Lettera aperta: L'ISPI in classe, disinformazione su Gaza
di Andrea Atzeni
La scuola cerca di inseguire l’attualità. Gli stessi studenti e le loro famiglie muovono spesso esplicite richieste in questo senso. I docenti si sentono in dovere di rispondere, anche nel lodevole tentativo di sottrarre i giovani all’influenza della propaganda e delle fake news. Ecco che allora si presentano degli esperti, talvolta entro iniziative didattiche preconfezionate e pronte all’uso. All’apparenza sono istruttive trattazioni didattiche. Di fatto non lo sono quasi mai.
Il 27 ottobre, per esempio, l’Istituto per gli studi di Politica Internazionale (ISPI) ha proposto alle scuole un incontro on line con alcuni relatori, dal titolo “Gaza, e ora?”.
La presentazione lasciava già piuttosto interdetti, vi si leggevano infatti frasi come “Mentre la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza si aggrava di giorno in giorno” (nonostante fosse già in corso la tregua), oppure “In questo fragile spiraglio diplomatico, l’iniziativa della Global Sumud Flotilla ha contribuito a riaccendere l’attenzione pubblica globale sul destino dei civili palestinesi” (nonostante l’attenzione non si fosse mai spenta, e nonostante l’iniziativa fosse solo provocatoria).
I nomi dei principali relatori suscitavano ulteriori preoccupazioni, trattandosi di opinionisti ben noti per la loro faziosità anti israeliana.
Chiunque può ora visionare l’evento in differita tramite la registrazione disponibile al seguente link: www.ispionline.it/it/il-mondo-in-classe-gaza-e-ora
È quel che abbiamo fatto anche noi. Di seguito proponiamo qualche considerazione.
Paolo Magri è il presidente del Comitato scientifico dell’ISPI. È dunque il padrone di casa che introduce e dà la parola (o la toglie, come e quando vuole). Recita la parte del conduttore imparziale e invita spesso gli studenti a non cadere in semplificazioni e tifoserie. Tuttavia nei suoi rapidi intermezzi, di passaggio tra un intervento e l’altro, lancia le accuse più gravi, senza curarsi di addurre prove o argomentazioni. In linea di principio, pone sempre i due contendenti, israeliani e palestinesi, sullo stesso piano. A entrambi attribuisce sfiducia e odio, in aumento negli ultimi due anni.
Nello specifico, per lui Israele è responsabile di distruzioni sistematiche e di privazioni di aiuti alimentari ai civili. In Qatar (che sarebbe “amico” degli USA) avrebbe attaccato dei poveri negoziatori. Sarebbe stato infine fermato da Trump, ma solo nella speranza di vincere il Nobel. Gli Accordi di Abramo sarebbero stati un torto contro i palestinesi, avendo ignorato loro non meglio specificate “aspirazioni”. In questo modo i massacri del 7 ottobre appaiono provocati da quelle intese di pace e collaborazione, ovvero da Israele.
Magri fa anche da megafono al complottismo, sia pure sotto forma di ipotesi altrui: “Si sono fatte molte teorie: Israele sapeva, non poteva non sapere, così i servizi segreti”. Giustifica anche il “riconoscimento” della Palestina da parte di vari paesi, cogliendo anche questa occasione per demonizzare indirettamente Israele: “Il riconoscimento era concepito come un modo per fermare Israele che per molti stava rispondendo con l’orrore all’orrore”. Nell’introdurre l’esperta di diritto internazionale dice che “ci parlerà degli aspetti del diritto internazionale violato”. Dunque che ci siano delle violazioni (da parte di Israele, s’intende) ce lo assicura subito lui stesso. Esalta le manifestazioni propal come se rappresentassero interi popoli. Mentre ignora l’antisemitismo di cori, striscioni, cartelli e proclami che le hanno caratterizzate. Sostiene contemporaneamente che Israele impedisce ai giornalisti di entrare a Gaza e che Israele ha ucciso più di duecento giornalisti mentre facevano il loro lavoro (dimenticando che quelli con un nome e cognome sono risultati tutti militanti). Più volte ripete l’accusa contro Israele di genocidio a Gaza, dichiarandola autorevole.
