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Il Foglio - La Stampa - FondazioneCdF.it - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
01.03.2011 Libia, gli Usa schierano le navi da guerra e la Nato è pronta a intervenire
Cronache e analisi di Carlo Panella, Maurizio Molinari, Bernard Lewis, Antonio Ferrari, Tahar Ben Jelloun

Testata:Il Foglio - La Stampa - FondazioneCdF.it - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Carlo Panella - Maurizio Molinari - David Horowitz - Antonio Ferrari - Tahar Ben Jelloun
Titolo: «La rivolta ambigua - Il pressing di Obama su Tripoli. Flotta Usa si avvicina alle coste - Gli arabi si ribellano all'ingiustizia - Libia, e se l’opzione monarchica fosse l’ultima via di uscita? - Primavera araba»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/03/2011, a pag. 1-III, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La rivolta ambigua ".  Dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Il pressing di Obama su Tripoli. Flotta Usa si avvicina alle coste ", preceduto dal nostro commento. Da FONDAZIONECDF.IT l'intervista di David Horowitz a Bernard Lewis dal titolo "  Gli arabi si ribellano all'ingiustizia  ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 56, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Libia, e se l’opzione monarchica fosse l’ultima via di uscita?". Da REPUBBLICA, a pag. 1-33, l'articolo di Tahar Ben Jelloun dal titolo " Primavera araba ", preceduto dal nostro commento.
Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Carlo Panella : " La rivolta ambigua "


Carlo Panella

Roma. La rivolta che sconvolge la Libia non è affatto una replica di quelle della Tunisia e dell’Egitto, ma presenta caratteristiche specifiche che è bene tentare di comprendere, soprattutto nell’ipotesi di un intervento militare dell’occidente. A Tunisi come al Cairo, le sommosse erano verticali, erano cioè capaci di scatenare una grande forza politica verso l’alto, verso il vertice del regime, mentre le Forze armate restavano neutrali per essere poi chiamate dalla stessa piazza a fare da cerniera, a garantire la transizione democratica. In Libia, al contrario, la rivolta si muove per segmenti e prende i connotati della guerra civile. Non si sviluppa con una contrapposizione frontale al rais: la piazza è manovrata da strutture claniche e da gerarchi del regime che tentano un loro gioco complesso. Un intervento militare esterno rischia di mettere in pericolo la vita dei soldati stranieri. Le truppe sarebbero chiamate a difendere leader dell’opposizione che sono stati per anni al fianco di Muammar Gheddafi e hanno partecipato a tutte le sue stragi. Alcune fra le principali tribù si sono schierate contro il regime negli ultimi giorni. Ora emerge che i rapporti di forza fra la piazza e il rais si sono ribaltati il 21 febbraio, quattro giorni prima delle proteste a Bengasi, quando il numero due del regime, il generale Fattah al Obeidi, è passato dalla parte degli oppositori. Questa decisione è stata preceduta da voci, secondo le quali il generale era misteriosamente scomparso. Nelle stesse ore, Bengasi era assediata dalle Brigate di sicurezza di Abdullah al Senussi. Al Obeidi è stato a fianco di Gheddafi sin dal putsch del 1969 e ha collaborato a tutte le iniziative del suo rais, comprese quelle banditesche. Dopo la brusca estromissione del vice storico di Gheddafi, Abdessalam Jallud, nel 1993, al Obeidi ha esercitato il massimo potere nella repressione degli oppositori. E’ sua, per esempio, la responsabilità dei 1.200 carcerati uccisi nella rivolta del 1996 nella prigione di Abu Slim di Tripoli. All’inizio di febbraio, Gheddafi ha nominato al Obeidi a capo delle unità di crisi che dovevano prevenire le rivolte. La conversione di al Obeidi è strana e fa il paio con gli strali (poco credibili) lanciati contro il dittatore dall’inviato libico all’Onu, Abdurrahman Shalgam, e dal ministro della Giustizia, Mustafa Abdel Jalil, che delle imprese terroristiche di Gheddafi – strage di Lockerbie inclusa – è sempre stato al corrente. Questi nomi circolano come probabili membri del governo provvisorio di Bengasi, l’organismo che intende contrapporsi a quello di Tripoli e cerca di prendere contatti con la comunità internazionale. E’ di Abdurrahman Shalgam, che si è sempre definito “fratello” di Gheddafi, la richiesta all’Onu di stabilire una “no fly zone” per impedire di operare all’aviazione fedele al regime. Mentre la piazza tunisina continua a esercitare egemonia sul processo politico, ottenendo le dimissioni del premier Ghannouchi, quella libica vede la presenza di numerosi manifestanti pro Gheddafi e appare prigioniera di giochi poco chiari condotti dai principali supporter del dittatore. Come i capi tribù, sino a ieri suoi affezionati clienti, e alcuni ex fedelissimi. A conferma di questo quadro – e del ruolo determinante svolto dalle strutture tradizionali di potere, non certo la piazza libica – si colloca la notizia di una tregua fra Gheddafi e la strategica tribù di Zawaiya, che controlla un oleodotto. Per dare forza alla trattativa in corso con le tribù e con i suoi ex fedeli, il colonnello ha rimosso il maggiore Abdullah al Senussi dalla guida delle sue brigate, lo ha sostituito con Mansour Dhu al Qahasi e ha dato l’incarico di negoziare con i capi della rivolta all’ex capo dell’intelligence libica all’estero, Bouzid Durda. Secondo la Bbc, Gheddafi avrebbe addirittura ordinato ai suoi uomini di “sospendere il fuoco” contro i ribelli. Si capirà a ore se si tratta di una mossa disperata o se i capi tribù e gli ex fedelissimi opereranno una seconda giravolta, rendendo ancora più complesso un quadro in cui la posizione del colonnello, vista dall’estero, appare disperata, mentre forse ha ancora pur esigui spazi di manovra.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Il pressing di Obama su Tripoli. Flotta Usa si avvicina alle coste "

