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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa-Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.01.2012 In arrivo il Giorno della Memoria, commenti e analisi
di Elena Loewenthal, Marco Belpoliti, Gabriella Bosco, Giorgio Pressburger

Testata:La Stampa-Corriere della Sera
Autore: Elena Loewenthal-Marco Belpoliti-Gabriella Bosco-Giorgio Pressburger
Titolo: «L'Europa non volle vedere il treno per i Lager-La vita è bella ha banalizzato i campi di sterminio ?-Salvato dal calcio del bullo nella Francia di Vichy-Kertész, fuga senza fine da Auschwitz»

Si avvicina il 27 gennaio, giorno della Memoria della Shoah. Oggi, 21/01/2012,La STAMPA dedica alcune pagine di TUTTOLIBRI che riprendiamo, il saggio introduttivo di Elena Loewenthal e due recensioni di Marco Belpoliti e Gabriella Bosco.  Sul CORRIERE della SERA, Giorgio Pressburger racconta il nuovo libro di Imre Kertesz.
Sul Giorno della Memoria in Italia, Manfred Gerstenfeld intervista Angelo Pezzana, ecco il link: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=360&id=43073

La Stampa/Tuttolibri-Elena Loewenthal: " L'Europa non volle vedere il treno per i Lager "


Auschwitz, l'ingresso                       Elena Loewenthal

Auschwitz è il buco nero della nostra storia: una voragine cieca e incolore dopo la quale nulla è più come prima. Ma non è uniforme, l’oscurità di questo non luogo che sta dentro il nostro mondo, abita la nostra civiltà anche se preferiremmo tutti sbarazzarcene, fare come se non fosse mai successo. Il male non è mai uguale a se stesso, ha fantasia. Sorprende prima ancora di spezzare: sfida l’umanità a inventare. Auschwitz non è il male assoluto perché, e forse purtroppo, il male assoluto non esiste - c’è sempre qualcosa che è peggio, più crudele, più basso. E il buio di quel luogo, di quel tempo, di quell’orrore, conosce un’infinità di sfumature: come se il nero non fosse assenza di luce e colore, ma una gamma inesauribile di oscurità.

Perché Auschwitz è stato il campo di sterminio, è stato le camere a gas, sono stati i forni crematori e l’umanità sfigurata nelle baracche e nelle adunate del mattino. I cumuli di capelli e di denti e di scarpe. Ma è stato anche altro. Non si può dare un voto al dolore e dire: questo è il più terribile, questo è peggio. Ma accostare, sì. Provare a immaginare. Immedesimarsi, malgrado una distanza abissale. Sapere che quell’inferno aveva molte facce, non una soltanto.

Auschwitz, dunque, è stato non solo laggiù, nella campagna polacca sulla quale la cenere dei forni ha continuato a depositarsi per molto tempo dopo, ancora. E’ stato anche nei luoghi di raccolta, meta dei rastrellamenti. Nei vagoni merci che attraversavano l’Europa in lungo e in largo, si fermavano nelle stazioni. Volendo, fra le fessure del legno, attraverso gli spioncini, si sarebbero visti occhi, scampoli di facce. Volendo, si sarebbero potuti ascoltare i lamenti, le voci. E invece, l’Europa si è fatta attraversare da questi treni come una pista di ghiaccio dove i pattini passano e lasciano una minuscola riga, che subito sparisce.

Sono tanti, i luoghi di mezzo della Shoah: là dove lo sterminio era presagio e certezza al tempo stesso. Là dove Auschwitz era ancora soltanto un’ombra, eppure pesante e feroce. Anticamere dell’inferno, ma anche inferni essi stessi. Ne Il vagone (Mondadori, traduzione di Marco Bellin, pp. 152, 10) Arnaud Rykner prova a fare il viaggio: accompagna l’ultimo treno di deportati in direzione Dachau, giorni e giorni di un tragitto che durerebbe molto meno, prolungato per seminare morte e sofferenza sui binari. La sua è un’operazione letteraria ardua, ai limiti dell’impossibile. Difficile dire se ci sia riuscito o meno. Come si fa a immaginare - e raccontare - quello che si è provato lì dentro? Rykner riesce soprattutto a dar conto dell’assurdo isolamento di quei convogli: se Auschwitz è un altro mondo, quei treni erano ancora in questo. Questo mondo li ha vergognosamente fatti passare, li ha digeriti nello stomaco della propria storia.

