L’esperto di turno
Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta
Data: 08/11/2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Scalise
Titolo: L’esperto di turno

L’esperto di turno
Commento di Daniele Scalise

 
Daniele Scalise

Tutti esperti di Medio Oriente in questi due anni? Gli esperti, o sedicenti tali, sono invitati sempre più spesso nei salotti televisivi, sfoggiano una equidistanza calcolata, non vanno mai al nocciolo delle questioni, usano citazioni per abbellire le loro tesi. Ma basta una domanda specifica per inchiodarli.

È una figura riconoscibile a distanza, come un tic nazionale. Ogni volta che scoppia un conflitto, un attentato, una guerra, un’esplosione di violenza da qualche parte del mondo, ecco che compare lui: l’esperto di turno. È invitato nei salotti televisivi, intervistato nei giornali, citato sui social come voce “super partes”. Si presenta con la calma di chi ha visto tutto, di chi ha letto tutto, e di chi soprattutto non si lascerà trascinare dalle emozioni del momento. È l’uomo (o la donna) che “mette in prospettiva”.

Ma il suo talento principale non è la conoscenza: è la simulazione della conoscenza. La sua biografia – o meglio, la versione pubblica di essa – è un piccolo romanzo picaresco. Docente, ricercatore, consulente, “già collaboratore di organismi internazionali”, “autore di studi e saggi sul dialogo tra i popoli”. A volte basta grattare poco per scoprire che le “missioni umanitarie” sono state convegni, che le “pubblicazioni” sono articoli di giornale, e che “esperto di Medio Oriente” significa, in pratica, aver visitato Gerusalemme in vacanza studio nel 1998.

L’esperto di turno non mente: semplicemente decora. Gonfia. Rende tutto più autorevole. E questa autorevolezza è la chiave del suo potere: lo ascolti non perché abbia qualcosa di nuovo da dire, ma perché lo dicono gli altri. È l’eco di se stesso amplificata dal sistema mediatico, dove il bisogno di un commento vale più della sostanza del commento stesso.

Il suo linguaggio è una sinfonia di equivalenze. Ama dire “da una parte e dall’altra”, “gli errori di tutti”, “la spirale della violenza”. Evita con cura nomi, responsabilità, proporzioni. È la grammatica del pareggio morale, quella che consente di parlare di tutto senza compromettersi con niente. Laddove i fatti separano, lui unisce; laddove la storia distingue, lui amalgama. Perché nel suo mondo non ci sono colpe, ma “dinamiche”. Non ci sono aggressori e aggrediti, ma “attori del conflitto”. Non ci sono vittime, ma “popolazioni coinvolte”.

Eppure, dietro questa lingua anodina, c’è un calcolo. L’esperto di turno non è ingenuo: sa che la neutralità paga. In un’epoca in cui prendere posizione è rischioso, l’equidistanza diventa una carriera. Gli basta comparire per sembrare saggio. E quanto più il tema è tragico o divisivo, tanto più la sua calma apparente acquista prestigio: è l’effetto santone del disincanto.

Lo si riconosce anche dalle citazioni. Mai un riferimento tecnico o un autore specifico: preferisce le frasi universali, le “citazioni-cartolina”. Gandhi, Mandela, Levinas, qualche briciolo di Hannah Arendt e un pizzico di Einstein per i giorni speciali. Ogni riferimento è accuratamente scelto per risultare condivisibile da tutti e quindi, inevitabilmente, privo di peso. È la cultura come arredamento: serve a dare profondità, non a illuminare.

Quando la cronaca si fa troppo netta, quando la realtà forza le parole, lui reagisce sempre allo stesso modo: alza la voce del dubbio. “Bisogna capire le ragioni di tutti.” È la sua formula magica, quella che chiude ogni discussione e la sposta su un terreno intoccabile, quello dell’empatia universale. Ma dietro l’apparente generosità di questa frase c’è un trucco. Perché capire le ragioni di tutti, quando si rifiuta di distinguere tra chi aggredisce e chi resiste, equivale a non capire nessuno.

Smascherarlo senza sembrare settari è difficile, ma non impossibile. La chiave è la concretezza. Non serve accusarlo di ipocrisia, basta chiedere dettagli: “Chi?”, “Quando?”, “Dove?”. Le domande puntuali lo paralizzano. Perché la sua competenza è costruita su generalità e il dettaglio, come la luce troppo forte, svela le crepe. Chiedigli nomi, fonti, date. Invitalo a specificare. Scoprirai che la sua “visione d’insieme” è spesso un insieme senza visione.

Il bravo, davanti a lui, si sente disarmato. È preso tra due paure: sembrare ignorante o sembrare radicale. Così tace, o annuisce. È il terreno ideale su cui l’esperto di turno prospera: quello dell’intimidazione culturale. Ma qui sta il punto da ribaltare. La complessità non è un privilegio per iniziati; è un lavoro di chiarezza, non di nebbia. Essere complessi non significa confondere, ma distinguere con precisione.

In fondo, l’esperto di turno è il prodotto di un’epoca che scambia la moderazione per saggezza e l’ambiguità per profondità. È il sacerdote laico del “tutti hanno torto e tutti hanno ragione”, che è poi il modo più elegante di non disturbare il potere e di non sporcarsi con la realtà.

E allora smascherarlo non vuol dire distruggerlo, ma restituire alle parole il loro peso. Non accettare l’idea che l’imparzialità coincida con l’equidistanza. Non confondere il dubbio con il vuoto. E, soprattutto, non cedere alla fascinazione di chi sembra sapere tutto di tutti i conflitti, tranne quello che gli si consuma davanti agli occhi.

Il bravo, se vuole crescere, deve imparare a riconoscere la differenza tra conoscenza e postura, tra il pensare e il citare. Perché dietro la facciata levigata dell’esperto di turno si nasconde un vuoto eloquente: la paura di dire la verità.

takinut3@gmail.com