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Corriere della Sera - Ucei.it Rassegna Stampa
29.01.2009 George Mitchell, l'inviato di Obama, arriva in Medio Oriente
il cattivo consiglio di Gerry Adams, un commento di Sergio Della Pergola sulle richieste di coinvolgimento di Hamas e sulle polemiche circa la "sproporzione" dell'autodifesa di Israele

Testata:Corriere della Sera - Ucei.it
Autore: Davide Frattini - Gerry Adams
Titolo: «In Israele Mitchell, l'uomo di Obama Sfida finale (dopo Belfast e Olimpiadi)»

Da pagina 17 del CORRIERE della SERA del 29 gennaio 2009, l'articolo di Davide Frattini "In Israele Mitchell, l'uomo di Obama Sfida finale (dopo Belfast e Olimpiadi) "

GERUSALEMME — Gli amici lo chiamano sedere di pietra e gli riconoscono la capacità di restare per ore al tavolo delle trattative. George Mitchell è arrivato in Medio Oriente carico di pazienza e accompagnato dalla fama del dossier che porta il suo nome. Assemblato nel 2001 per il presidente George W. Bush, invitava gli israeliani a bloccare gli insediamenti e i palestinesi a fermare la violenza. Oggi il presidente è Barack Obama, la situazione non è cambiata molto: la tregua a Gaza vacilla dopo l'attacco contro una pattuglia dell'esercito, un rapporto di «Pace Adesso» rivela che il governo di Ehud Olmert nel 2008 ha costruito in Cisgiordania a un ritmo più alto del 57 per cento, rispetto all'anno prima. Al Cairo, prima tappa del viaggio, l'ex senatore americano ha ritrovato Tony Blair, inviato del Quartetto, che da premier britannico ha lavorato con lui agli accordi del Venerdì Santo. Cento voli transatlantici in diciotto mesi, per risolvere la guerra civile in Irlanda del Nord tra cattolici repubblicani e protestanti unionisti. «Il timore è che Mitchell sia perfino troppo paziente— spiega un analista al Sunday Times — e che vada in giro a ripetere "ho fatto questo e quello". Richard Holbrooke, scelto dalla Casa Bianca per seguire il Pakistan e l'Afghanistan, è invece uno capace di prendere la gente per la gola ».
L'emissario di Obama, che oggi vede Abu Mazen, presidente palestinese, vuole rafforzare il cessate il fuoco entrato in vigore dopo ventidue giorni di conflitto. «Bisogna raggiungere una tregua a lungo termine — dichiara da Gerusalemme — che preveda lo stop al traffico di armi e la riapertura dei valichi verso la Striscia». Olmert, premier israeliano, ha vincolato l'intesa sui passaggi di confine alla liberazione di Gilad Shalit, il caporale rapito dai fondamentalisti nel giugno del 2006. Una richiesta definita «inaccettabile » dall'Egitto e respinta da Hamas.
Madre di origine cristiano- libanese, Mitchell ha condotto un'inchiesta sugli steroidi nel baseball, ha mediato una disputa aziendale alla Walt Disney, ha investigato su accuse di corruzione alle Olimpiadi. Adesso proclama: «Prometto il vigoroso impegno americano per raggiungere una pace duratura». «Né gli israeliani né i palestinesi erano rimasti soddisfatti dal rapporto presentato a Bush. È un buon segno», commenta il ricercatore arabo Ghait Al Omari, al Los Angeles Times.
Prima di incontrare l'inviato della Casa Bianca, Olmert ha riunito il consiglio di sicurezza. Israele sta ancora valutando come reagire all'attacco di martedì, un soldato ucciso. Il premier ha parlato di risposta «severa e sproporzionata ». Per ora i jet hanno bombardato i tunnel utilizzati per il contrabbando, alla frontiera con l'Egitto.

Consiglio a Mitchell da Gerry Adams, leader del Sinn Féin, il braccio politico dell'IRA: parlare con Hamas.
Adams, come altri, dimentica ( o omette) il fatto che i terroristi dell'Ira deposero le armi, e che non avevano mai voluto distruggere la Gran Bretagna, o sterminare i protestanti nel giorno del giudizio.
Hamas rifiuta qualsiasi accordo che non riconosca il suo diritto alla "resistenza", vuole distruggere Israele, e sterminare gli ebrei nel giorno del giudizio. La situazione, dunque, è molto diversa.

Ecco il testo: Pacificò l'Irlanda parlando con tutti Ora dovrà parlare anche con Hamas pagina 17