Ugo Tramballi è un noto giornalista del Sole 24 Ore, ma anche “senior advisor” dell’ISPI. Si direbbe l’ospite d’onore. Interviene lungamente e, benché non sia uno storico, ha il compito di ricostruire le vicende anche più remote della regione. Parla continuamente di “Palestina”, anche quando fa riferimento all’Ottocento o a periodi precedenti, intendendo l’intera area “from the river to the sea”, per la gioia dei propal. Ne paragona superficie e popolazione alla Sicilia, lasciando credere che ci sia un eccessivo affollamento e che qualcuno sia di troppo. Parallelamente parla di “palestinesi”, che passano così per presunti originari abitanti del luogo, mentre gli israeliani non si sa bene che cosa ci stiano a fare. Sostiene che il sionismo sarebbe una reazione alla persecuzione degli ebrei nell’impero zarista, mentre gli ebrei dell’Europa occidentale, e in particolare della Francia, godevano di una perfetta integrazione. Dimentica quindi che il fondatore del sionismo era cittadino austroungarico e fu colpito anzitutto dall’affaire Dreyfus. Secondo lui, gli ebrei nel mondo arabo hanno invece vissuto e hanno continuato a vivere benissimo. Nessuna parola sulla dhimitudine, le discriminazioni e i pogrom nel mondo islamico. Butta lì che la meta dell’emigrazione è “la terra promessa degli ebrei, secondo i testi sacri”, come a fare intendere che alla base ci sarebbero fanatismo e superstizione. Ammette che prima dell’immigrazione sionista c’era una piccola popolazione ebraica, ma la dichiara “insignificante per millenni”. Ammette pure che i palestinesi allora non si chiamavano così, perché la Palestina in senso stretto non c’era più, ma sembra una questione di denominazione: quelli che stavano lì erano già palestinesi, anche se non lo sapevano, o perlomeno non si chiamavano ancora così. Tramballi sostiene che alla fine della Grande guerra gli inglesi conquistano “la Palestina (quella che oggi possiamo chiamare così)” e, sotto la “grande influenza” del sionismo, decidono di farne dono agli ebrei. Niente sugli accordi di Sykes e Picot, di Sanremo, Sèvres e Losanna, e neanche sulle decisioni della Società delle Nazioni. Nessuna spiegazione su natura e scopo dei Mandati, e sul riconoscimento del diritto degli ebrei ad avere un proprio stato nella terra con la quale hanno un rapporto storico. Niente persino sugli accordi con gli arabi. E infatti, secondo Tramballi “Naturalmente gli arabi si ribellarono”. Come dire che le violenze contro la minoranza ebraica cominciarono allora e furono (e magari ancora oggi sono) del tutto “naturali”. Lo studente che avrà già orecchiato i diffusi pregiudizi andrà con la memoria ai presunti furti di terre, alle occupazioni abusive e ad altri non meglio precisati soprusi violenti dei “coloni” ebrei contro gli arabi, anzi contro i palestinesi. Tramballi menziona la grande rivolta araba, ma tace del ruolo di personaggi come al-Husseini. Arriva a sostenere che lo stato di Israele viene riconosciuto dalle potenze come la Gran Bretagna e gli Usa (dimentica almeno l’URSS, e dimentica la grande maggioranza dell’ONU di allora) per “il senso di colpa per l’antisemitismo, per l’Olocausto, per il massacro di sei milioni di ebrei”. Circa l’accordo del 13 ottobre 2025 a Sharm el-Sheikh, Tramballi equipara senza remore Israele a Hamas, entrambi nemici della pace, israeliani e palestinesi. Per la prima volta l’amministrazione americana, con Trump, si mostrerebbe dura con Israele. Stavolta i protagonisti pacifici sarebbero invece Qatar, Egitto e Turchia.
