Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 11/11/2025, a pagina 6, la cronaca di Aldo Torchiaro dal titolo "Brunori applaudito ieri in Senato «Il vizio dei fatti, di sentire più fonti»".
Aldo Torchiaro
Senato, sala Nassiria. Oltre la capienza consentita, il pubblico preme per entrare. Dentro, l’inviato Rai a Gerusalemme, Giovan Battista Brunori, sta presentando il suo libro. Gli fanno gli onori di casa tutti i gruppi parlamentari sensibili a conoscere e a raccontare la realtà del Medio Oriente, senza paraocchi ideologici. C’è Lucio Malan per Fdi, il capogruppo azzurro Maurizio Gasparri, il fondatore di Sinistra per Israele Piero Fassino e il segretario del PLD, Luigi Marattin. L’editorialista di Repubblica, Maurizio Molinari, conclude l’incontro dopo un’ora e venti di dibattito denso.
Nel libro di Giovan Battista Brunori Il nuovo Medioriente. Il declino della Mezzaluna sciita (edizioni Belforte) la guerra non si combatte solo con droni, missili e operazioni speciali. Si combatte nelle teste. È questo il filo che lega molte delle pagine più rilevanti del volume: la descrizione di una strategia sistematica di guerra cognitiva, disinformazione e mistificazione che prepara, accompagna e giustifica l’attacco militare e la deriva antisemita in Occidente. Brunori parte da un punto preciso: l’architettura iraniana della cosiddetta Mezzaluna sciita non è solo una rete di milizie e proxy armati, ma anche un dispositivo narrativo. Dalla conferenza negazionista di Teheran del 2006 sulla Shoah alle campagne contro la legittimità di Israele, si costruisce un immaginario coerente: Israele come entità illegittima, nata dall’inganno, assimilabile ai nazisti, responsabile di un «genocidio» permanente. Questa lunga preparazione discorsiva non è un contorno ideologico, è il terreno su cui attecchiscono il 7 ottobre e le offensive successive: quando il sangue scorre, la storia è già stata scritta in anticipo.
Il libro mostra con chiarezza come il 7 ottobre e la guerra che segue siano pensati fin dall’inizio come operazione ibrida: sul terreno, la ferocia dell’attacco ai kibbutz e al Nova Festival; sul piano cognitivo, la costruzione immediata di un racconto rovesciato, in cui la presenza stessa di Israele diventa il crimine originario. Hamas e gli altri proxy non improvvisano: investono in fotografi, cameramen, media-activist, una macchina di comunicazione che ha il compito di saturare l’opinione pubblica globale con immagini di devastazione sganciate dal contesto strategico, dalla scelta deliberata di combattere dentro i centri abitati, di usare civili come scudi umani, di occultare gli ostaggi.
Qui Brunori è netto: non si tratta solo di propaganda, ma di una vera e propria ingegneria percettiva. La selezione e gerarchia delle notizie, l’insistenza esclusiva su Gaza, il silenzio comparativo su Yemen, Sudan, Siria, Congo, sulle persecuzioni di altre minoranze, producono un effetto di lente deformata. Israele finisce per apparire come il principale, se non unico, motore del disordine globale. Non occorre mentire: basta organizzare il quadro in modo che tutte le frecce puntino nello stesso punto. È questo l’errore percettivo strutturale che il libro denuncia. A questa distorsione contribuiscono, nel racconto di Brunori, anche alcuni snodi istituzionali e mediatici: la tardiva attenzione verso gli stupri del 7 ottobre, la sottovalutazione della centralità degli ostaggi, la leggerezza con cui vengono amplificati numeri e frame forniti da fonti interessate, la scarsa attenzione alla militarizzazione dei territori da parte di Hamas e Hezbollah. È un ecosistema che, senza bisogno di complotti, finisce per incorporare il punto di vista dei carnefici come se fosse l’unico umanamente accettabile.
Su questo terreno si innesta la deriva antisemita. Il libro mostra come l’antisionismo assoluto diventi il veicolo “rispettabile” di un antisemitismo che non osa più dirsi tale ma ne replica la logica: negare al solo popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione; trasformare Israele nel simbolo del Male assoluto; pretendere dagli ebrei della diaspora una dissociazione pubblica continua, come condizione di cittadinanza morale. Brunori cita episodi concreti: docenti che invitano a cancellare «tutti gli ebrei» dai social, campagne che colpiscono studenti, professionisti, luoghi ebraici a prescindere dalle loro posizioni politiche, manifestazioni in cui il vocabolario del vecchio odio rientra sotto nuove bandiere.
Un capitolo particolarmente significativo è quello dedicato ai “figli della cultura woke”. In quelle pagine Brunori individua un’alleanza tossica tra schemi oppressore/oppresso applicati in modo meccanico, attivismo digitale, semplificazione morale e narrazioni jihadiste. Se il mondo viene ridotto a binario, Israele entra automaticamente nel lato oscuro: bianco, occidentale, armato, alleato degli Stati Uniti. Poco importa la complessità storica, politica, sociale: il dispositivo identitario richiede un “nemico perfetto”, e il nemico perfetto è subito disponibile. Così l’odio antiebraico trova un nuovo lessico, nuove piattaforme, nuovi legittimatori culturali. È in questa sovrapposizione tra strategia dei regimi e superficialità delle democrazie che il libro di Brunori diventa, di fatto, un manuale sulla guerra cognitiva contemporanea. Non solo mostra come Iran, Hamas, Hezbollah usino l’informazione come arma; mostra anche come pezzi di società occidentale, media compresi, diventino inconsapevolmente cassa di risonanza di quella stessa offensiva narrativa. L’effetto finale è duplice: indebolire la legittimità di Israele e normalizzare, passo dopo passo, una nuova accettabilità dell’antisemitismo. Il merito del volume è di portare tutto questo fuori dal linguaggio tecnico dei think tank e dentro una scrittura di inviato che chiama in causa responsabilità precise: di chi combatte con le armi, di chi combatte con le immagini, e di chi finge di non vedere che oggi il fronte decisivo passa anche per la capacità di distinguere tra informazione, manipolazione e odio travestito da coscienza civile. Ad applaudire Brunori, giornalisti e studenti (presente una delegazione della Link Campus di Roma) ma anche autorità del mondo ebraico: il Rabbino Capo, Riccardo Di Segni, in prima fila, accanto a lui Riccardo Pacifici e Vito Anav, presidente della comunità ebraica italiana in Israele.
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