Bravo Obama, ha preso posizione contro Gheddafi, già sconfitto. Come fare bella figura con un minimo sforzo. Peccato non sia disposto a fare altrettanto contro Ahmadinejad. Come il dittatore libico, anche quello iraniano ha represso la rivolta con la violenza e le armi. Nessuna nave da guerra per aiutare i manifestanti dell'Onda Verde. Per loro solo Twitter.
Ecco l'articolo:


Maurizio Molinari

Barack Obama invia una squadra navale davanti alle coste della Tripolitania e suggerisce a Muammar Gheddafi di scegliere l’esilio facendogli capire che il suo regime è oramai finito ma il colonnello non si sente affatto sconfitto e gioca tutt’altra partita: affida al capo dell’intelligence l’incarico di trattare con i ribelli della Cirenaica e invita l’Onu a mandare una missione in Libia per verificare che è lui a controllare ancora la maggior parte del territorio.

A 25 anni dal bombardamento di Tripoli ordinato da Ronald Reagan, il colonnello libico è al centro di un nuovo braccio di ferro con l’inquilino della Casa Bianca e in palio c’è, oggi come allora, la sua sopravvivenza al potere. Obama lo mette sotto pressione su più fronti. Dave Lapan, portavoce del Pentagono, parla di «movimenti di forze a ridosso della Libia in caso fossero necessarie» e di «varie opzioni allo studio» grazie al «riposizionamento di forze navali ed aree». In concreto ciò significa che almeno una portaerei della Us Navy si sta muovendo verso le coste di Tripoli e averlo svelato lascia intendere la volontà di esercitare una pressione militare sul colonnello nelle ore in cui i portavoce di Casa Bianca e Dipartimento di Stato, Jay Carney e P. J. Crowley, ripetono all’unisono che «l’esilio è un opzione» a disposizione del leader della Jamahiriya. Carney va anche oltre svelando i tentativi in corso di «entrare in contatto con coloro che in Libia vogliono un governo capace di rispettare i cittadini» ovvero i ribelli padroni di Bengasi.

Le mosse della Casa Bianca si spiegano con il fatto che l’«opzione militare incontra delle difficoltà - come spiega lo stratega mediorientale della Brookings Institution Michael O’Hanlon - in ragione del fatto che dovrebbe essere multilaterale, coinvolgendo dunque contingenti di Paesi africani e musulmani, per evitare lo scenario di un intervento affidato solo alla Nato che potrebbe avere conseguenze molto negative nel mondo arabo». L’opposizione di Ankara alle sanzioni varate dall’Onu lascia intendere che reclutare truppe musulmane potrebbe incontrare qualche difficoltà e dunque se Gheddaffi scegliesse l’esilio sarebbe la soluzione più indolore.

Un’ulteriore pressione Usa in tale direzione è giunta ieri con l’annuncio da parte di Washington del congelamento di oltre 30 miliardi di dollari di beni della famiglia del colonnello nelle banche americane - una cifra record rispetto a precedenti misure nei confronti di altre nazioni o dittatori - e in sintonia con la Casa Bianca è l’ex premier britannico Tony Blair che ha telefonato per due volte a Gheddafi chiedendogli di «dimettersi per evitare un bagno di sangue» in continuità con le scelte fatte a partire dal 2003 di «rinunciare al terrorismo e di smantellare il programma di armi di distruzione di massa».

Ma il colonnello è intento a giocare tutt’altra partita. La scelta di affidare al capo dell’intelligence Bouzaid Dordah la missione di recarsi a Bengasi per parlare con i leader degli insorti lascia intendere la volontà di trattare la rivolta come un fatto interno, dimostrando sicurezza di poterla domare, in una maniera o nell’altra. E in tale cornice ha concesso due interviste tv - alla Bbc ed alla Abc - per far sapere a Obama che «è bravo ma disinformato» in quanto ignora che «tre quarti della nazione sono ancora sotto il mio controllo». Rivendicando il possesso della Tripolitania, del Fezzan nel Sud e della regione della Sirte Gheddafi punta a ridimensionare quanto sta avvenendo in Cirenaica. E per dimostrare che sono i fatti a dargli ragione si spinge fino a consegnare alla Abc il suggerimento all’Onu di «inviare una missione in Libia per verificare la situazione».

La mossa verso il Palazzo di Vetro è abile perché, in coincidenza con l’incontro alla Casa Bianca fra Obama e Ban Ki moon, apre la strada ad una trattativa fra Tripoli e possibili inviati dell’Onu che punta a ostacolare gli attuali tentativi della Casa Bianca di creare una coalizione capace di condividere una missione umanitaria. Nel complesso l’impressione è che Gheddafi stia tentando di guadagnare tempo su più fronti, nella convinzione che riuscendo a impedire ai ribelli una veloce affermazione possa essere lui a imporsi nel medio termine. Come riassume il vescovo di Tripoli Giovanni Martinelli, che conosce il colonnello da molti anni, «si tratta di un beduino e non si arrenderà mai, piuttosto si farebbe ammazzare».

