La guerra persa nelle smentite
Commento di Daniele Scalise
Daniele Scalise
Le guerre moderne non si combattono solo con i missili: si combattono con la velocità dell’informazione. La prima versione di un fatto è una colata di cemento armato nella memoria collettiva; la rettifica è un filo d’acqua che scivola via senza lasciare traccia. Su Israele, questa asimmetria è sistematica: la bugia corre e la verità inciampa.
Il meccanismo è semplice quanto spietato. Una notizia esce confezionata in modo da generare massima indignazione. In poche ore rimbalza su agenzie, prime pagine e social network. Poi, quando i dettagli cambiano, quando le fonti si correggono o si contraddicono, la macchina dell’attenzione è già altrove quando l’emozione (la prima) resta e i fatti evaporano.
Il 12 aprile 2024 un portavoce locale dell’UNRWA a Gaza pubblica sui social un’accusa precisa: un convoglio umanitario dell’ONU è stato colpito da un raid israeliano a Deir al-Balah, causando vittime. La notizia è perfetta per i titoli: militari contro i civili, cattivissimi che massacrano senza scrupoli i buonissimi. Reuters, AFP e AP la rilanciano quasi in simultanea, trasformandola in apertura di giornali e telegiornali. Sui social, migliaia di post e condivisioni fissano l’immagine: Israele bombarda chi porta aiuti.
Solo ore dopo arriva la smentita ufficiale dell’ONU: non c’è stato alcun attacco israeliano mentre l’esplosione è stata causata da un ordigno palestinese (ohibò!) esploso vicino al convoglio. La versione cambia radicalmente, ma la correzione appare in trafiletti senza foto e in coda ai notiziari. I titoli di prima pagina non vengono mai aggiornati.
Le smentite soffrono di tre handicap fatali. Primo: arrivano tardi, quando l’attenzione pubblica è già altrove. Secondo: sono meno emotive, perché si limitano a correggere e non a indignare. Terzo: chi le legge è spesso già convinto della colpa israeliana e interpreta la rettifica come propaganda riparatoria. In questo modo, la bugia non viene mai davvero cancellata: rimane latente, pronta a essere riesumata alla prossima occasione.
In altri conflitti, quando una notizia si rivela falsa, i media fanno almeno un gesto di autocritica: inchieste interne, servizi di approfondimento, spiegazioni ai lettori. Nel caso di Israele, no. La correzione è tecnica, asettica, quasi infastidita. La sensazione è che ammettere l’errore su Israele sia più pericoloso che diffondere la falsità stessa: meglio lasciar correre, confidando che il pubblico non se ne accorga.
Ogni notizia falsa non smentita con la stessa forza con cui è stata lanciata diventa un mattone nella costruzione di un pregiudizio. E quando questo pregiudizio è solido, non servono più fatti: basta evocare le accuse passate, vere o false che fossero. Israele resta sul banco degli imputati per crimini che non ha commesso, in processi che si celebrano ogni giorno sui media senza mai arrivare a sentenza.
In questa guerra, Israele perde non perché la verità non esista, ma perché arriva sempre dopo, stanca e sola. E in un mondo dove il primo titolo è quello che conta, la verità è una notizia vecchia già nel momento in cui viene pronunciata.
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