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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.01.2014 David Grossman si schiera con gli immigrati illegali in Israele
cronaca di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 gennaio 2014
Pagina: 17
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Grossman in campo per i migranti: 'Israele non può chiudersi in sé'»

Riportiamo da CORRIERE della SERA di oggi, 09/01/2014, a pag. 17, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo "Grossman in campo per i migranti: «Israele non può chiudersi in sé»".

In risposta alle dichiarazioni di David Grossman tutte pro immigrati illegali in Israele, consigliamo la lettura dell'analisi di Giovanni Quer, pubblicata su IC del 07/01/2014 (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=350&id=51933).


Lorenzo Cremonesi     David Grossman

GERUSALEMME — Hanno marciato in oltre 10.000 ieri di fronte al parlamento israeliano. «Sì alla libertà, no alla prigione», lo slogan più ripetuto. Assieme al loro urlo di accusa: «Siamo profughi, non criminali!». Un grido acuto, disperato, misto al bisogno di aiuto e di essere ascoltati. Oltre 10.000, che si sono messi assieme, hanno affittato decine di autobus con i loro magri risparmi e da Tel Aviv, Haifa, Holon, Eilat e gli altri centri urbani dove lavorano per lo più come camerieri, operai, spazzini, si sono concentrati nel cuore della capitale politica di Israele. Sono gli immigrati arrivati illegalmente dall’Africa profonda per lo più durante gli ultimi dieci anni. Chiedono di poter restare a lavorare e vivere da «persone normali». Manifestano, rivendicano lo status di rifugiati, di vittime perseguitate, contro le recenti scelte del governo Netanyahu che vorrebbe invece recluderli, isolarli e alla fine espellerli. Quanti sono in tutto? Non c’è un censimento definitivo. La polizia parla ufficiosamente di «oltre 52.000» persone, giunte per lo più da Etiopia, Eritrea, Sudan, Costa D’Avorio, Niger.
Il governo non li ascolta. Da domenica ogni mattina in oltre 20.000 hanno manifestato a Tel Aviv presso le maggiori ambasciate, a partire da quella americana e non lontano da quella italiana. Hanno anche letto un appello pubblico al premier Benjamin Netanyahu, in cui chiedono che i loro casi siano esaminati «uno per uno». Ma il premier è stato lapidario. «Queste manifestazioni non servono. Anzi sortiscono l’effetto contrario», ha dichiarato. Tre parlamentari della sinistra israeliana erano invece pronti a riceverli ieri. Ma il presidente del Parlamento, Yuli Edelstein, ha negato loro ogni accesso. Ad ascoltarli, e addirittura amplificare le loro richieste, è stato però lo scrittore David Grossman, che si è unito alla manifestazione indossando blue jeans e un largo piumino nero. Le sue parole, che non erano lette da un discorso preparato, ma gli sono venute spontanee, così, in inglese, da un altoparlante improvvisato, hanno toccato le corde profonde di questo Paese nato dagli anni bui del Novecento europeo. «Sono confuso, mi vergogno», ha detto senza lesinare critiche alla politica delle «porte chiuse» voluta dal governo. Una politica «fallimentare e ottusa», ha tuonato. «Noi israeliani dobbiamo ricordare tutte le porte rimaste chiuse quando avevamo bisogno, disperati che si aprissero. E ricordare che quelle poche porte che si aprirono cambiarono il nostro destino», ha aggiunto Grossman tra gli applausi. Ma la maggioranza ebraica del Paese sembra sorda a questi appelli. Qui il sentimento di simpatia con cui si accolgono gli immigranti ebrei è inversamente proporzionale a quello per i non ebrei. Gli africani sono accusati di diffondere criminalità, prostituzione, violenza, addirittura di aver «stravolto il carattere ebraico» dei quartieri dove risiedono in massa alla periferia meridionale di Tel Aviv.
Per arrivare in Israele hanno attraversato l’inferno. In Italia siamo ormai abitati alle loro storie di disperazione nel mezzo del Mediterraneo, ai racconti di ingiustizie, fame e solitudine. Qui invece sono stati vittime delle bande beduine, degli abusi sessuali, delle rapine e dei trafficanti di organi nel Sinai ora ancora più destabilizzato dal caos che regna in Egitto. Tanti sono spariti. E anche Israele ha la sua Lampedusa. Non sta in mezzo al mare, piuttosto nel deserto del Negev. Si chiama Holot, una sorta di centro raccolta profughi che gli africani definiscono apertamente «carcere». Situato presso il centro di detenzione di Ketziot (vi sono reclusi i criminali più pericolosi oltre ai palestinesi accusati di terrorismo), è difficile da raggiungere a ancora più complicato da lasciare, specie per chi non ha un mezzo di trasporto privato. Per bloccare i loro ingressi illegali è stata eretta lungo il Sinai una barriera elettrificata lunga 230 chilometri da Eilat a Rafah, sul modello di quella costruita al confine con il Libano. I lavori sono terminati solo pochi mesi fa e da allora gli arrivi sono praticamente azzerati. La politica delle «porte chiuse» prevale.

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