La ricetta della sopravvivenza di Gheddafi è contenuta d’altra parte nella sua definizione di leadership: «Essere un leader significa saper cavalcare le onde del mare» e dunque comprendere da che parte tira il vento. In questo momento ciò che serve è dialogare con i ribelli e con l’Onu per far fallire l’assedio disegnato da Barack Obama.

FONDAZIONECDF.IT - David Horowitz: "Gli arabi si ribellano all'ingiustizia"


Bernard Lewis

Intervista a Bernard Lewis di David Horowitz, dal Jerusalem Post del 25 febbraio 2011

Lo storico Bernard Lewis, uno dei più influenti studiosi dell’Islam e del Medio Oriente, parla delle attuali rivolte mediorientali a casa dell’ambasciatore statunitense in Israele, James Cunningham. Ecco l’intervista.

L’attuale ondata di proteste nella regione indica che le masse arabe vogliono la democrazia? Che cosa dovremmo aspettarci ora?

Le masse arabe sicuramente vogliono un cambiamento, soprattutto per migliorare le proprie condizioni di vita. Ma andrei cauto a parlare di democrazia. Che cosa significa democrazia? […] È un concetto politico che non ha storia nel mondo arabo-islamico. In Occidente di solito teniamo molto alle elezioni, che sono considerate la più grande espressione della democrazia, il culmine di un processo di democratizzazione. Sicuramente è il culmine di un processo che  può avere molte incognite. Anche in Germania l’idea di democrazia nel periodo fra le due guerre non era ben chiara, e Hitler andò al potere dopo elezioni libere e trasparenti. Noi Occidentali tendiamo a pensare alla democrazia secondo i nostri parametri – com’è giusto che sia […] ma credo che sia un errore applicare gli stessi al Medio Oriente – an! che perché le conseguenze potrebbero essere disastrose. Il Medio Oriente non è ancora pronto per elezioni libere e trasparenti.

Una delle esperienze più toccanti della mia vita avvenne nel 1950, quando ero in Turchia. Allora il governo in carica perse le elezioni e quindi lasciò il potere alle opposizioni. Ciò che accadde in seguito fu catastrofico: Adnan Menderes, il leader del partito che vinse le elezioni, dichiarò presto di non avere intenzione di cedere il potere, anche in caso di sconfitta, e che per lui le elezioni non avevano alcun valore. […] E non fu un caso isolato. […] Per questo dico che la maggior parte dei paesi della regione non è preparata alle elezioni.

A quanto pare in Egitto le elezioni dovrebbero tenersi a settembre, e l’Occidente sembra spingere in questa direzione. Che cosa ne pensa?

Anche in questo caso ci andrei cauto. Se si terranno libere elezioni - sempre che ciò accada per davvero – i partiti religiosi saranno senz’altro in vantaggio. Primo, possono contare su una rete di comunicazione efficace e capillare – le moschee – che nessun altro partito può eguagliare. Secondo, usano un linguaggio semplice e conosciuto ai più. Il linguaggio della democrazia occidentale è recente, e tuttora sconosciuto alle grandi masse arabe. […] Sarebbe meglio introdurre la democrazia gradualmente, introducendo istituzioni di autogoverno locali. Esiste una lunga tradizione in tal senso nella regione: analizzando la storia del Medio Oriente nel periodo islamico e la letteratura politica mediorientale si coglie subito il rifiuto verso governi assolutisti e autoritari. La parola più utilizzata è ‘cons! ultazione’. C’è un passaggio interessante nel resoconto di un ambasciatore francese recatosi in visita dal sultano prima della Rivoluzione Francese. L’ambasciatore doveva negoziare su alcune faccende per conto della monarchia francese, ma le trattative andavano a rilento. Quando Parigi riprese l’ambasciatore invitandolo ad accelerare sui tempi, questi gli rispose: “Qui le cose non vanno come in Francia, dove il re è il monarca assoluto e fa ciò che gli pare. Il sultano deve prima consultare tutti gli alti funzionari, gli ex ufficiali, i mercanti, i rappresentanti delle arti e dei mestieri e tutti gli altri gruppi.” Si tratta di un importantissimo documento, che spiega molto della realtà mediorientale: il sultano d’abitudine consultava i gruppi più importanti – proprietari terrieri, burocrati, scribi, etc. – prima di prendere decisioni importanti. Si potrebbe partire da qui ancora oggi per arrivare poi a u! n govern o libero e democratico.
E quindi che cosa dovrebbero fare l’America e il mondo libero, e quali possibilità hanno di influenzare l’attuale processo?

Io mi concentrerei soprattutto su quali messaggi NON mandare. Ad esempio non insisterei troppo sull’idea delle elezioni. L’idea che le elezioni siano una panacea per tutti i problemi è pericolosa e potrebbe avere effetti disastrosi. Credo che dovremmo invece avviare consultazioni con i vari gruppi proprio come sta accadendo in Iraq al momento.

