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La Repubblica - Il Foglio - Avvenire Rassegna Stampa
26.08.2020 Israele-Sudan, continuano le trattative per un accordo
Commento di Federico Rampini, editoriale del Foglio, breve disinformata di Avvenire

Testata:La Repubblica - Il Foglio - Avvenire
Autore: Federico Rampini
Titolo: «Il trionfo di Pompeo il falco della diplomazia - Se anche il Sudan riconosce Israele - Mediazione Usa, il premier Hamdok frena: 'Presto per la normalizzazione con Israele'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/08/2020, a pag.14, con il titolo "Il trionfo di Pompeo il falco della diplomazia", l'analisi di Federico Rampini; dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale "Se anche il Sudan riconosce Israele"; da AVVENIRE, a pag. 13, a firma A.E. il commento "Mediazione Usa, il premier Hamdok frena: 'Presto per la normalizzazione con Israele' ".

Quello che scrive Avvenire - un presunto rallentamento delle trattative per un accordo Sudan-Israele sul modello di quello tra lo Stato ebraico e gli Emirati - è contraddetto da Repubblica e dal Foglio.Vedremo se ci sarà un trattato con il Sudan e se ne seguiranno altri.

Ecco gli articoli:

Pompeo in Sudan visit pushes normalizing ties with Israel | World ...
Mike Pompeo

LA REPUBBLICA - Federico Rampini: "Il trionfo di Pompeo il falco della diplomazia"

Immagine correlata
Federico Rampini

«Resistere alla penetrazione del partito comunista cinese in tutte le sfere della nostra economia, della politica e della società, è la nuova missione del mondo libero. Il pericolo che incombe su di noi è ancora più grave della prima Guerra fredda». L’ultima provocazione, Mike Pompeo l’ha lanciata rivolgendosi alla convention repubblicana in videostreaming da Gerusalemme. Si è levato un coro di proteste tra diplomatici di professione – i suoi sottoposti – per questa mescolanza tra Stato e partito. Ma Pompeo ha centrato il suo bersaglio vero: quel discorso è stato un simbolo potente per la base elettorale degli evangelici, pronunciato dalla Terra Santa, luogo sacro per le religioni abramitiche. Era anche un modo per ricordare che proprio lì si è celebrato l’ultimo successo della diplomazia americana: il disgelo fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, che rafforza la coalizione mediorientale a cui lavora Washington per accerchiare l’Iran. Pompeo è un motore instancabile di questa politica estera. Dopo un anno alla guida della Cia (2017), il suo incarico al dipartimento di Stato da due anni e mezzo irrobustisce un’esperienza internazionale che ne fa un altro aspirante alla Casa Bianca nell’era post-trumpiana. Tanto più che il capo della diplomazia non è uno di quegli outsider "catapultati" da Trump nella politica: si è fatto le ossa nel Tea Party (il movimento anti- tasse e anti-Stato che spianò la strada al trumpismo), è stato deputato del Kansas, è una colonna portante della "destra italo-americana" in seno alla Niaf (National Italian American Foundation). E se Pompeo è spesso entrato in rotta di collisione con il suo stesso apparato, i diplomatici di carriera anzitutto, non bisogna credere alla leggenda per cui il Deep State è compatto contro Donald Trump. Certo nelle alte sfere dell’amministrazione pubblica e delle agenzie federali ci sono cordate di democratici o di repubblicani moderati, che intralciano sistematicamente il presidente. Ma c’è anche un Deep State neoconservatore con il quale Pompeo ha costruito dei ponti robusti. Quando ha sancito lo spostamento di truppe americane dalla Germania alla Polonia, alterando gli equilibri Nato, si è preso tutta l’eredità di Donald Rumsfeld, il "neocon" segretario alla Difesa di George W. Bush che coniò l’immagine di una New Europe (fedelissimi da premiare, soprattutto dell’Est ex-comunista) contro una Old Europe (l’odiato asse franco- tedesco). C’è una logica, una coerenza e una continuità. Lo stesso vale per la Cina. Non solo Pompeo ha assecondato la strategia cinese di Trump, che in quattro anni ha spostato l’asse di tutto l’establishment (ormai anche Biden è un falco verso la Cina), ma di recente si è candidato a diventare il "teorico" della nuova Guerra fredda. In un discorso di quest’estate ha aggiunto a tutti i contenziosi – economico, tecnologico, militare e geopolitico – una nuova dimensione di sfida ideologica, quando ha deciso di rivolgersi «al popolo cinese, contro la tirannide ». Un tono da prima Guerra fredda, quando l’Impero del male era l’Unione sovietica, che non dispiace ad un’ala conservatrice delle forze armate e dell’intelligence americana. All’attivo del bilancio della sua politica estera c’è anche la questione indiana: l’India era già in una marcia di avvicinamento verso l’America, ma l’intesa con Narendra Modi si è spinta fino a rendere realistico un "cordone strategico" nell’area Indo- Pacifico in chiave di contenimento della Cina. Pompeo ha rafforzato le sue credenziali presso il Pentagono e l’intelligence anche perché non ha ceduto all’attrazione fatale di Trump verso Vladimir Putin. La sua prossima battaglia avrà come teatro le Nazioni Unite, in occasione dell’Assemblea generale, a fine settembre: sarà "l’ariete di sfondamento" per un nuovo giro di vite di sanzioni contro l’Iran. Chi lamenta che la convention è stata avara di progetti per il futuro, chi attende di sapere quale agenda politica avrebbe un secondo mandato Trump, almeno in politica estera può guardare al percorso del primo mandato e immaginarne il prolungamento: lo stesso, di più.