Prima dei vagoni merci, ci sono stati i rastrellamenti. Abbiate Pietà di mio Figlio (a cura di K. Taieb, D. Missika, Sperling e Kupfer, pp. 210, 17; pubblicato sulla scia del romanzo La chiave di Sara , di Tatiana de Rosnay, Mondadori, pp. 321, 17, ora anche film) riporta le lettere di alcuni fra gli ebrei rinchiusi al Vel d’Hiv a Parigi. Fra il 16 e il 17 luglio del 1942, 3031 uomini, 5802 donne e 4051 bambini (sì, bambini) vengono rastrellati e rinchiusi qui dal governo di Vichy, in attesa di essere deportati. Queste diciotto lettere sono piene di paura e raccomandazioni, di testamenti e quotidianità. E’ un libro terribile perché toglie il velo a una pagina francese rimasta piuttosto taciuta. «Miei cari Roland, Annie e Paule. Sono le 4 del mattino. Sono venuti a prenderci. Vi dico addio, mi pento di tutto il male che potrei avervi fatto e delle preoccupazioni che vi ho procurato. Sappiate che vi ho amato sopra ogni cosa, anche se non ho potuto dimostrarlo». Ancora una volta, al Vel d’Hiver la civile Europa mostra di cosa è stata capace: e mica solo i nazisti occupanti. No, non solo loro.

Ma prima di Auschwitz, prima dei treni della morte, prima dei rastrellamenti nelle metropoli d’Europa, c’è stata l’emarginazione. Due erano gli obiettivi: «tenere pulita» la società evitando il contatto con la stirpe «infetta». Ma soprattutto rintracciare gli ebrei più facilmente, uno ad uno. L’emarginazione è stata davvero l’anticamera dello sterminio. Anche se a volte, da quei luoghi recintati in cui gli ebrei furono rinchiusi, l’orrore sembrava lontano. Come allo Joods Lyceum di Amsterdam, dove Theo Coster è tornato qualche anno fa con un documentario e ora con un libro, .

, Rizzoli, pp. 178, 17,50. Ma perché omettere del tutto il nome del traduttore?). Una specie di gita scolastica con il cuore e la memoria, insieme ad Anne Frank e ai compagni che non ci sono più. E’ un libro quasi sereno, questo, ad ogni riga animato da un’assenza: quella di lei, in cui tutti i sopravvissuti si rispecchiano. Ma proprio questa apparente serenità, questi ricordi di scuola così simili a tanti altri eppure così immensamente distanti da una rievocazione «normale», fanno presto schiantare il lettore contro la realtà della storia, il silenzio di chi non c’è più.

La Stampa/Tuttolibri-Marco Belpoliti: " La vita è bella ha banalizzato i campi di sterminio ?"


Da qualche anno il tema della memoria è diventato centrale in ogni discussione culturale e politica. Da quando le memorie offese di popoli, minoranze, gruppi, individui, sono balzate al centro del dibattito pubblico, è subentrata la sensazione che esista, oltre che un uso, anche un abuso della memoria stessa. Valentina Pisanty nel suo libro, Abusi della memoria (Bruno Mondadori, pp. 152, €16) affronta di petto il tema. E lo fa mettendo alla prova la questione che ha prodotto sia l'uso che l'abuso: la Shoah. Inoltre, se si considera che questo tema è legato, dopo il processo a Eichmann nel 1961, all' identità dello Stato di Israele, alla sua creazione ed esistenza, si comprende come un groviglio di problemi agiti il dibattito in Europa come in Israele, come mostra il recente libro di Idith Zertal (Einaudi).

Pisanty è una semiologa e affronta la questione con i suoi strumenti, cercando di individuarne le contraddizioni. Tre sono gli ambiti che esamina: il negazionismo, la banalizzazione e la sacralizzazione della Shoah. L'autrice si arma d'intelligenza, buon senso e un innegabile bisturi illuminista, sezionando e definendo i temi che si agglutinano. Holocaust , il film televisivo che cambiò la percezione della Shoah nel mondo occidentale, e La vita è bella di Benigni , banalizzano o no la vicenda degli ebrei gasati ad Auschwitz? E il fatto che scrittori come Elie Wiesel abbiano fatto dell' Olocausto un elemento sacro della identità ebraica, che effetti produce? Banalità e sacro sono davvero l'uno l'altra faccia dell'altro?

