Riprendiamo l'articolo di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "L'orrore politicamente scorretto dei cristiani massacrati che non vogliamo vedere".
Giulio Meotti
Nella città di Al-Fashir, Sudan, gli islamisti hanno ucciso in numero tale che il sangue è visibile nelle immagini satellitari.
Conoscete Al-Fashir?
Il video di copertina proviene dall’ospedale: decine e decine di cadaveri di civili, dentro e fuori, e i pochi sopravvissuti che rantolano e sono passati per le armi.
Per mesi, questa antica città è stata sotto assedio. Interi quartieri rasi al suolo, villaggi cancellati e decine di migliaia di persone morte per il piombo o per la fame nel deserto. Le milizie islamiste, armate di droni iraniani, armi turche e una certezza morale islamica che si definisce “divina”, hanno trasformato la guerra civile in un teatro di sterminio.
Ad al-Fashir, i cristiani sono stati “braccati e giustiziati”, spiega la ong International Christian Concern. “Sono arrivati nel nostro villaggio urlando contro i cristiani, chiamandoci ‘infedeli’. Hanno dato fuoco alla chiesa e le fiamme si sono propagate, divorando tutto ciò che incontravano. Hanno trascinato gli uomini fuori dalle loro case, massacrandoli e decapitandoli. Potevo sentire le loro grida, ma non c’era tempo per pensare. Dovevamo fuggire. Abbiamo abbandonato tutto”, ha raccontato un sopravvissuto all’organizzazione.
È un orrore che sfida ogni paragone: non è primitivo ma assoluto; non è antico ma moderno. I video, spaventosi, sono lì a ricordarci la differenza fra una guerra, seppur brutale, e uno sterminio.
Eppure, il rumore morale dell’Occidente si è fatto stranamente silenzioso.
Nessuna grande manifestazione a New York, nessun sudario da Palazzo Marino, nessun appello di accademici “anticolonialisti” di Bologna, nessun grido di attivisti per la pace in marcia ad Assisi, nemmeno l’eco vuoto degli hashtag digitali.
Solo silenzio, denso e deliberato, ma un silenzio di autoprotezione, piuttosto che di ignoranza.
Silenzio dei governi. Silenzio delle ong sopraffatte. Silenzio dei nostri soliti moralizzatori. Nessuno vuole marciare per Khartoum o indossare una maglietta con la scritta “Io sono il Darfur”.
Nessuno mostra le fosse comuni viventi. Eccole. Non è un film, è reale.
La posta in gioco è la confisca della realtà da parte della morale e l’impossibilità di descrivere ciò che succede. Parliamo di identità, religioni, continuità culturale e sicurezza geopolitica e oltrepassiamo la linea rossa che, nell’immaginario woke, separa la rispettabilità dall’infamia.
Sicuramente c’entra il fatto che le dittature sono ormai in grado di manipolare la coscienza occidentale.
Basta leggere il nuovo rapporto su come le istituzioni francesi, i media, i partiti politici di estrema sinistra, le principali università, gli intellettuali e gli organismi studenteschi sono diventati tutti bersagli dell’ingerenza iraniana. “L’infiltrazione iraniana ha agito come un veleno, penetrando lentamente nella società, goccia dopo goccia, e ora si diffonde, esercita influenza e corrode”, si legge.
Ma c’è di più.
L’universalismo occidentale è morto, sostituito dall’attivismo tribale. Un popolo africano sta morendo nell’ombra, ma i popoli occidentali – nutriti di politically correct – guardano altrove con solerte indifferenza. Con i loro cartelli ben visibili, la loro indignazione accuratamente smussata, le loro lacrime sottotitolate.
Lo storico francese François Furet, ne Il passato di un’illusione, ha evidenziato questo paradosso unico della democrazia occidentale: la sua capacità di generare figli che odiano il regime che li sostiene, respirando la stessa aria che maledicono senza averne mai conosciuto un altro.
Dove sono gli appelli a smantellare il “colonialismo arabo” in Africa?
Questo tipo di silenzio non è assenza di consapevolezza: chiunque può informarsi e sapere cosa succede. Piuttosto è un meccanismo di difesa.
