Entra in scena Mubarak
due articoli per capire
Testata:
Data: 10/09/2003
Pagina: 1
Autore: due giornalisti
Titolo: un'intervista e un'analisi
Sul presidente egiziano Mubarak sono stati pubblicati i seguenti due articoli, l'uno su Il Foglio, l'altro sul Corriere della Sera.

"Mubarak ha usurato la road map per usare di nuovo Arafat": un'analisi in terza pagina de Il Foglio.

Roma. Archiviata la pratica dell’inaffidabilità saudita, avviata l’istruttoria sulla doppiezza pachistana, complice di protette latitanze di bin Laden, Washington è ora alle prese con altri due scomodi dossier sui suoi alleati islamici: Egitto e Turchia. Tutti e quattro i pilastri su cui s’è retta per decenni la politica mediorientale degli Stati Uniti vacillano per una ragione: superata la discriminante antisovietica, Washington non ha affinato criteri che permettano di definire con certezza alleanze e diffidenze. Soprattutto in un quadro in cui i comportamenti di questi quattro fratelli-coltelli, è condizionato da un elemento ideologico: il fondamentalismo islamico. L’origine dell’inaffidabilità del leader egiziano Hosni Mubarak, del saudita Abdullah,
del pachistano Pervez Musharraf e delle difficoltà di rapporti col turco Recep
Erdogan, sta nel terremoto innescato da un’ideologia pura. Terreno ostico per una dottrina politica informata a pragmatismo quale è quella americana.
Mubarak, nella sua intervista al Corriere della Sera di ieri, fa capire tre cose: che non ha affatto impegnato – come poteva e doveva – i suoi servizi segreti a sostegno del disarmo dei terroristi palestinesi tentato da Abu Mazen; che ha appoggiato in pieno il ruolo destabilizzante di un Arafat cui un anno fa aveva addirittura tolto la parola al vertice della Lega araba, perché gli era indispensabile per logorare la road map; che lo scopo di questa doppia azione di logoramento era emergere come unico depositario della soluzione della crisi. In questo quadro, la clamorosa proposta di un suo viaggio a Gerusalemme ha un altro obiettivo: dettare agli uni e agli altri le proprie condizioni, fare (grazie al gioco di sponda con Arafat) di Abu Ala, o di chi per lui, il viceré dell’Egitto in Palestina. La vecchia politica del Cairo
delineata sin dal 1945 e perseguita sempre da Nasser (che inventa l’Olp) e da Sadat, trova oggi una spregiudicata attualizzazione. Resta solo da capire come facciano gli Stati Uniti a non riuscire a influenzare Mubarak e a impedirgli queste manovre. Washington, infatti, garantisce a Mubarak la sopravvivenza con il versamento di due miliardi di dollari l’anno che coprono stipendi, prebende e agibilità agli uomini del regime e alla loro ristretta base sociale (e solo a loro). Eppure questa concretissima generosità non è ricambiata neanche con l’invio di un gagliardetto egiziano nella guerra contro i Talebani a Kabul o con un atteggiamento leale nei confronti della road map.
Più complesse le difficoltà riscontrate da Bush con Ankara. L’inaspettata vittoria di un partito che ha nella connotazione islamica il suo tratto saliente ha spiazzato completamente la diplomazia americana che ha condotto
la trattativa sulla partecipazione turca alla guerra contro l’Iraq senza tenere conto che nel Parlamento turco sono oggi rappresentate sensibilità islamiche radicate, ben distanti da quelle "atlantiche" degli scorsi cinquant’anni. Tra Ankara e Washington, per colpa essenzialmente americana, è andata così in scena una tragicomica commedia degli equivoci di cui ha fatto le spese la quarta divisione corazzata americana. Ma, per fortuna, al governo di Ankara siede una leadership che ha chiaro che l’alleanza con gli Stati Uniti e l’Europa è strategica, in cui le componenti che puntano a un gioco allo sfascio "alla Mubarak" esistono, ma sono minoritarie. Per fortuna, soprattutto, che c’è in Europa un forte schieramento che comprende che l’unica strategia nei confronti del terremoto islamico passa per i Dardanelli.
Segue un'intervista ad Efraim Dubek, ex ambasciatore israeliano al Cairo, firmata da Alessandra Coppola e pubblicata sul Corriere della Sera a pagina 6.
«Fiori e tappeti rossi sono pronti: in Israele Mubarak sarebbe accolto a braccia aperte». Efraim Dubek sa quel che dice: per anni è stato ambasciatore dello Stato ebraico al Cairo e più di una volta ha provato a portare il presidente egiziano dall’altra parte del confine.