Questioni intricate che il libro affronta con lucidità e correttezza, mettendo bene in luce il paradigma vittimario che si è prodotto nel corso degli ultimi quarant'anni intorno allo sterminio, e che ha contagiato molti altri episodi tragici della storia passata e recente, così da diventare una questione politica di grande evidenza: cosa significa essere una vittima? Quali problemi crea la figura della vittima nel raggiungimento di una verità e di una giustizia definitiva? Il tema della banalizzazione è la chiave della questione, che oggi ha sostituito il dibattito tra storici e testimoni sulla determinazione della verità degli avvenimenti, una volta che si è concluso che esiste una indubbia divergenza tra ciò che si è vissuto e ciò che è effettivamente accaduto, a vantaggio degli storici, ma senza obliare i testimoni.

Così resta problematico definire cosa significa «banalizzare». Se il banale è ciò che si oppone al «distinto», come ha precisato una volta Stefano Bartezzaghi a proposito di Queneau e dei suoi Esercizi di stile, non è facile isolare la banalità: «la banalità è come una macchia lattiginosa che circonda gli oggetti della nostra attenzione», così che più ci concentriamo sulla macchia più la togliamo dalla sua banalità.

Pisanty accosta l'argomento, per mostrare la banalizzazione della Shoah da parte di film come Portiere di notte della Cavani o al porno-nazi di Brass, ma di fronte al lavoro di Begnini si trova in difficoltà, e anche l'uso del Kitsch, un tempo strumento sicuro per individuare la banalizzazione, non è così semplice oggi da manovrare dopo trent'anni di televisione berlusconiana e di rivalutazione del pop. Abusi della memoria è un bel libro che apre problemi che vanno oggi affrontati in modo urgente, anche per uscire dalla stagnazione culturale attuale. La Pisanty ha dunque aperto la strada a un ripensamento importante.

La Stampa/Tuttolibri-Gabriella Bosco: " Salvato dal calcio del bullo nella Francia di Vichy "

Un racconto di vita: una vita in cui la chance, la fortuna, ha avuto un ruolo determinante. Intendiamoci: può essere considerata fortuna il fatto di ricevere un calcio così forte da spezzare un'anca, un cattivo decorso degenerato in tubercolosi ossea, un ricovero lunghissimo, la solitudine di credersi abbandonato dalla famiglia, cure insufficienti e per molto tempo inefficaci? Sì, nella Francia del 1942 occupata dai tedeschi e in cui vigono le leggi razziali, per un ragazzino dodicenne ebreo questa serie di fatti che in altro tempo e in altro luogo sarebbero stati una summa di disgrazie diventano una fortuna. Strana, sicuramente, ma indubbia. Perché fu quella serie di fatti, il loro concatenarsi, l'imbozzolamento in un letto d'ospedale fuori dai riflettori della storia, a salvargli la vita. La chance, per quel ragazzino di famiglia polacca emigrata in Francia in seguito ai pogrom contro gli ebrei, si presentò sotto forma di aggressione feroce prima, e di malattia grave poi.

Il racconto è in prima persona, il narratore, ovvero il bambino preso a calci da un compagno di scuola cattolico, è Maurice Grosman, l'autore del libro. La sua memoria però è restia ad andare in linea retta, a seguire cronologicamente i fatti come di norma accade quando si racconta la propria vita, quando si scrive un'autobiografia. È una memoria costretta a fare avanti e indietro, a tuffarsi nell'orrore per poi riemergerne andando a ripescare momenti sereni, che facciano da scudo al resto e rendano dicibile ciò che non lo è.

L'antefatto: papà Grosman, sarto, viene arrestato e mandato a Drancy, il campo di smistamento francese, nel 1941. La moglie e i cinque figli sopravvivono come possono in una Parigi ogni giorno più inospitale. Un giorno Maurice e il fratellino Simon - elusa la sorveglianza materna - vanno a piedi a Drancy perché sanno che lì è stato portato il loro padre e alle guardie del campo chiedono di poterlo incontrare. Vengono rispediti a casa, inconsapevoli del rischio corso.