Tutti gli analisti sostengono che i manifestanti chiedono elezioni immediate per cambiare la situazione. Non sarebbe un po’ troppo arrogante da parte dell’Occidente schierarsi contro il processo elettorale?

Tutti vogliono mandare a casa gli attuali tiranni, ma non hanno un’idea precisa di quello che dovrebbe venire dopo. Anche i sondaggi sono altalenanti, danno i Fratelli Musulmani a volte al 20%, a volte al 30% e anche al 40%! Non è facile fare previsioni: le persone non sempre dicono la verità quando sono intervistate.

Si sentono moltissimi punti di vista sui Fratelli Musulmani: alcuni li considerano un movimento positivo e ormai secolarizzato, altri un gruppo radicale nonché una terribile minaccia alla pace e alla stabilità. Lei come li giudica?

Chi afferma che sono secolarizzati, pecca di ignoranza. Io ritengo che siano estremisti e per questo pericolosissimi: se ottenessero il potere, le conseguenze per l’Egitto sarebbero terribili. Il paese precipiterebbe di nuovo nel Medioevo. […]

Ricordiamoci che il totale delle esportazioni dell’intero mondo arabo – ad eccezione dei combustibili fossili – è inferiore a quello della piccola Finlandia. Prima o poi l’età del petrolio finirà, il prezioso oro nero terminerà oppure verrà sostituito da altre fonti di energia, e i paesi arabi si ritroveranno con niente in mano. In uno scenario simile i paesi nordafricani potrebbero precipitare a un livello di povertà sub-sahariana.

È possibile trovare un filo conduttore nelle proteste che si sono diffuse rapidamente nei vari paesi? Possiamo trarre conclusioni di carattere generale?

Le proteste sono tutte animate da rabbia e risentimento […] per diverse ragioni. Innanzitutto c’è la consapevolezza – ottenuta grazie ai moderni mezzi di comunicazione – della diversità fra i loro paesi e gli altri paesi in giro per il mondo. Già non è facile essere poveri, ma il risentimento diventa intollerabile se sai che gli altri intorno a te stanno decisamente meglio. E poi c’è l’aspetto sessuale: nel mondo islamico non esiste il sesso occasionale libero come in Occidente. Se un ragazzo arabo vuole avere rapporti sessuali, ha soltanto due possibilità: sposarsi o andare nelle case chiuse. Vi sono sempre più giovani che non possono permettersi né un matrimonio né rapporti sessuali a pagamento, e quindi si sentono sempre più frustrati. Per questo alcuni giovani sono attratti dall’idea del terrorismo suicida, per il ric! co premio che li aspetta dopo il martirio: un paradiso di vergini.

Lei si è stupito della facilità con cui i leader di Egitto e Tunisia sono stati mandati via? Crede che anche in altri paesi questo possa avvenire?

Mi aspettavo un’esplosione di questo tipo in Medio Oriente, ma non credevo che gli eventi si sarebbero svolti così rapidamente come in Egitto. Ma non è ancora finita: in molti paesi, infatti, i regimi al potere si trovano in grave difficoltà. In Siria per ora non vi sono segni di ribellioneperché il regime è più crudele. In Iran la situazione è diversa, ma ci vuole molto coraggio ad andare in strada a manifestare quando è chiaro che il regime è pronto a usare ogni mezzo a disposizione per mantenere il potere. […] In Iran i movimenti di opposizione sono molto forti, anche se il regime è repressivo. I segnali che giungono dall’Iran sono chiari: il regime è piuttosto impopolare. Vi sono due opposizioni: una contro il regime e una dentro il regime. Con un aiuto esterno sarebbe forse possibile ottenere dei risultati.[…]!

Un aiuto dall’esterno? È una mossa pericolosa. Se l’aiuto è troppo esplicito, può essere sbandierato dal regime per condannare gli Occidentali e reprimere ancora più duramente le proteste. Come si può aiutare la popolazione mediorientale a rovesciare i regimi al potere?

Ad esempio alimentando campagne di informazione contro il regime. Non è una cosa difficile. Ci sono moltissimi Iraniani nel mondo occidentale, specialmente negli Stati Uniti, che contribuirebbero attivamente, e vista l’efficienza dei moderni mezzi di informazione non sarebbe difficile raggiungere i destinatari in Iran. I segnali che arrivano dall’Iran sono chiari. Quando gli Americani invasero l’Iraq, molti Iraniani scrissero e-mail o telefonarono dicendo: “Avreste dovuto affrontare i problemi in ordine alfabetico!”

Ci dica qualcosa sulla natura delle masse arabe, sulla loro religione e sul ruolo dell’Islam nel mondo mediorientale.

Vede, qui sono accadute due cose distinte: primo, la condizione degli Arabi è andata peggiorando negli anni; secondo, la consapevolezza di ciò si è fatta molto più concreta […] Grazie ai mezzi di comunicazione moderni ora è possibile capire quello che accade altrove, e gli Arabi non devono guardare molto lontano: ho molti amici nei paesi arabi che guardano la TV israeliana e le loro reazioni sono sbalorditive. Un esempio: per caso vidi un servizio in TV che mostrava come un poliziotto israeliano aveva spezzato un braccio a un giovane manifestante arabo durante una manifestazione. Ebbene, il manifestante era in TV a denunciare la brutalità della polizia israeliana. Vidi il servizio ad Amman, e accanto a me c’era un Iracheno scappato dall’Iraq di Saddam Hussein che disse: ‘Mi lascerei volentieri spezzare le braccia e entrambe le gambe da Saddam se solo potessi parlare ! così in televisione.’

