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Daniel Silva in edicola con il Giornale e in libreria - 08/08/2018 -

Daniel Silva in edicola con il Giornale e in libreria
L'autore più amato di libri di spionaggio, una lettura ideale per l'estate

Daniel Silva, nella Vedova nera ha anticipato di qualche mese gli attentati di Parigi nel 2015. Il suo ultimo La casa delle spie parte da cruenti attentati jihadisti a Londra poi realmente avvenuti l’anno scorso mentre il romanzo non era ancora uscito. Lei è preveggente o cosa? «Sono solo un romanziere che scrive thriller di spionaggio — risponde lui — cerco di non abituarmi a predire alcunché. Leggo e viaggio molto e provo a capire dove va il mondo. Nella Vedova nera ho anticipato a mia insaputa anche i legami terroristici tra Parigi e Molenbeek, a Bruxelles. La cosa mi inquietò molto e pensai di non pubblicare più il romanzo e scrivere altro. Ma poi ho deciso di completarlo lo stesso». Adesso invece è il turno de La casa delle spie, ennesimo bestseller principesco nelle classifiche del New York Times, ora nelle librerie italiane per HarperCollins e presto serie tv. Come nel precedente La Vedova nera i cattivi sono l’Isis e il suo capo “Saladino”. E come in altri 16 romanzi del 57enne ex giornalista americano Silva, il protagonista è sempre lui, Gabriel Allon, “l’angelo del giudizio” di mezza età, curatore d’arte e spia israeliana che qui diventa capo del Mossad e dà la caccia al Califfo dopo il macello jihadista a Londra. Silva è uno dei maestri del romanzo di spionaggio contemporaneo: durante le audizioni al Senato del Russiagate, l’inchiesta sulle presunte collusioni tra il presidente americano Trump e il Cremlino, al ministro della Giustizia Jeff Sessions è stato chiesto «conosce Le Carré o Daniel Silva?». Dalla Guerra Fredda all’Isis: oggi la spia viene dal caldo, perché Silva da anni romanza l’estremismo islamico. «Ho vissuto e lavorato a lungo Medio Oriente, ho incontrato fondamentalisti, terroristi di Al Qaeda... la guerra era già iniziata molti anni fa insomma». Allon, personaggio arguto e leale ma complesso, malinconico e all’occorenza assassino, a tratti ricorda il geopolitico Jack Ryan di Tom Clancy. E pur senza il fascino di James Bond, la grandezza di Smiley di Le Carré o i poteri sovrumani di Jason Bourne, calca da tempo le orme delle spie più famose della letteratura.

Ma lei, Silva, perché scrive romanzi di spionaggio? «In realtà mi considero più uno scrittore di intrighi internazionali, non un puro romanziere spy, perché il primo genere ti da più libertà. Sono uno studioso di storia e politica europea del XX secolo. Questo è quello che mi interessa».

E che differenza c’è tra la letteratura di spionaggio del secolo scorso, che spesso riscriveva la Guerra Fredda, e questa di oggi in cui si parla anche di Isis ed estremismo islamico? «Poca, mi sono sempre piaciuti Le Carré, Forsyth e Greene, ho scritto romanzi storici di spionaggio: il mio esordio La spia improbabile era un thriller ambientato nella Seconda guerra mondiale, per dire. Ma bisogna sempre sperimentare nuove situazioni: c’è una marea di materiale contemporaneo per scrivere una spy story odierna, anche sulla Russia post-Urss. Cerco sempre di trovare collegamenti tra passato e presente: per me è impossibile leggere il New York Times o l’Economist senza individuare e immaginare potenziali romanzi nascosti in quelle colonne grigie».

E visto che non è cambiato molto, a chi si è ispirato dei più grandi? Le Carré? Fleming? «No, soprattutto al Graham Greene di Un americano tranquillo e a qualsiasi cosa di Eric Ambler. Ma sono stato un lettore vorace da giovane, non solo di spionaggio, da Steinbeck a Sidney Sheldon. Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald è il mio preferito di tutti i tempi. Difatti ho chiamato mio figlio Nicholas, come il protagonista Nick Carraway. Ma purtroppo oggi non ho più il tempo di leggere romanzi».

Uno scrittore bestseller che non legge più romanzi? Perché? «Scrivendo un libro all’anno, passo sei mesi a fare ricerche e gli altri sei mesi a scrivere. Non ho più tempo per la lettura di piacere e questo mi spiace».

Ha citato Greene, al quale i critici a volte rinfacciavano una certa “letteratura di intrattenimento”, meno sofisticata e diversa da quella considerata “seria”. «Ma io voglio intrattenere i lettori, invece, e fargli girare pagina il più possibile! Allo stesso tempo però, spero che questa mia entertainment literature trascini il genere a un livello successivo. Un lettore mi ha scritto che i miei libri intrattengono e allo stesso tempo educano, è un grande complimento».

La sua produzione “industriale” di libri, così prolifica, ha a che fare con questo approccio? «No, non ne conosco le cause. La mia ispirazione viene dai viaggi, come L’angelo caduto e Il caso Caravaggio dopo alcune trasferte in Italia. Il resto è disciplina: tutte le mattine alle 6 sono già alla scrivania, sette giorni su sette, anche se la maggior parte della scrittura la eseguo steso a terra sul pavimento del mio studio. Scrivo sempre a mano all’inizio, sempre con una matita Mirado Black Warrior No. 2 della Papermate. Insomma, metto una pressione enorme su me stesso. Ma tanto non viene mai fuori il libro progettato all’inizio. Sono i personaggi a guidarmi».

A proposito, il suo eroe bifronte Gabriel Allon come è nato? «Come un colpo di fulmine. Stavo facendo ricerche per il romanzo Il restauratore, mentre ne abbozzavo il protagonista. Un giorno vado a passeggiare con mia moglie che mi dice che dobbiamo andare a cena con il capo del dipartimento restauri della National Gallery di Washington. Ecco il protagonista! Un assassino con una copertura da restauratore».

Lei si è convertito all’ebraismo dopo aver sposato sua moglie. Allon è israeliano e lei in passato ha detto di averlo scelto anche perché in «Occidente c’è un antisemitismo crescente». «All’inizio avevo paura che ci fosse un sentimento anti-israeliano e antisemita troppo forte nel mondo perché uno come Allon potesse avere successo nel mercato di massa. Le vendite mi hanno invece smentito. Fortuna che la mia grande editrice Phyllis Grann mi convinse del contrario».

La Repubblica

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