La tragedia: l'obbligo di portare la stella gialla cucita sugli abiti genera comportamenti brutali nei confronti di chi, in questo modo, diventa individuabile. Maurice cerca di difendere il fratellino dalla violenza di un compagno e riceve il calcio che lo spezza in due. Ricoverato in ospedale, non vedrà più i suoi familiari che verranno portati via durante la tristemente celebre retata del 16 luglio 1942. La «fortuna» coincide con l'aggravarsi delle condizioni di salute del dodicenne. Fortuna aiutata, va detto, da alcuni francesi - ce ne furono - che non accettando la legge del nemico la combatterono. Protessero quel ragazzino e tanti altri come lui, lo nascosero, lo curarono sotto falso nome.

L'epilogo: qui sta il risvolto della storia, il suo riscatto. Maurice, finalmente guarito (sia pure con l'handicap di una gamba che resterà per sempre menomata) al momento della Liberazione, solo al mondo, viene affidato all'Assistenza pubblica. Ma il libro, nel suo ultimo scorcio, racconta il riemergere dal nulla di una zia ricca, la ripresa della vita. Maurice si dà da fare e appena può rileva un negozietto, poi un altro…

Ne sarebbe nato il marchio Celio, oggi famoso nel mondo: grazie a una calcio dato con odio che il caso trasformò in salvezza.

Corriere della Sera-Giorgio Pressburger: " Kertész, fuga senza fine da Auschwitz "


