Riprendiamo dalla STAMPA del 06/10/2025, a pag. 26, con il titolo "Israele e sionismo gli errori di Pappé" il commento di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
C'è qualcosa di surreale nell'invocazione da più parti alla fine d'Israele. La gridano gli striscioni che nelle manifestazioni di massa chiamano il 7 ottobre resistenza palestinese, urlano dal mare al fiume, dichiarano che Israele non ha diritto di esistenza. Questa negazione di uno Stato e della sua realtà viene declinata non solo nei cortei o sui social ma anche in dibattiti televisivi o più o meno filosofici, su copertine di libri. Anna Foa scrive Il suicidio di Israele senza punto interrogativo in fondo.
Ilan Pappé pubblica oggi in italiano La fine d'Israele. E anche qui, nessun dubbio, nessuna incertezza. Israele finisce, finirà o è già finito. Israele è l'unico Paese al mondo del quale si possa pronunciare la morte con l'evidenza incontrovertibile dell'affermazione. E viene da chiedersi perché mai tanta sicurezza sull'insostenibilità di questo Paese. Sul fatto che non abbia futuro. Che o si sta suicidando o sta morendo, comunque è alla fine. Tutto questo viene prima e va al di là del conflitto in corso. Anzi: la fine d'Israele non è la conseguenza del conflitto, ma viceversa. Il conflitto è il segno che Israele è un Paese finito, per mano sua o altrui o di una non ben definita istanza storica o etica o chissà.
Pappé sbaglia dicendo che Israele non ha mai riconosciuto gli arabi, i vicini, i conviventi su quel pezzo di terra. L'auspicio e l'impegno a tutto questo stanno scritti nella dichiarazione d'indipendenza letta a voce alta da Ben Gurion il 14 maggio del 1948, poche ore prima che tutti i Paesi arabi dichiarassero guerra a Israele perché esisteva. Pappé sbaglia sostenendo che il 99% degli israeliani manco sa l'arabo, che è seconda lingua e molto spesso obbligatoria nelle scuole medie e superiori del Paese. Prima lingua, ovviamente, nel sistema scolastico parallelo della minoranza araba israeliana. Senza contare il fatto che la maggioranza degli israeliani è discendente degli ebrei cacciati dai Paesi arabi a partire dal 1948 – la nabka dimenticata, un milione di profughi dal Marocco all'Iraq, dall'Iran alla Libia. Loro stessi si definiscono "ebrei arabi"...
Ma il punto non è soltanto questo. Chi invoca o constata la fine d'Israele solitamente addita il sionismo come la madre di tutte le colpe. In un certo senso è vero che il sionismo è finito. Ha ottenuto il suo obiettivo: trovare e costruire una patria per gli ebrei. Il sionismo è finito così come è finito il Risorgimento. Eppure il sionismo è chiamato in causa come la radice di tutti i mali. Come se lo Stato d'Israele, cioè l'esito del movimento sionistico, fosse il frutto malato di una malattia.
Allora, sempre per assurdo, poniamo il caso che sia così. Che lo Stato ebraico sia cancellabile. Che Israele sia alla fine, come dice Pappé. Che abbia commesso o stia commettendo un suicidio, come dice Foa. Che non abbia diritto di esistenza, come proclama una certa sedicente resistenza palestinese da prima del 7 ottobre, anzi dal 1948. Che si fa? Dove li mettiamo gli otto milioni di israeliani ebrei e i due milioni e mezzo di israeliani arabi (mussulmani e cristiani)? Li deportiamo tutti? E la giurisdizione del defunto Stato ebraico a chi passa? Chi lo governa? Hamas? L'Anp che ha già il suo da fare nei territori dell'Autonomia palestinese e si è subito chiamato fuori da Gaza? Una potenza coloniale, sempre che ne esistano ancora? La questione non è da poco. Chi auspica o profetizza la fine di Israele dovrebbe farci i conti. A meno che non sia tutto un perverso gioco retorico, una deliberata ignoranza di quella realtà dove oggi si vive e si muore e si spera nel presente ma anche nel futuro.
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