La sinistra occidentale, che tiene le fila dell’opinione pubblica e della società civile cosiddetta, ha costruito la propria immagine di custode della coscienza morale, l’eterna voce contro il dominio e l’oppressione. Ma l’agonia del Sudan non corrisponde a questa immagine.
Non c’è un “oppressore bianco”, nessun cattivo coloniale da resuscitare. I colpevoli sono tutti islamisti di colore, africani e arabi, ideologicamente posizionati per essere le vittime dell’Occidente.
La “nostra geometria morale variabile”, come la definisce Sébastien Boussois sul Journal du dimanche, crolla e il progressismo si ritira nel silenzio.
La coscienza dell’Occidente, infatti, funziona ormai solo all’interno di un’equazione familiare: la sofferenza acquista significato quando può essere ricondotta al senso di colpa. Senza, l’empatia vacilla.
Il Sudan è insopportabile non perché sia lontano o nero o islamico (anche Gaza è lontana, araba e islamica), ma perché è ideologicamente inutilizzabile. La sinistra non può assorbire questo tipo di sofferenza; non può tradurla in grammatica morale. Riconoscere il Sudan significherebbe affrontare il male senza lo specchio del peccato coloniale e richiederebbe un’onestà che pochi sono disposti a rischiare.
L’indignazione è diventata una facile moneta di scambio. La sofferenza deve essere visibile, commerciabile e simbolica per essere riconosciuta.
Ecco perché la “Palestina” è diventata sacra nell’economia morale della sinistra occidentale e ora apre anche le porte del potere a New York: offre immagini consumabili e una facile narrazione della virtù.
Il bambino palestinese e il soldato israeliano, la dittatura anticoloniale e la democrazia occidentale, la tenda umanitaria e il fence sorvegliato: tutti ordinatamente predisposti per la grande rappresentazione.
Quando Israele combatte, il mondo si sveglia. Quando le milizie arabo-musulmane compiono massacri, il mondo torna a dormire.
Complice anche la narrazione di Al Jazeera: genocidio a Gaza, i cristiani africani tutto bene. E non ci rendiamo conto quanto Al Jazeera sia influente sui nostri media.
Così dormiamo sulle torture spaventose (anche sessuali) inflitte dai terroristi a due ostaggi israeliani, uno a Gaza e l’altra in Iraq, un uomo e una donna. Ma a differenza degli abusi israeliani, veri o presunti, sui terroristi palestinesi in carcere e degli americani ad Abu Ghraib, le torture subite dagli israeliani non hanno pubblico, sono torture che non producono consenso politico e rendimento mediatico.
Nei tunnel islamici si muore e si tortura senza telecamere.
Scrive il romanziere algerino Kamel Daoud su Le Point:
“Le azioni spettacolari contro il blocco di Gaza non hanno trovato un equivalente per El-Fasher. Di conseguenza, i morti sprofondano nell’oblio: anche per i cadaveri di guerra esiste una società di classe e quelli di El-Fasher occupano l’ultimo gradino della scala di una sepoltura onorevole. Non ci sono armi manovrate da ebrei e nessun antisemitismo da galvanizzare sotto le mentite spoglie di una buona causa”.
Il Sudan non offre alcuna “moralina”, come la chiamava Nietzsche. È un’oscurità senza risvolto occidentale e, quindi, nell’economia emotiva woke non produce alcun profitto. L’empatia odierna funziona come il capitale; deve produrre un guadagno morale. L’indignazione deve affermare l’identità, la pietà deve segnalare la virtù e il silenzio diventa il prezzo della coerenza ideologica.
Lo stesso valeva per il Vietnam: si scendeva in piazza urlando “Stalin Mao Ho Chi Minh”, non certo per i boat people, i poveri sud vietnamiti che scappavano via mare. E lo stesso vale per Cuba: ci fanno vedere la popolazione dell’isola alla fame a causa dell’embargo americano (mica del castrismo), nessuno ha mai visto le decine di migliaia di cubani scappati via mare.
Così, il massacro di Al-Fashir, visibile dallo spazio, passa inosservato. Il sangue che non può essere politicizzato viene ignorato. Israele è troppo bianco ed ebraico per non essere odiato. L’Africa è troppo nera e il Darfur troppo cristiano per essere visto e per preoccuparsene.