Imre Kertesz

Bompiani pubblica Io, un altro di Imre Kertész, lo scrittore ungherese, Premio Nobel nel 2002. (Il precedente stampato dallo stesso editore si intitolava Il vessillo britannico).
Molti ricorderanno anche l'impareggiabile Essere senza destino (Feltrinelli) premiato col «Flaiano», un anno prima del Nobel. Sì, Imre Kertész è uno dei maggiori scrittori viventi e alcuni suoi libri sono all'altezza di Primo Levi, al quale si può paragonare per la somiglianza di temi e di esperienze umane fatte durante la Seconda guerra mondiale. In un'epoca in cui dominano i romanzi «rosa», o polizieschi, e pare che per altri generi non ci sia spazio, l'apparizione di questo libro piccolo, 135 pagine, vivace e dolente, ma anche umoristico, è un vero regalo. Testimonianza del fatto che esistono altre letterature, altri gusti, anche se occorre pazientemente cercarne le tracce.
Il volumetto di Kertész parla di un tema che ci porta nel sottosuolo, negli abissi dell'animo e del destino. Si tratta del vagare di un sopravvissuto ad Auschwitz nei Paesi centrali dell'Europa, negli anni dell'apertura dei confini, la caduta del muro di Berlino. Un cammino solitario, compiuto per la prima volta in libertà, su inviti di associazioni letterarie e religiose, di amici dell'Europa occidentale. Ma com'è questo viaggio, per chi si è salvato ad Auschwitz e finalmente è fuori anche dalle galere staliniane? È come vedere le cose essendo diventati completamente «altri», estranei a sé stessi e al mondo, alla propria vita precedente? È come risvegliarsi sotto l'effetto di una metamorfosi totale. Ma non è la crisalide che si trasforma nell'angelica farfalla come nella Divina Commedia di Dante, o nella poesia del giovane poeta di Gorizia Carlo Michelstaedter vissuto all'inizio del Novecento, (Il canto delle crisalidi). Non è in qualcosa di nuovo e promettente che la crisalide si trasforma qui, bensì in un essere estraneo a tutto, a tutti, a se stesso e all'intero Universo. La piaga inferta dall'orribile esperienza di Auschwitz e poi dalla dittatura staliniana non si rimarginerà più, perché anche quella del mondo nuovo, sempre più conformista e violento, indifferente, vuoto, avido, non sembra più guarire. Lo scrittore, nel suo pellegrinaggio in questo paesaggio deserto, come la Waste land di Eliot, a volte sovraffollato, luccicante, cerca con tutte le forze un appiglio alla vita, a qualche parvenza di esistenza sopportabile. Incontri fugaci, viaggi in automobile con donne mai nominate, nottate allucinanti in edifici vuoti nell'ex Germania dell'Est, costellano questo diario della metamorfosi. Sprazzi di veri sentimenti umani baluginano nell'oscurità, per un attimo si presentano anche momenti di felicità, ma tutto è rivolto verso una meta dove esistono soltanto i grandi interrogativi sullo scopo di vita e morte. L'ultima immagine del libro può rammentare una delle figurine umane di Giacometti: un uomo cammina con un piede già alzato e la testa rivolta all'indietro. Il passo condurrà alla morte ma lo sguardo è ancora affisso sulla vita.
Come tutti i libri di Kertész, Io, un altro è pervaso da un sentimento di acuto pessimismo, ma analogamente non è affatto distruttivo. Anzi. Vi sono molti riferimenti a celebri brani musicali e a opere di grandi narratori e poeti; qui non si tratta, come in molti libri che vogliono compiacere il lettore e il mercato, di puri elenchi di azioni e sensazioni. Si parla, in modo chiaro e semplice, anche se a volte addolorato, di smarrimenti, riflessioni, rimpianti, disperazione.
Eppure la lettura dà un certo slancio a chi la compie (in due ore al massimo), come capita soltanto con i grandi autori. Giacché di fatto si scopre un senso, in questo vuoto, in questa violenza e volgarità. In vari episodi narrati, come in quello dell'incontro con un barbone antisemita e ubriaco a Berlino, c'è una forma di umorismo tanto sottile e solare come è impossibile trovare nelle opere scritte per distrarre o intrattenere.
E a proposito di antisemiti: proprio nell'Europa centrale, dove è nato ha vissuto (e ha sofferto) Kertész, si stanno ridestando, nemmeno tanto nascosti, sprazzi di razzismo d'antico stampo. Questo libro parla anche di questi fenomeni, senza enfasi né esagerazione, ma con attonita obbiettività, come del resto in Essere senza destino. Direi che quel tono, quell'approccio alle grandi tragedie del Novecento ha trovato una voce, oltre a quella di Primo Levi e del poeta tedesco Paul Celan, soltanto nelle opere di Kertész.
La grandezza consiste soprattutto in questo: c'è molto di più della pura tragedia, c'è l'apparente considerazione dell'orrore come cosa che avviene in modo naturale, quasi logica, giustificata per la sua ineluttabilità sotto gli occhi di un ragazzo di 15 anni.
Del resto Kertész negli altri libri descrive con identico piglio le orrende angherie a cui quel ragazzo, ormai uomo di mezza età, viene sottoposto nell'Ungheria stalinista. O in quella d'oggi, nel ridestarsi di vecchi sentimenti razzisti che, all'epoca del conferimento del Nobel a Kertész, hanno fatto dire a qualche sciagurato collega che l'Ungheria non poteva vantarsene, giacché Kertész non è ungherese ma ebreo.
Oggi Imre Kertész ha scelto di vivere in Germania, a Berlino, dove ha cominciato a essere noto prima che altrove, prima della sua patria stessa. In Germania i suoi libri sono stati acquistati da un considerevole numero di lettori, discussi in conferenze, incontri e convegni. La vita in qualche modo premia chi riesce a sopportarne le prove più terribili, come è capitato a Kertész o al triestino Boris Pahor, anche lui reduce da vari lager. Il fatto che comincino a essere letti e stimati da un vasto pubblico quasi come eroi vittoriosi può essere considerato un segno incoraggiante: il lettore non è ridotto al livello di un cane da carezzare e consolare con uno zuccherino. Sopporta l'immersione nelle profondità e nella sofferenza altrui, non solo in quella esibita come oggetto di spettacolo. Kertész ha 82 anni, Pahor 99. Li conosco tutti e due, con Kertész ci si può dire amici. È un uomo solare, benigno. Non si lamenta mai. Chi come me ha vissuto da bambino o vive oggi esperienze in qualche modo simili alle loro si aggrappa al ricordo della loro vittoria, come nel Processo di Kafka chi canta in coro si aggrappa alla voce dei cantanti più vicini.

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