Valeria Talbot è presentata come una “analista” dell’ISPI. Ricorda che ci sono stati vari tentativi di pace. Il più importante fu quello di Oslo, che però “si è arenato nel 2000 con lo scoppio della Seconda Intifada, la rivolta armata, la rivoluzione palestinese”. Rivolta contro che cosa? Rivoluzione a che scopo? Come succede che un processo di pace “si arena”? Cos’è davvero una Intifada? Com’è che “scoppia”? Non ci sono responsabili? Non ce lo dice. Talbot allude a un importante tentativo di pace del 2009. Forse si riferisce alla conferenza di pace di Sharm el Sheikh di quell’anno. Allora dimentica almeno Annapolis del 2007 e il rifiuto da parte dei palestinesi, in particolare il loro nuovo leader Mahmud Abbas, ovvero Abu Mazen. Talbot sostiene che Netanyahu “vuole marginalizzare la questione palestinese, trascurare i negoziati di pace, nella convinzione che il conflitto possa essere gestito, aggirato, puntando sulla sicurezza di Israele”. Definisce Hamas “terrorista”, mentre di Fatah dice solo che “gestisce l’Autorità Palestinese”. Ricorda che Israele una volta aveva rapporti di partnership strategica con la Turchia ma ora li ha interrotti. Di nuovo non spiega il perché. C’entrerà qualcosa Erdogan? Ricorda che con la Siria c’è un conflitto congelato, che Israele ha occupato le Alture del Golan, “territorio siriano”, ma pre in questo caso non spiega cause e responsabilità. Ricorda che la prima amministrazione Trump spostò l’ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendola come capitale israeliana. Lasciando credere all’uditorio che non lo sia di fatto e di diritto. Talbot spiega che gli Accordi di Abramo normalizzano i rapporti diplomatici con alcuni paesi arabi della regione senza toccare in alcun modo la questione palestinese. Non spiega però perché questo sarebbe un problema o forse uno sgarbo. Magri interviene dichiarando solennemente che gli Accordi vengono percepiti come una minaccia dai palestinesi. Secondo Talbot “Il 7 ottobre ci ha dimostrato che senza la soluzione del problema palestinese, senza il riconoscimento del diritto dei palestinesi non ci potrà essere stabilità né pace in Medio Oriente”. Insomma, se capiamo bene, il 7 ottobre è, secondo lei, un severo ma giusto insegnamento per Israele. Israele dovrebbe capire che la sicurezza non è importante, che non deve difendersi, che deve cedere territori senza condizioni. Magari a Hamas, che evidentemente combatte per qualche diritto sacrosanto.
Francesco Battistini è un noto giornalista del Corriere della Sera. Racconta di essere arrivato nei luoghi del pogrom del 7 ottobre ventiquattro ore dopo i fatti, e già allora qualche militare diceva che “non si vedeva nulla del genere dai tempi della Shoah: questa la narrazione”. Perché “narrazione”? È forse una frottola? Chissà. Sulla scia del complottismo di Magri, Battistini sostiene che ci sono “Molti punti interrogativi, molti non detti”. L’esercito Israeliano proprio prima dell’attacco avrebbe sguarnito il confine della Striscia per dislocare truppe in Cisgiordania, a Jenin, nei grandi campi profughi”. Jenin invece è un posticino tranquillo? E comunque, vuoi vedere che il 7 ottobre era una trappola israeliana e gli ingenui palestinesi ci sono cascati? Battistini almeno ammette che la seconda Intifada fu guidata da Fatah, che la strategia dei kamikaze fallì, che la barriera la sconfisse. Non è tuttavia chiaro se per Battistini questo sia un bene o un male. Anche perché egli correla questa