C’è un punto da chiarire ancora. Non capiamo il contrasto fra le centinaia di migliaia di Egiziani che scendono in strada chiedendo libertà e giustizia e i sondaggi che invece testimoniano che gli Egiziani mostrano poco rispetto per i diritti umani, sono addirittura favorevoli a punizioni tremende per adulterio, omosessualità e così via.

Non è facile comprendere che cosa vogliano gli Arabi. È più semplice capire contro chi combattono. Gli Arabi si battono contro le attuali tirannie non solo perché repressive, ma soprattutto perché disonorano il loro nome, la loro nazione e la loro religione. Vogliono qualche cosa di meglio, ma non è facile dare una definizione di ‘meglio’. Normalmente non parlano di democrazia parlamentare e libere elezioni, perché non fa parte del loro discorso politico. Di solito però fanno riferimento alla religione, ma non necessariamente a quella dei Fratelli Musulmani. Esiste, infatti, una tradizione diversa, come ho detto prima, che si basa sull’idea delle consultazioni.

Quanto è importante la tradizione islamica moderata? Quante sono le possibilità che prevalga? Glielo chiedo ancora perché sono in molti ad affermare che i Fratelli Musulmani in fondo potrebbero avere un influsso benevolo.

Sinceramente non capisco come si possa avere un’idea simile. […] Vi sono diverse correnti nel mondo islamico che si rifanno al un passato glorioso e vedono il mondo in termini diversi. Oggi si discute di nuovo di consultazioni, perché fa parte della tradizione. I regimi autoritari e dittatoriali che governano la maggior parte dei paesi mediorientali sono un’invenzione moderna. I regimi pre-moderni erano molto più aperti e tolleranti. […] Un ufficiale inglese di nome Slade descrisse molto bene la situazione, facendo un paragone fra passato e presente. Slade scrisse: “nel vecchio ordine la nobiltà viveva grazie alle proprie terre. Nel nuovo ordine è lo stato stesso ad essere diventato la terra della nuova nobiltà”.

Quindi dopo la parentesi dei regimi moderni e dittatoriali sarà possibile creare un’intesa fra il mondo occidentale e i paesi arabi?

Nella storia gli Arabi hanno considerato l’ipotesi di allearsi con potenze straniere soltanto quando si sono sentiti minacciati da qualcuno di ancora più forte. Sadat firmò la pace non perché fosse convinto dei meriti della causa sionista, ma per evitare che l’Egitto diventasse una colonia dei Sovietici. Sadat capì […] che Israele in fondo era il male minore, specialmente se paragonato alla Russia sovietica. E ovviamente aveva ragione. E questo tipo di valutazione non è rara. Ad esempio durante la seconda guerra del Libano (2006) gli Arabi tifavano (seppur a bassa voce) per Israele sperando che eliminasse Hezbollah. Per questo furono molto delusi quando capirono che non ce l’avrebbe fatta. […] La gente parla dell’imperialismo americano come un pericolo. È assurdo. Coloro che parlano di imperialismo americano in Medio Oriente o non capiscono niente dell’Amer! ica, o non capiscono niente dell’imperialismo. Si può parlare di imperialismo americano soltanto quando le 13 colonie iniziali si espansero nell’America del Nord sottomettendo le altre regioni. Ma nel caso del Medio Oriente è un concetto assurdo. Prendiamo in considerazione alcuni casi classici di imperialismo: quando i Romani andarono in Inghilterra 2000 anni fa, o quando gli Inglesi sottomisero l’India 300 ani fa, non pensavano di certo a una exit strategy.

Qual è secondo lei la più grande minaccia mediorientale al momento?

Secondo me, la Repubblica Islamica. Gli Arabi hanno paura di quello che potremmo chiamare ‘imperialismo iraniano’. La tensione fra Sunniti e Sciiti varia molto da paese a paese. In paesi come Iraq e Siria, dove vivono sia Sciiti che Sunniti, gli scontri sono frequenti e condizionano la vita politica del paese. Al contrario in paesi come l’Egitto, dove non vi sono Sciiti, è un fattore di minor importanza. Gli Egiziani non temono la minaccia sciita. Quando uno pensa al futuro del Medio Oriente deve tenere a mente un altro gruppo: le donne. […] Credo infatti che l’arretratezza del mondo islamico rispetto all’Occidente stia proprio nel modo in cui vengono trattate le donne. Se ricordo bene, il problema venne sollevato per la prima volta nel 1880 da uno scrittore turco di nome Namik Kamal che scrisse: “Che cosa è andato storto? Perché siamo rimasti indietro? Il motivo va ric! ercato nel modo in cui trattiamo le donne. Il mondo islamico si continua a privarsi del talento e delle qualità di metà della popolazione, e inoltre affida l’istruzione dell’altra metà a madri ignoranti e oppresse.”.

Ma non è tutto: un bambino che cresce in una famiglia islamica tradizionale è abituato a modi autoritari. Credo che la questione femminile sia di importanza cruciale. Ed è per questo che guardo con interesse alla Tunisia, dove l’istruzione scolastica è obbligatoria per le donne. In Tunisia le donne svolgono cariche importanti ovunque – sono dottoresse, avvocate, giornaliste, politiche, e così va. […] Prima o poi questo si estenderà anche ad altre parti del mondo islamico.

