disposto a partecipare alla fase più difficile, quella in cui bisognerà forzare il gruppo a cedere le armi. Tutti si tengono lontani, soltanto Ankara si dimostra attiva. Il presidente americano Donald Trump è grato al leader turco Recep Tayyip Erdogan per la disponibilità, ma Israele non può accettare che sia Ankara a prendere il ruolo di potenza dominante a Gaza: è un pericolo, la Turchia, assieme al Qatar, ha dato sostegno economico a Hamas, ospita le banche del gruppo ealcuni esponenti. La presenza dei turchi non 

può essere una garanzia di sicurezza per gli israeliani e allontana anche la partecipazione dell’attore che Trump voleva più coinvolto: l’Arabia Saudita.

La prossima settimana il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, andrà negli Stati Uniti per la prima volta dall’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018, ucciso dentro il consolato saudita a Istanbul. La diplomazia americana lavora a questa visita da tempo, al centro dell’incontro ci saranno un accordo di difesa simile a quello che gli Stati Uniti hanno offerto al Qatar, l’acquisto dei caccia F-35 e altri progetti sull’intelligenza artificiale. La visita è stata preceduta da piccoli passi: l’ingresso delKazakistan negli Accordi di Abramo e poi l’arrivo di Ahmed al Sharaa, primo presidente siriano alla Casa Bianca. Trump considera l’adesione dei sauditi agli Accordi di Abramo, la vetta dell’intesa, il punto essenziale per rivoluzionare il medio oriente e, durante l’incontro della prossima settimana, vorrebbe ottenere qualche progresso. Nei fatti, il principe saudita ha già iniziato ad apportare dei cambiamenti, per esempio a livello dell’istruzione eliminando contenuti antisemiti dai libri scolastici. Ma il divario fra Arabia Saudita e Israele è ampio e Bin Salman vuole che Netanyahu si impegni in un percorso vincolato e irreversibile per la creazione di uno stato palestinese. Il premier non è disposto ad accettarlo, per il momento. E la maggior parte dello spettro politico israeliano la pensa come lui, almeno fino a quando a Gaza resterà Hamas con le armi in mano.

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