sconfitta all’emergere di Hamas, che invece, in precedenza si sarebbe occupato solo di welfare. Secondo Battistini il conflitto in Medio Oriente fino ad allora sarebbe stato sempre “una lotta per la terra”, mentre solo con Hamas “subentra un elemento diverso, religioso”. Per lui occorre anche evitare di disarmare ed esautorare Hamas. Sarebbe lo stesso errore commesso dagli USA in Iraq. Favorirebbe il dilagare del terrorismo. Da un lato dice che bisogna trovare un accordo con Abu Mazen. Dall’altra ammette che Hamas ha un consenso del 70-80%, che sarebbe aumentato con la guerra. Ricorda pure che Abu Mazen continua a governare benché abbia terminato il suo mandato elettivo da quasi vent’anni. Ma se non si fanno più elezioni, è “proprio perché la comunità internazionale e Israele hanno paura che altrimenti vincerebbe Hamas”! Le pressioni interne contro Netanyahu, peraltro, “non sono mai state contro il massacro dei palestinesi, ma perché Netanyahu era visto come quello che aveva sbagliato tutta la strategia dal 7 ottobre”: il governo Netanyahu massacra i palestinesi e gli israeliani ne sono contenti. Israele tiene lontani i giornalisti perché non vuole che vedano, ma da Gaza arrivano tante informazioni affidabili “senza intermediazioni”. Già durante l’operazione Piombo Fuso ci furono gravissime violazioni da parte di Israele e il tentativo di nasconderle al mondo. Ma una “inchiesta storica di un sudafricano” rivelò tutta la verità. Se poi il sudafricano (Goldstone, presidente di apposita “commissione internazionale”) cambiò versione, scusandosi per le precedenti leggerezze, Battistini ci assicura che è solo perché illecitamente “pressato” da un Israele doppiamente colpevole. Per concludere, Battistini tesse le lodi di Haaretz (che, come vedremo in seguito, è l’organo di riferimento anche di Talò e Goracci), mentre sostiene che la stampa vicina al governo avrebbe creato una “bolla informativa”. Alludendo a presunte esagerazioni di stampa sul 7 ottobre, Battistini sentenzia che gli atti di Hamas sulle vittime non sarebbero paragonabili a quelli dell’ISIS. Anche se non ci svela perché le atrocità di Hamas sarebbero da preferire.
Francesco Talò è un ex ambasciatore in Israele. Nonostante le sollecitazioni di Magri, ha il pregio di usare la parola “genocidio” solo in riferimento al pogrom di Hamas. Evoca però il problema della reazione di Israele che “non solo Biden ma tutti, anche in Europa, abbiamo capito” rischiare di essere “sproporzionata”. E poi “c’è tanta complessità” e abbiamo “poche risposte e tante domande”, dobbiamo evitare le contrapposizioni, i campi opposti e gli schieramenti. Ci sono palestinesi tra loro diversi, ed ebrei diversi. Ci sono i “coloni” ultraortodossi, minoranza che cresce e che vorrebbe cacciare con la violenza i palestinesi che abitano in Cisgiordania da secoli. E ci sono invece associazioni e ONG della società civile dove collaborano israeliani, palestinesi e giordani. Per Talò “riconoscere lo stato palestinese vuol dire credere in quella soluzione dei due stati”. Almeno ammette che Italia e Germania devono aver “reputato non utile farlo in quel momento, quando Hamas aveva già rivendicato come un proprio successo il riconoscimento da parte di altri stati”. Infine caldeggia la lettura del un libro. È scritto da un intellettuale di sinistra che per anni ha scritto su Haaretz. Evidentemente per l’ISPI si è esperti veritieri di Israele solo se ci si rifà sempre e solo alla versione di Haaretz.