Tra la gente che la scorsa settimana affollava l'Union Station di Washington mi sono imbattuto in George Mitchell. Eravamo tutti e due in città per l'inaugurazione della presidenza di Barack Obama, e in quel momento la possibilità che a George venisse affidato l'incarico di inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente era solo un'ipotesi. L'incarico gli è stato poi confermato dopo il mio ritorno in Irlanda.
Nel discorso inaugurale, Obama ha annunciato una nuova linea per la politica estera americana. L'incarico a George Mitchell e il ruolo importante che ha avuto nel processo di pace irlandese fanno pensare a un più deciso impegno americano perché si raggiunga un accordo di pace tra Israele e il popolo palestinese.
Ma, come le parallele esperienze che abbiamo vissuto in Irlanda del nord ci hanno insegnato, sia George che io sappiamo bene che quello verso la pace è un percorso difficile, sfibrante e a volte terribilmente frustrante.
Mitchell è soprattutto noto, in Irlanda e altrove, per aver presieduto i negoziati a tutto campo che hanno portato all'Accordo del Venerdì Santo. All' inizio gli Unionisti e il governo britannico erano contrari alla sua nomina: non volevano che una personalità indipendente ricoprisse una carica di quell'importanza.
Quando poi si recò al Castello di Belfast dove si tenevano i negoziati, gli Unionisti, mentre discutevano se ammetterlo o no al tavolo delle trattative, lo lasciarono in attesa per due giorni in una stanza adiacente. In seguito intrapresero una incessante campagna di contestazione delle regole di base e dell'organizzazione della trattativa, per cercare di metterlo in difficoltà.
Non solo. Alla fine del 1996 vari giornali di Londra e di Dublino pubblicarono in prima pagina la notizia che Martha Pope, la principale assistente di George Mitchell, aveva una relazione con uno dei negoziatori più impegnati, Gerry Kelly. Erano fandonie, ma la storia era stata fatta circolare da «anonime fonti dei Servizi» per danneggiare George Mitchell.
George Mitchell è venuto a capo del suo lavoro tra trattative interminabili, crisi quasi settimanali, colpi bassi da parte degli apparati di sicurezza britannici e continuo ostruzionismo da parte degli Unionisti, per non parlare della estrema minuziosità dei dettagli richiesti da un accordo di pace.
È pazientemente riuscito a tracciare una strada attraverso tutti questi problemi e ha portato al tavolo delle trattative un'esperienza legislativa e giuridica che ha indotto a trasformare le grandi e affollate riunioni in tavoli con gruppi ridotti di negoziatori, in cui erano impegnati di solito i leader dei partiti e i loro vice. Ci si è potuti così concentrare meglio sui dettagli, agevolando un atteggiamento più costruttivo e produttivo.
Questo stile si confaceva meglio anche al suo modo di arrivare a un risultato. Mitchell passava molto tempo in incontri collaterali con i partiti, e in queste occasioni ho scoperto che è un uomo di buon carattere, spiritoso e tollerante. È un'esperienza che gli tornerà utile quando si imbarcherà per il Medio Oriente.
Molto dipenderà, certo, dal mandato che gli verrà affidato. Ma alla fine, per quanto sia bravo, in Medio Oriente George Mitchell non concluderà un accordo: questo spetta al governo israeliano e ai palestinesi. Perché vi siano speranze di raggiungere questo obiettivo, però, gli Stati Uniti e la comunità internazionale devono impegnarsi in modo coordinato e trattare le parti con eguale considerazione.
Nel processo di pace irlandese l'intervento degli Stati Uniti era generalemente ben visto. Questo probabilmente non si verificherà in Medio Oriente, e sarà una difficoltà ulteriore per George Mitchell.
Inoltre, se ogni nuovo tentativo di raggiungere un accordo sarà ridotto da entrambe le parti a un gioco il cui scopo è usare le trattative per ottenere la sconfitta dell'avversario, la cosa non funzionerà. Sarà semplicemente una replica degli errori passati e un' opportunità persa.
In un processo di pace l'obiettivo deve essere un accordo generale che sia accettabile per entrambe le parti, sia realizzabile, pragmatico e sostenibile. Significa impegnarsi in un dialogo vero e cercare delle soluzioni reali. Significa accettare il diritto del popolo palestinese a scegliersi i suoi leader e i suoi rappresentanti. Il governo israeliano e altri governi dovranno discutere con Hamas.
Il recente attacco a Gaza è un brutale esempio della forza distruttiva della guerra e del prezzo di un fallimento. È ora che tutto questo finisca. Perché il ciclo dei conflitti si interrompa, bisogna però che i leader politici — israeliani e palestinesi — siano disposti a correre dei seri rischi in vista della pace. Avranno bisogno di aiuto e di uno sforzo reale e costante da parte della comunità internazionale per riuscire a costruire una pace duratura, che getti le condizioni per la nascita di due Stati, ma in particolare, di uno Stato palestinese funzionante.

Di seguito, dalla newsletter dell'Ucei, riportiamo un commento di Sergio Della Pergola sul recente conflitto Israele-Hamas.

Nel bombardamento tedesco di Coventry il 14 novembre 1940 morirono almeno 568 (o forse 1.000) persone. Il bombardamento britannico di Dresda il 13-15 febbraio 1945 causò almeno 24.000 (o forse 40.000) morti. Nessuno, allora o dopo, parlò di proporzionalità, ma molti elogiarono Churchill per il suo contributo all’esito della Seconda guerra mondiale. Il Partito Nazionale Fascista in Italia e il partito Nazionalsocialista in Germania – due formazioni totalitarie e non democratiche – giunsero al potere attraverso procedure elettive e ottennero l’appoggio della grande maggioranza della popolazione. Nel dopoguerra europeo, nessuno propose che la ricostruzione avrebbe dovuto inderogabilmente avvenire con la partecipazione delle forze politiche nazifasciste. In Palestina, Hamas – un partito che proclama l’uccisione di tutti gli ebrei e la verità dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion – ottenne la maggioranza relativa dei voti nelle elezioni parlamentari del gennaio 2006. Oggi il discorso di molti analisti europei su Gaza e Israele è fissato sulla non-proporzionalità della reazione e sul coinvolgimento obbligato di Hamas nel futuro processo politico. Nel Giorno della Memoria ci si può chiedere che cosa sia stato capito, che cosa sia cambiato e che cosa sia stato dimenticato nelle percezioni e nelle identità politiche dell’Europa.

 Sergio Della Pergola, demografo, Università Ebraica di Gerusalemme
da UCEI informa


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