Adesso Hosni Mubarak (da domani in visita in Italia) l’ha detto con chiarezza nell’intervista di ieri al Corriere della Sera : «Se fosse utile per far vincere la pace... andrei dalla mia gente e chiederei il permesso per andare a Gerusalemme».
Sembrano esserci le basi per una storica visita ufficiale...
«Mi permetto di avere dei dubbi - frena l’ambasciatore Dubek -. Quello che Mubarak dice al Corriere è interessante. Ma in oltre vent’anni al potere il presidente egiziano è stato invitato decine di volte in Israele. Ha sempre risposto: "Vorrei venire". E non è mai venuto. L’unica eccezione l’ha fatta per partecipare ai funerali del suo "compagno di pace", il premier Yitzhak Rabin (celebrati il 6 novembre 1995, ndr ). Poi più nulla. In tutto questo tempo nessun segnale positivo».
Da Israele le risposte all’apertura di Mubarak sono ancora caute. Per assumere una posizione ufficiale i portavoce del governo preferiscono attendere il rientro di Ariel Sharon dalla visita ufficiale in India.
Del resto, «non è la prima volta che il presidente egiziano si dice disponibile a un viaggio a Gerusalemme - sottolineano dal ministero degli Esteri -: Mubarak tenta di legare i progressi nelle relazioni tra Stato ebraico ed Egitto agli sviluppi del processo di pace israelo-palestinese. Siamo interessati a un legame forte con Il Cairo, ma che sia indipendente dai negoziati con i palestinesi».
Resta la convinzione che Mubarak sia «un autentico uomo di pace - sottolinea Dubek -. In Israele lo rispettiamo molto perché si è realmente dedicato alla fine del conflitto. Anche se continua a volere una pace come la vede lui».
E cioè?
«Senza condizioni, con uno Stato d’Israele relegato a un ruolo marginale nella regione. La posizione egiziana a riguardo è stata espressa chiaramente anni fa da Boutros Boutros-Ghali (ex ministro degli Esteri del Cairo, poi segretario generale dell’Onu, ndr ), secondo il quale lo Stato ebraico "deve essere riportato alle giuste misure"».
Forse, però, i tempi sono cambiati, e sono maturate adesso le condizioni per un ritorno a Gerusalemme.
«Io non credo. Niente è cambiato in vent’anni. Ho parlato molte volte con il presidente Mubarak dell’ipotesi di una sua visita in Israele. Mi ha sempre detto: "Quando il tempo sarà giusto". Nel suo linguaggio significa: quando lo Stato ebraico accetterà incondizionatamente quello che vuole l’Egitto. Mubarak desidera la pace, ma non è disposto a reali compromessi. Anche se, naturalmente, non vuole lo scontro armato e fa di tutto per evitarlo».
Non crede che in questa fase Mubarak potrebbe avere un ruolo significativo come mediatore nel processo di pace?
«Certo. Un ruolo chiave l’ha avuto già in diverse occasioni. A giugno, è stato decisivo il suo sostegno alla hudna (la tregua islamica proclamata unilateralmente dai gruppi armati palestinesi, ndr ) che noi israeliani non volevamo accettare. La consideravamo solo un mezzo per gli estremisti per prendere tempo e rafforzarsi. Ma la questione adesso è: fino a che punto Mubarak è disposto a fare pressioni sul palestinese Arafat perché fermi davvero il terrorismo? Fino a dove è disposto a spingersi per bloccare realmente il contrabbando di armi tra l’Egitto e Gaza? Ci ha provato, è vero, ma non è andato molto lontano».
L’esplosione della seconda Intifada ha rafforzato i sentimenti anti-israeliani nell’opinione pubblica egiziana. Un elemento che potrebbe aver rappresentato un freno all’azione del presidente.
«Non credo. Mubarak è un leader coraggioso, l’ha dimostrato molte volte. Negli anni, per esempio, in cui l’Egitto è stato espulso dalla Lega araba per aver fatto la pace con Israele (dal 1979 al 1989, ndr ). Quanto all’opinione pubblica, in realtà è lui che la guida e può condurla verso posizioni più moderate. La stampa in Egitto è libera fino a un certo punto. Dipende molto da lui».
Nell’intervista al Corriere Mubarak imputa lo stallo nella road map anche agli israeliani e al loro tentativo «non utile né saggio» di isolare Arafat. Non può esserci processo di pace, dice, senza il presidente palestinese.
«Per dieci anni noi abbiamo considerato Arafat un interlocutore. Abbiamo smesso di parlare con lui solo di recente, nel momento in cui siamo stati convinti che non avrebbe mai messo in pratica quello che diceva. Arafat deve smetterla di sostenere il terrorismo come mezzo per risolvere i problemi. Per fare pressioni in questo senso, Mubarak può avere un ruolo molto positivo».
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