Dietro questa paralisi si cela la teologia postcoloniale: è la convinzione che tutta la sofferenza del “Sud del mondo” sia un prodotto del dominio occidentale (mai di quello cinese o russo). Questa dottrina, nata nelle aule dei seminari delle università occidentali dove insegna il padre del nuovo sindaco di New York, Zohran Mamdani, ha sostituito la teologia con il senso di colpa e la politica con il risentimento.
Non può spiegare perché i musulmani massacrino altri musulmani o perché i musulmani odino gli ebrei o perché le milizie nere massacrino civili neri o perché gli arabizzanti riducano in schiavitù i neri cristiani nel Darfur.
Naturalizzato cittadino statunitense otto anni fa, sotto l’amministrazione Trump, Mamdani è nato in Uganda da una regista indù e da un antropologo di fede musulmana sciita. Eppure non è né in Iran, né in Iraq, né in Bahrein, né in Azerbaigian – paesi in cui lo sciismo è la religione maggioritaria – né in nessun altro paese musulmano che la famiglia si è stabilita, bensì in America, che Mamdani padre ama ricordarci essere stata fondata sul genocidio dei nativi americani e sulla schiavitù degli afroamericani.
Le democrazie liberali nelle terre dell’Islam si contano sulle dita di una mano avvizzita. Anzi, se ne conta soltanto una: Israele, proprio il paese che i Mamdani vogliono distruggere.
E lo stesso meccanismo intellettuale che giustifica la violenza jihadista contro gli ebrei israeliani ora la rende cieca alle atrocità islamiste in Africa.
È una completa inversione dell’ordine morale: il carnefice diventa vittima, il fanatico diventa rivoluzionario e la barbarie diventa resistenza. La bussola morale di un’intera cultura politica gira in tondo, puntando solo verso l’interno e alla fine crolla.
“Come dopo Charlie Hebdo, il Bataclan, Samuel Paty e tanti altri attacchi, dobbiamo decidere se lasciarci terrorizzare dai terroristi – quegli individui che sfruttano il potere delle tecnologie contemporanee per diffondere la loro barbarie pre-medievale” dice Douglas Murray a Le Point. “Capisco che molti abbiano paura. Ma il nostro dovere è essere all’altezza della situazione, non ostentando la nostra paura, ma affermando il nostro coraggio, il nostro eroismo. I terroristi del Bataclan, della Manchester Arena e del 7 ottobre lanciano la sfida: cantano vittoria perché amano la morte più di quanto noi occidentali amiamo la vita. La mia risposta è semplice: ‘Benissimo, venite a vedere di che pasta siamo fatti’”.
Ma gli intellettuali che hanno costruito intere carriere condannando l’imperialismo occidentale ora si ritrovano muti di fronte al razzismo arabo, alla supremazia islamica e al dispotismo africano. Lo stesso vocabolario morale che un tempo pretendeva di difendere i “deboli” è diventato uno strumento di cecità selettiva a favore dei violenti.
L’etica della sinistra non punta più alla verità, ma alla coerenza narrativa. Il male è riconosciuto solo quando parla inglese o francese o ebraico, l’oppressione solo quando può essere attribuita all’Europa o a Israele o alle crociate o al colonialismo britannico. Hanno barattato il realismo morale con il teatro morale, trasformando la compassione in un costume indossato solo quando conviene.
Distolgono lo sguardo. Non perché non sappiano, ma perché non possono permettersi di vedere e di credere. Ma non c’è libertà senza il coraggio di pensare contro la menzogna.
La newsletter di Giulio Meotti è uno spazio vivo curato ogni giorno da un giornalista che, in solitaria, prova a raccontarci cosa sia diventato e dove stia andando il nostro Occidente. Uno spazio unico dove tenere in allenamento lo spirito critico e garantire diritto di cittadinanza a informazioni “vietate” ai lettori italiani (per codardia e paura editoriale).
Abbonarsi alla sua newsletter costa meno di un caffè alla settimana. Li vale.
Per abbonarsi, clicca qui
giuliomeotti@hotmail.com