L’Arabia Saudita non è stata interessata dalle attuali rivolte. Perché? La situazione potrebbe cambiare?

Al momento le prospettive di cambiamento sono piuttosto esigue, ma prima o poi l’attuale monarchia esaurirà la propria forza vitale e il cambiamento sarà improvviso e repentino.

Israele teme che i disordini contagino anche la Giordania e i Territori Palestinesi, e che questo abbia ripercussioni sulla propria sicurezza. Che cosa ne pensa?

Israele ha ragione a preoccuparsi. Fino a poco fa avrei detto che la monarchia hascemita era al sicuro. Fino a poco tempo fa andavo in Giordania tutti gli anni, e non ho mai avuto dubbi sulla popolarità del regime. I membri della famiglia reale viaggiavano da soli in giro per la città sulla loro auto, senza sentirsi mai nemmeno lontanamente in pericolo, a volte fra i saluti e i baci della gente. Ma ora le cose potrebbero cambiare. È comunque presto per capire se il recente rimpasto di governo basterà a calmare gli animi della popolazione.

Per quanto riguarda il fronte palestinese, non vi sono state proteste contro il regime a Gaza, ma in Cisgiordania le richieste di elezioni si sono moltiplicate. Che cosa potrebbe accadere?

Io non credo che le elezioni siano la soluzione ai problemi, anzi, potrebbero essere un’ulteriore aggravante. Le elezioni sono peculiari del sistema politico occidentale, non sono sempre adatte alla realtà mediorientale. […]

Due settimane fa ho intervistato Natan Sharansky.  Ha dichiarato di appoggiare le attuali manifestazioni per la libertà, ma poi ha aggiunto che l’equazione ‘elezioni uguale libertà’ non è sempre valida. La sua ricetta è:andare avanti a piccoli passi nella direzione delle democrazie occidentali. Di fatto Sharansky sosteneva che ci vuole tempo e che occorre creare un ambiente in cui i vari partiti possano crescere – in modo da non lasciare tutto lo spazio ai Fratelli Musulmani – occorre un’informazione trasparente, e soprattutto un clima in cui la popolazione non teme di essere perseguitata per aver espresso liberamente le proprie intenzioni di voto. Mi è sembrato molto interessante, ma anche molto occidentale. Secondo lei è una visione che non tiene in considerazione le differenze fra Occidente e mondo islamico?

In Occidente si parla sempre di libertà. Nel mondo islamico il termine ‘libertà’ non fa parte del lessico politico. È un termine legale: libertà opposta a schiavitù. Fino a poco tempo fa la schiavitù era accettata nel mondo islamico, e si era liberi quando non si era più in stato di schiavitù. Il termine ‘libertà’ si riferiva dunque alla sfera legale e sociale, ma non aveva implicazioni politiche. […] Secondo i Musulmani, il governo deve essere giusto, il contrasto non è fra libertà o servitù, ma fra giustizia e oppressione. […] Se uno tiene a mente questo, tutto appare molto più chiaro.

Quindi secondo la sua diagnosi gli Arabi stanno manifestando tutta la loro rabbia contro l’ingiustizia?

Esatto, contro la corruzione e l’oppressione– entrambe forme di ingiustizia.

E quindi se i regimi non fossero stati corrotti non sarebbero stati presi di mira?

Esatto.
Questo mi fa pensare alle manifestazioni in Iran dopo le elezioni del 2009, quando i risultati vennero annunciati prima ancora della chiusura dei seggi…

Gli Iraniani si sono sentiti presi in giro. Occorre quindi sempre tenere a mente i concetti di ‘giustizia’ e ‘ ingiustizia’ nel mondo islamico, perché aiuta a capire meglio i processi mentali e quindi politici nel mondo islamico.

Anche Israele, come tutti gli altri, è stato colto di sorpresa. Come dovrebbe rispondere alle attuali proteste?

Dovrebbe mantenere un profilo basso e tendere la mano in caso di necessità. Nel mondo arabo sono sempre più numerose le persone che osservano con interesse e meraviglia come funziona una società aperta e libera come quella israeliana. Poco tempo fa ho letto un articolo di un arabo palestinese che affermava: ‘Per come vanno le cose al momento, la miglior prospettiva per un cittadino arabo è di essere un cittadino di serie B nello stato ebraico’. Si tratta di un’affermazione forte, ma piuttosto realistica. È una visione che sta prendendo piede, e molti lo dichiarerebbero apertamente se fosse possibile. Vi sono due fattori che potrebbero portare a un miglioramento delle relazioni fra Arabi e Israeliani: primo, la paura di un nemico comune. Sadat, infatti, si rivolse a Israele per paura dei Russi. […] L’altro, forse più importante, è proprio l’attrattiva che la! società israeliana, libera e democratica, aperta alle donne, esercita sui popoli circostanti – punto da non sottovalutare, vista la posizione delle donne nel mondo arabo. E in entrambi i casi non mancano segnali incoraggianti per il futuro.
Traduzione: Davide Meinero

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Libia, e se l’opzione monarchica fosse l’ultima via di uscita? "