Lucia Goracci è una notissima giornalista Rai. Sostiene che si era andati verso l’auspicabile soluzione dei due stati con Oslo, ma evita di spiegare perché quel percorso è fallito e di chi sia la colpa. Riconosce che ormai siamo quanto mai lontani da tale soluzione, dopo il 7 ottobre e dopo quanto è seguito, anche nella percezione stessa dei due popoli. Pure lei menziona Haaretz come fonte attendibile, anzi sostiene che sarebbe un “quotidiano liberal molto autorevole”. Il riferimento a quanto scritto da Haaretz le permette anche di ventilare l’accusa di “genocidio”, pur senza soffermarsi sulla questione. Ma Goracci esalta anche il +972 Magazine, che avrebbe tra l’altro il merito di aver smascherato l’impiego della AI da parte delle forze armate israeliane per individuare gli obiettivi militari. Tutti avranno pensato che gli israeliani ormai sterminano meccanicamente i palestinesi col pilota automatico. Goracci insiste sulla carenza di cibo a Gaza, però non menziona il ruolo dei furti di Hamas, anzi fa intendere che la colpa sarebbe di Israele, con Netanyahu che per di più negherebbe il problema. Goracci si dichiara a favore delle manifestazioni di piazza propal e della Flotilla, anche perché queste iniziative ottengono il consenso palestinese, che evidentemente per lei è la parte giusta a prescindere. Deplora che l’ONU e l’UNRWA siano state estromesse da Israele, e sostituite dalla statunitense GHR. Richiamandosi genericamente all’inchiesta di Colonna, arriva a respingere come infondate le accuse all’UNRWA di avere legami con Hamas, e ad alcuni suoi componenti di aver addirittura partecipato al pogrom del 7 ottobre. Goracci sentenzia che il massacro del 7 ottobre avrebbe spiegato che non si può vivere di sola spada, che una deterrenza basata solo sulle armi rischia di essere effimera, che quindi siamo lontanissimi dalla soluzione a due stati ma non c’è alternativa possibile. Il 7 ottobre come insegnamento di pace.
Silvia Boccardi, giornalista, racconta orgogliosamente di aver partecipato alla Flotilla sulla nave di Emergency. Confida che l’esperienza è stata molto emozionante sul piano professionale e umano, perché le ha permesso di conoscere le persone protagoniste di questa gloriosa iniziativa. Per il suo puerile entusiasmo sembra impossibile distinguerla da qualsiasi esaltato propal. Proprio per questo Magri deve sentire il dovere di spergiurare che lei non è un’attivista ma una giornalista a tutti gli effetti, che ha seguito la Flotilla per motivi squisitamente professionali, una figura “esterna”. L’ISPI infatti le aveva affidato un podcast quotidiano, tuttavia pretende di continuare a spacciarsi per un affidabile centro studi. Boccardi ammette che lo scopo della Flotilla non è mai stato di portare a Gaza aiuti umanitari. Ormai la copertura umanitaria è stata ampiamente sbugiardata, per cui ce ne racconta un’altra: “Lo scopo è di far voltare il mondo verso Gaza. Far capire al mondo che gli aiuti non arrivano alla popolazione perché Israele li blocca e non per colpa di Hamas”. Boccardi nega spudoratamente quanto da tempo dimostrato e ammesso persino dall’ONU. Boccardi sostiene anche che le imbarcazioni sarebbero state acquistate coi mezzi “che abbiamo tutti noi” (tace sui veri finanziamenti e sui documentati rapporti con gruppi terroristici). Lo scopo della Flotilla sarebbe “Portare il messaggio simbolico di rompere l’assedio. Far capire che l’assedio va rotto”. Si guarda bene dallo spiegarci il perché. Ma assicura che “Le persone l’hanno capito. L’importante è farlo capire ai nostri governi, che hanno ancora relazioni con Israele sia commerciali sia militari”. Abbastanza populista da candidarsi alle prossime elezioni.
