Riprendiamo l'articolo di Daniel Horowitz, dal suo blog, dal titolo: "Mamdani e gli ebrei di Weimar".
L'elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York nel 2025 segna una svolta nella politica americana. Per la prima volta, un rappresentante dell'ala più radicale del Partito Democratico – paragonabile alla sinistra populista europea – accede alla guida di una metropoli mondiale. Nel sistema politico degli Stati Uniti, dove le correnti progressiste, marxiste o anticolonialiste si esprimono all'interno del Partito Democratico piuttosto che attraverso partiti distinti, questa vittoria segna una profonda ricomposizione ideologica. Laddove in Europa queste sensibilità si disperdono tra formazioni socialiste, comuniste o ecologiste, qui si condensano in un unico crogiolo: quello della sinistra urbana americana.
L'ascesa di Mamdani è stata alimentata da una strumentalizzazione morale della questione israelo-palestinese, diventata leva identitaria e vessillo di virtù. Ben prima della campagna municipale, si era distinto per il suo sostegno al movimento BDS e per la sua costante ostilità nei confronti di Israele. «Colonialismo», «apartheid», «genocidio»: il suo vocabolario erige Israele a simbolo assoluto del male contemporaneo. A ciò si aggiunge la controversia intorno alla sua proposta di legge *Not On Our Dime!*, che mirava a vietare i trasferimenti finanziari verso organizzazioni che sostengono gli insediamenti israeliani, nonché il suo rifiuto di adottare la definizione di antisemitismo proposta dall'IHRA. La critica a Israele diventa così, sotto la sua penna, un rito di appartenenza politica più che un dibattito di politica estera.
L'elezione di Mamdani si inserisce in una dinamica più ampia all'interno del Partito Democratico. Diverse figure di spicco, tra cui l'ex presidente Obama – un tempo vicino al pastore antisemita Jeremiah Wright – vedono in lui l'espressione di una nuova generazione progressista. Obama è arrivato persino a proporgli di diventare suo consigliere. Questo gesto simboleggia l'allineamento di una parte della corrente progressista su una visione del mondo in cui Israele, e talvolta gli stessi ebrei, sono considerati agenti di un sistema globale di oppressione. È vero che Obama ha sempre avuto un debole per l'Islam: nel suo discorso all'Università del Cairo nel 2009 ha dichiarato che « l'America e l'Islam si intersecano e si nutrono di principi comuni, ovvero giustizia e progresso, tolleranza e dignità di ogni essere umano. L'Islam ha una tradizione di tolleranza di cui è orgoglioso ». A quanto pare non era una battuta.
Il linguaggio di Mamdani riprende una retorica antica: quella che oppone la purezza del popolo alla corruzione di un potere lontano. Quando afferma: «Quando lo stivale della NYPD è sul tuo collo, i suoi lacci sono stati fatti dall'IDF», non denuncia solo una cooperazione di polizia: indica un principio di contaminazione, una filiazione del male. Questa immagine, satura di echi religiosi e morali, riattiva i vecchi schemi antisemiti della colpa collettiva e del potere occulto. La figura dell'ebreo si traspone in quella dello Stato ebraico, carico di una colpa diffusa e inesauribile.
I sondaggi del 2025 mostrano una concomitanza tra l'ascesa di Mamdani e l'intensificarsi della sua retorica antisemita. Questo parallelismo sottolinea quanto il conflitto israelo-palestinese sia diventato un indicatore di appartenenza morale, un linguaggio in codice in cui l'ostilità verso Israele equivale a una prova di coscienza sociale.
Tuttavia, circa un terzo degli ebrei newyorkesi avrebbe votato per lui. Ciò dimostra quanto la comunità ebraica americana rimanga divisa: tra coloro per i quali Israele rimane la condizione esistenziale del popolo ebraico e coloro che lo vedono come uno Stato tra gli altri. Questa frattura si basa su una gerarchia di fedeltà: la sopravvivenza per gli uni, la virtù per gli altri.
Questa divisione ricorda le tensioni del giudaismo tedesco durante la Repubblica di Weimar, negli anni 1920-1930. Periodo di effervescenza intellettuale e di crisi politica, Weimar ha visto coesistere una brillante modernità e un profondo indebolimento del legame sociale. Anche in questo caso, un'élite ebraica assimilata, fiduciosa nella cultura nazionale, diffidava del sionismo e degli Ostjuden, quegli ebrei provenienti dall'Europa orientale, poveri, devoti, con accenti e abitudini considerati estranei all'ideale tedesco di raffinatezza e moderazione. Molti vedevano in loro la causa della rinascita dell'antisemitismo: il loro fervore religioso, il loro aspetto, il loro stesso modo di parlare sembravano contraddire l'immagine dell'ebreo “moderno” e colto che il giudaismo tedesco voleva incarnare. Erigendo una barriera simbolica contro gli Ostjuden, credevano di proteggere la loro integrazione e di combattere, a modo loro, l'odio di cui essi stessi erano bersaglio. Molti pensavano ancora che rifiutando il particolarismo ebraico si sarebbero assicurati un posto nella nazione. Paradossalmente, questo era il segno di un attaccamento sincero ma tragicamente cieco alla Germania pre-nazista. Il seguito è noto.
Un secolo dopo, una tensione simile attraversa l'ebraismo americano. Anche in questo caso, una parte degli ebrei più integrati, radicati nella sinistra liberale, attribuisce implicitamente il crescente malessere intorno all'ebraismo allo stesso Israele, come se la visibilità nazionale dello Stato ebraico minacciasse la loro integrazione. In alcuni ambienti progressisti, Israele appare come l'incarnazione di un privilegio etnico, di un nazionalismo che si perdona solo agli altri. Da qui nasce un conflitto: quello di una generazione che vuole rimanere fedele alla memoria ebraica dissociandosi al contempo dal destino collettivo incarnato da Israele. La frattura non separa più credenti e laici, ma due modi di essere ebrei: uno radicato nella memoria e nella solidarietà storica, l'altro nella morale astratta e nella preoccupazione per l'innocenza.
Così, con Mamdani, si affaccia una nuova forma di antisemitismo, non più declamato, ma razionalizzato, avvolto nel linguaggio dei diritti umani. Sotto la copertura dell'universalismo, riprende le strutture mentali dell'antisemitismo secolare: la convinzione che esista, al centro del mondo, una forza dissolvente, un'alterità che corrompe e devia. La critica a Israele, quando pretende di spiegare tutto, riattiva questo vecchio demone: quello che vedeva negli ebrei non solo la fonte del disordine, ma il fermento stesso della disgregazione sociale, il nemico interno per eccellenza, accusato di minare la città dall'interno. È questa figura immaginaria, quella del perturbatore invisibile, che oggi ritorna sotto una maschera morale e che, pretendendo di purificare il mondo, ricomincia a designarne il capro espiatorio.
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