Antonio Ferrari

O ltre gli entusiasmi, sempre contagiosi e talvolta infantili, che hanno accompagnato le rivolte nel Nord Africa, si fa strada una certezza. Che le transizioni non saranno facili, come Tunisia ed Egitto stanno dimostrando. E che in Libia sarà ancora più arduo e pericoloso. Perché se al Cairo e a Tunisi un «dopo» , magari accidentato, è ormai visibile, a Tripoli non è così. Guidare e governare il Paese, sfibrato da decenni di spietata dittatura, da odi tribali, ambiguità, vendette, sarà davvero un’impresa titanica. Però dovrebbero far riflettere due dettagli. Il primo legato alla disarmata intifada diplomatica, con decine di ambasciatori e consiglieri che abbandonano il Colonnello, si schierano con i rivoltosi, e sostituiscono il verde vessillo della Jamahiriya voluto da Gheddafi con la bandiera tricolore (nero, rosso e verde) della Libia monarchica e indipendente dei tempi di re Idris. Il secondo dettaglio è che il vessillo tricolore del regno è quello scelto dai ribelli armati: sventola a Bengasi, in gran parte del Paese, e con esso si coprono pietosamente i cadaveri dei «martiri della rivoluzione» . Voglia di monarchia, allora? È vero che il ricordo del saggio e tollerante re Idris Al Senussi, è sempre vivo, soprattutto fra gli anziani, che in silenzio lo hanno rimpianto per oltre 40 anni: da quando il sovrano fu costretto all’esilio in seguito al golpe incruento deciso dalle Forze armate e portato a compimento da un gruppetto di giovani ufficiali, guidati da Gheddafi. Tuttavia, la scelta di riproporre la bandiera monarchica non è una manifestazione di sterile nostalgia, ma la volontà di pretendere un autorevole quadro istituzionale alla fine della rivoluzione. La verità è che la Libia sembra un pianeta sconosciuto. Ricco, da corteggiare, da blandire. Ma rimasto una galassia misteriosa, con la sua ragnatela di tribù: alcune pacifiche, altre sensibili alle suggestioni dell’estremismo, altre ancora assai radicali, e infine alcune lungimiranti e moderate come quella dei Senussi, che possono vantare un grande eroe nazionale: quell’Omar al Mukhtar, che guidò la resistenza contro i colonialisti italiani dello spietato maresciallo Graziani. Il rischio è che, dopo 42 anni di intossicazione dittatoriale, i mai sopiti odi tribali possano prepotentemente risorgere. Dando corpo al fantasma di una frantumazione territoriale (di tipo somalo) che danneggerebbe non soltanto la Libia ma tutti i clienti del suo grande patrimonio energetico, a cominciare dall’Italia. I consigli rivoluzionari, nati con la rivolta, possono gestire la prima fase, però dopo è necessario un punto di riferimento istituzionale. Non l’esercito, troppo legato alle bizze del dittatore, e oggi disgregato; non gli intellettuali, appena riaffiorati dalle catacombe del pensiero, quindi non ancora pronti a ruoli decisivi; non i giovani, entusiasti ma inesperti e disorganizzati. La soluzione potrebbe essere appunto un re, una figura al di sopra delle parti. In questi giorni si è presentato con qualche intervista il principe Idris al Senussi, che vive tra Roma e New York, erede designato da suo nonno. Pronto a tornare nel suo Paese (fu costretto all’esilio quando aveva 14 anni) e ad assumere un ruolo, che potrebbe essere quello di sovrano, se verrà restaurata la monarchia, oppure quello di leader politico, come successe in Bulgaria con l’ex re Simeone. Tuttavia anche un cugino più giovane di Idris, che vive a Londra, potrebbe vantare titoli dinastici. Ma, almeno in questo caso, non vi sarebbero problemi di appartenenza perché entrambi sono Al Senussi. Provengono cioè dalla tribù che in Libia è la più rispettata.

La REPUBBLICA - Tahar Ben Jelloun : " Primavera araba "

Tahar Ben Jelloun continua a vedere nelle rivoluzioni del Maghreb segnali di democrazia pura. Il fondamentalismo islamico, secondo lui, non è un pericolo concreto. Appena il dittatore tunisino è scappato, sono tornati gli islamisti e sono riprese le violenze contro le sinagoghe, questo è indice di democrazia ? In Egitto una giornalista è stata stuprata al grido di 'ebrea!', anche questo è democratico ? Sui muri Gheddafi e Mubarak vengono disegnati con delle Stelle di David sul petto, come dire che se sono dittatori e violenti sono pure di sicuro manovrati da Israele. La democrazia non ha niente a che vedere con questo. Gli islamisti sono ben radicati nelle società che ora stanno cercando di espellere i dittatori. Tahar Ben Jelloun si legga l'articolo di Giulio Meotti di oggi (pubblicato in altra pagina della rassegna) su Amr Moussa, il candidato che il 49% degli egiziani voterebbe come presidente e che passa per ciò che non è, un democratico. E lo leggano a REPUBBLICA e all'ESPRESSO, non potrà che fargli bene.
Ecco l'articolo:


Tahar Ben Jelloun

Questa primavera in pieno inverno non assomiglia a nulla nella storia recente del mondo. Potrebbe far pensare alla rivoluzione dei garofani in Portogallo (novembre 1974), ma è diversa.
I popoli arabi hanno subìto e sono rassegnati da molto tempo. In generale, però, il Maghreb e il Machrek hanno questo in comune: l´individuo non è riconosciuto come tale. Tutto è organizzato in modo che l´emergere dell´individuo in quanto entità singolare e unica sia impedito. È la rivoluzione francese che ha permesso ai cittadini di Francia di diventare individui dotati di diritti e doveri.
Nel mondo arabo, ciò che viene riconosciuto è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona. L´individuo invece sarebbe una voce, non un soggetto da sottomettere. Un individuo è una persona che ha da dire la sua e che la dice andando a votare liberamente e senza falsificazioni. In questo sta la base della democrazia – una cultura basata sul contratto sociale; si elegge qualcuno per rappresentare un popolo in un determinato periodo e poi o lo si rinnova nelle sue funzioni o lo si rispedisce a casa. Nel mondo arabo, i presidenti della repubblica si comportano come dei monarchi assoluti al punto che restano al potere con la forza, attraverso la corruzione, la menzogna e il ricatto. Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafez al-Assad; Seif al-Islam è ritenuto il successore di suo padre Gheddafi, quando questi morirà; Mubarak ha ovviamente cercato di imporre suo figlio alla successione, ma con la rivoluzione di gennaio tutti i suoi piani sono saltati. Il principio è semplice: quando arrivano al potere, pensano di essere lì per l´eternità, che il popolo lo voglia o no. Per non indisporre troppo gli occidentali, instaurano una sorta di "democrazia formale", giusto una maschera per gli occhi di chi li osserva. Ma è tutto nelle loro mani e non tollerano alcuna contestazione, alcuna opposizione. Il resto del tempo, considerano il Paese come una loro proprietà privata, dispongono delle sue entrate, fanno affari, si arricchiscono e mettono i loro beni al sicuro in banche svizzere, americane o europee. Quello che è successo in Tunisia e in Egitto è una protesta morale ed etica. È un rifiuto assoluto e senza mezzi termini dell´autoritarismo, della corruzione, del furto dei beni del Paese, rifiuto del nepotismo, del favoritismo, rifiuto dell´umiliazione e della illegittimità che è alla base dell´arrivo al potere di questi dirigenti il cui comportamento prende a prestito molti metodi dalla mafia. Una protesta per stabilire un´igiene morale in una società che è stata sfruttata e umiliata fino all´inverosimile.
È per questo che non è una rivoluzione ideologica. Non c´è un leader, non c´è un capo, non c´è un partito che porta avanti la rivolta. Milioni di persone qualunque sono scese in strada. È una rivoluzione di tipo nuovo: spontanea e improvvisata. È una pagina della storia scritta giorno per giorno, senza una pianificazione, senza premeditazione, senza intrallazzi, senza trucchi. La responsabilità dei dirigenti europei è importante nel mantenimento di questi regimi impopolari e autoritari. Essi tacciono e lasciano fare usando due scuse: 1. pensano che Mubarak, come Ben Ali, sia lì per impedire che si stabilisca una repubblica islamica in stile iraniano; 2. pensano che non dicendo loro che devono rispettare i diritti dell´uomo, si assicureranno succosi affari. Su entrambe le cose si sbagliano.
La rivoluzione iraniana è stata possibile perché lo sciismo è strutturato gerarchicamente (himam, mollah, ayatollah ecc.). Per gli sciiti, l´islam è politico o non è (è questo che aveva dichiarato Khomeini al suo arrivo a Teheran). L´islam sunnita non ha mai pensato la pratica religiosa in modo gerarchico. Nel Corano si dice che nell´islam non ci sono sacerdoti. Né preti, né rabbini, né ayatollah. Sul piano politico, la società araba è attraversata da diverse correnti islamiche; la corrente fondamentalista non è il solo movimento presente in Egitto. Non c´è ragione di pensare che i fondamentalisti arrivino al potere, a meno che non si verifichi un colpo di Stato militare, il che vorrebbe dire che tutto l´esercito è fondamentalista, cosa assurda. Se c´è una democrazia, questo vuol dire che c´è multipartitismo, che ci sono differenze e opinioni diverse che si fronteggiano in un campo politico libero.
Quanto al secondo punto, gli occidentali chiudono gli occhi ovunque possano fare affari, che sia in Cina, in Libia o in Algeria. Ma da quando Barack Obama ha invocato il rispetto dei diritti dell´uomo davanti al suo ospite cinese, nel gennaio 2011, non è più possibile anteporre gli affari ai diritti dell´uomo. Tutto ciò è avvolto da ipocrisia e accondiscendenza. Abbiamo appena saputo che alcuni ministri francesi accettavano inviti in Tunisia, in Egitto, e facevano coppia perfetta con dittatori di cui sapevano tutto, compreso il modo in cui torturavano e facevano sparire gli oppositori del governo. Queste rivoluzioni di oggi avranno almeno un vantaggio: più niente sarà come prima. Quanto agli altri Stati arabi in cui sussistono gli ingredienti affinché qualcosa si muova e ci si ribelli, credo che riformeranno il loro sistema e saranno più vigili sul rispetto dei diritti della persona. Il cittadino non sarà più un soggetto sottomesso ad un potere arbitrario e sprezzante; diventerà un individuo con un nome, una voce e i suoi diritti.

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