Federica Favuzza è docente di diritto internazionale presso l’Università degli Studi di Milano. Tra i relatori è l’unico accademicamente accreditato, e si sforza di salvaguardare la dignità scientifica del proprio ruolo. Si sottrae ai tentativi di Magri di istigarla a sbilanciarsi. Per esempio, circa gli attacchi di Israele ad altri stati vicini nel corso di questi anni, ricorda che Israele ha invocato la legittima difesa, e non nega possa avere tutte le ragioni. Purtroppo cade pure lei in qualche ingenuità e superficialità. Una studentessa legge una domanda, scritta verosimilmente da altri in precedenza: chiede quali siano state le violazioni e soprattutto se l’assedio, il blocco totale in un territorio così densamente popolato come Gaza sia legittimo. La domanda contiene già alcuni assunti piuttosto discutibili: dà per scontato che ci siano state violazioni, un blocco totale, un assedio continuo, e che responsabile sarebbe soltanto Israele. Favuzza risponde che diversi tribunali si stanno occupando della questione ma non ci sono ancora decisioni definitive: finora si tratta solo di colpe presunte. Aggiunge pure di esprimersi così non perché personalmente non creda che siano state commesse e ancora vengano commesse violazioni (chiosa ben poco garantista, specie per una giurista). Precisa che si chiede anzitutto se la Palestina sia occupata, militarmente, e se ciò costituisca una violazione del diritto internazionale: la prima risposta è sì, la Palestina è occupata dal 1967. Favuzza si limita così a enunciare quel che sentiamo tutti ripetere di continuo, senza aggiungere neppure qualche minima delucidazione. Che cosa si intende per “occupazione militare”? Per esempio, fino al 1967 Cisgiordania e Gaza erano occupate rispettivamente da Transgiordania ed Egitto? E prima ancora erano occupate dall’Impero Ottomano? A Gaza, dal 2005 fino all’inizio del 2023 non c’era nessun militare israeliano (anzi, nessun israeliano e nessun ebreo): in che senso era militarmente occupata? Anche in Cisgiordania, in tutta l’area A, non c’è nessun militare israeliano (nessun israeliano e nessun ebreo): in che senso sarebbe militarmente occupata? Forse l’occupazione militare riguarda l’area C, dove però l’80% degli abitanti sono civili israeliani? O magari è occupata militarmente soltanto l’area B con abitanti palestinesi sotto amministrazione civile dell’Autorità Palestinese? Per gli studenti sarebbe stato interessante sentire una qualche spiegazione.
Favuzza si chiede poi se tale occupazione sia lecita. Che l’assetto attuale sia stabilito dagli accordi di Oslo non sembra interessarle. La Corte Internazionale di Giustizia, risponde, se ne è occupata in due “pareri”, nel 2004 e nel 2024. E tale Corte, organo giudiziario dell’ONU sarebbe composta, a sentir lei, da “giudici indipendenti e imparziali”. È davvero l’affermazione più disarmante, da far cascare le braccia. Perché non spiegare agli studenti chi sono e come vengono scelti questi giudici? Perché non spiegare che cosa sono e come vengono confezionati questi “pareri”? Secondo Favuzza Israele viola vari principi, in particolare il diritto all’autodeterminazione ma anche altri, come il divieto di acquisire territori con l’uso della forza. Sulla base del diritto internazionale quei territori non sono forse sotto la sovranità israeliana? E il principio di autodeterminazione prevale sulle esigenze di integrità e di autodifesa degli stati? Perché vale solo quando c’è di mezzo Israele e non in tutti gli altri vari casi di baschi, catalani, scozzesi, armeni, curdi, uiguri, rohingya, eccetera? Favuzza passa alle “presunte violazioni avvenute negli ultimi due anni nella Striscia di Gaza”, afferma di non poterle esaminare tutte, ma salomonicamente premette che “Diamo per scontato che entrambe le parti stiano commettendo violazioni del diritto internazionale”. Solita equiparazione: un governo terroristico totalitario islamista è equiparato a uno stato di diritto democratico? Da entrambi allo stesso modo ci si attendono le stesse malefatte? Favuzza dà per scontato che il blocco navale sia legittimo (Boccardi l’avrà sentita?). A patto, certo, che lasci pervenire gli aiuti umanitari alla popolazione civile, ma non sembra suggerire che Israele li abbia impediti. Favuzza ci tiene a ricordare che “Un paio di giorni fa un altro parere, richiesto dall’Assemblea generale, con voto favorevole di ben 137 stati tra cui l’Italia, senza mezzi termini, ha ribadito che Israele deve collaborare con ONU e con UNRWA e non deve ostacolare l’assistenza umanitaria fornita da terzi”. L’ONU insomma si lamenta di essere stata trascurata. Perché non ricordare chi sono i votanti dell’assemblea? Perché l’esperta di diritto internazionale non sottolinea almeno che i voti dell’Assemblea generale non hanno alcun valore giuridico né sono in alcun modo vincolanti? Sarebbe ora che qualcuno, magari un esperto di diritto internazionale, spiegasse finalmente agli studenti che il carattere “internazionale” di una organizzazione o di un parere non significa affatto, al contrario di quel che spesso si cerca di far credere, che sia super partes e particolarmente illuminato. Tutt’altro.
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