IL FOGLIO: "Se anche il Sudan riconosce Israele"

Israel–Sudan relations - Wikipedia
Sudan e Israele

Dopo l'accordo recente tra Emirati Arabi Uniti e Israele adesso anche un altro paese arabo, il Sudan, è pronto a fare il passo del riconoscimento sempre con la mediazione degli Stati Uniti (ma ancora non c'è un annuncio ufficiale). Il segretario di stato americano, Mike Pompeo, vola diretto da Israele a Khartoum, capitale del Sudan, e già questa rotta è simbolica della sua missione e di quello che sta succedendo. Se l'accordo con i sudanesi funzionerà, allora si potrà cominciare a parlare di effetto domino e di progressiva normalizzazione di tutti i paesi arabi con Israele, e non soltanto di alcune poche eccezioni. Egitto e Giordania hanno già relazioni con Israele ma condividono un confine con lo stato ebraico e quindi avevano molte ragioni pratiche per arrivare a un accordo di pace, molti anni fa. Gli Emirati prima e adesso il Sudan invece non hanno confini in comune con Israele, parlano di normalizzazione perché riconoscono che è più utile nel grande gioco delle relazioni internazionali parlare con Israele invece che fare finta che non esista. A questo punto ci sono da capire due cose. La prima è cosa faranno i palestinesi. Questa normalizzazione progressiva per loro è una cosa terribile, perché vuol dire che stanno perdendo poco a poco la solidarietà storica delle nazioni arabe. Se non possono più dire di avere alle spalle tutti i paesi arabi e se i governi arabi non considerano più la causa palestinese una questione di principio che viene prima di tutto il resto, allora si apre una fase di debolezza e incertezza. La seconda cosa da capire è se quest'effetto domino si fermerà qui - in fondo il Sudan è un territorio dove gli Emirati sono molto influenti - oppure se la catena continuerà e chi sarà il prossimo. Questi accordi sono positivi, ma c'è da tenere a mente una cosa: nascono per tentare di tenere a bada una regione che è sempre più instabile e pericolosa.

AVVENIRE: "Mediazione Usa, il premier Hamdok frena: 'Presto per la normalizzazione con Israele' "

L’attuale governo sudanese di transizione, installatosi dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir, non ha il mandato per normalizzare le relazioni con Israele. Lo ha affermato il premier ad interim sudanese, Abdalla Hamdok, durante la visita a Khartum del segretario di Stato americano Mike Pompeo. «II premier ha chiarito che il periodo di transizione in Sudan è guidato da una vasta alleanza con un'agenda specifica: completare la transizione, raggiungere la pace e la stabilità del Paese e tenere libere elezioni», ha riferito il portavoce Faisal Saleh. L'esecutivo «non ha mandato al di fuori di questi compiti o di decidere sulla normalizzazione con Israele», ha aggiunto. Pompeo è arrivato nel Paese africano, il primo capo della diplomazia Usa in 15 anni, alla luce della recente normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, un primo passo che nella speranza di Washington dovrebbe aprire la strada ad accordi analoghi con altri Paesi arabo-musulmani. Dopo la visita il ritorno a Gerusalemme, Pompeo si recherà ad Abu Dhabi, negli Emirati, e a Manama, in Bahrein.

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