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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Giornale - Il Foglio - Informazione Corretta Rassegna Stampa
28.10.2008 Siria 1: ecco come è andata
le analisi di Fiamma Nirenstein, Daniele Raineri e Danielle Sussmann

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Informazione Corretta
Autore: Fiamma Nirenstein - Daniele Raineri
Titolo: «Il diktat di Bush alla Siria - Ed è subito Siria - Elezioni americane vicine, scoppia la questione siro-iraniana»

Da Il GIORNALE del 28 ottobre 2008, l'analisi di Fiamma Nirenstein:

Sono naturalmente di rabbia e di vendetta le dichiarazioni siriane che denunciano come un «crimine oltraggioso» gli otto morti per mano americana a Sukkariya, otto chilometri dal confine iracheno. La Siria ha anche minacciato una reazione militare contro gli Stati Uniti e si sono cominciate a diffondere voci che gli elicotteri avessero scelto la strada dello spazio aereo israeliano (anche se la cosa appare geograficamente irrealistica), e sembra che anche Hezbollah sia nel più alto stato di allarme, ritenendo che forse Israele potrebbe considerare la strada aperta da Washington come un’indicazione a intraprendere un’azione contro il suo totale riarmo. La televisione del presidente siriano Bashar el Assad ha mostrato tutto il giorno immagini amatoriali degli elicotteri americani provenienti dall’Irak, oggetti insanguinati, interviste a testimoni che ripetono che le vittime erano civili innocenti. Secondo fonti americane, il target era un importante leader di Al Qaida.

Ci sono tre domande che aspettano una risposta: qual è il significato di ciò che è accaduto, qual era l’obiettivo, che cosa succederà adesso. Possiamo fare soltanto ipotesi. Ma una verità sembra palmare: gli Stati Uniti hanno individuato a Sukkariya un obiettivo urgente, tale da costringere a un’operazione immediata nell’ambito della guerra al terrorismo. Ovvero, ritiene i terroristi provenienti dalla Siria e che ci rientrano, o che vi si rifugiano, molto importanti. Questo tipo di operazione (sempre che non siano stati commessi errori, il che è possibile) richiede un crudele tempismo e spesso risulta tanto più difficile da decifrare quanto più il raid è importante. George W. Bush, pure in uscita, ha voluto salvare il suo profilo mediorientale, che ha lasciato correre sul reattore iraniano, mandando a dire alla Siria e per interposta persona a Hezbollah e all’Iran, che così non va, che le politiche di destabilizzazione non possono andare avanti. Gli Stati Uniti hanno denunciato con il loro gesto molto diretto che la politica di public relations di Bashar el Assad non incanta. Gli hanno detto di fatto con le cattive: piantala di essere il punto di passaggio privilegiato del terrorismo che insanguina l’Irak ritardandone la rinascita democratica.

Dopo la distruzione del reattore nucleare sul suo territorio, Assad si era molto impegnato a disegnare a Parigi con Sarkozy e ad Ankara con il dialogo siro-israeliano tramite la Turchia, una nuova immagine conciliante. Washington non ci ha mai creduto, Condi Rice ha detto di persona a Walid Muallem, il ministro degli Esteri di Assad, che il confine con l’Irak doveva essere suggellato, proprio come quello giordano e quello saudita. Non è accaduto, e intanto è stata sempre più chiara la sistematica determinazione nel riempire gli arsenali di Hezbollah di missili. Il rischio è letale ed è stato denunciato da Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano. Di nuovo, ammansire il lupo promettendogli doni, si è rivelata persino per il mago Sarkozy un’arte incerta. Assad ha seguitato a stringere accordi con l’Iran, a ospitare Hamas, a considerare Hezbollah la sua arma privilegiata e ultimamente a intrecciare rapporti militari anche con la Russia di Vladimir Putin, sperando in una nuova polarizzazione che la renda più potente. Anche l’apertura di rapporti diplomatici con il Libano si deposita su una situazione in cui comunque il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, garantisce il controllo a Damasco. Barak ha minacciato di bloccare quei carichi di armi sempre diretti tramite la Siria a Hezbollah. Difficile pensare che intenda, in piena crisi politica, aprire uno scontro. Ciò che tiene tutti inchiodati sono soprattutto le elezioni americane. Bashar spera che Barack Obama, vincendo, cerchi una situazione di appeasement che gli permetta di tornare a giocare.

L'analisi di Daniele Raineri dal FOGLIO:

L’incursione militare in Siria di domenica pomeriggio aveva come obbiettivo il comandante dell’estesa rete di al Qaida che trasporta combattenti stranieri, armi e denaro in Iraq. Le squadre speciali americane per la “caccia ed eliminazione” sono entrate in Siria per catturare Abu Ghadiya, leader iracheno incaricato di coordinare la rete siriana fin dal 2005, secondo un articolo del Washington Post di luglio. Ghadiya è stato identificato dall’esercito americano come un bersaglio importante dal febbraio 2008, e ha preso il posto di Suleiman Khalid Dharwish, siriano e braccio destro di Abu Mussab al Zarqawi ucciso nel giugno 2005 al valico di al Qaim, sulla linea di confine tra i due paesi. Il raid è avvenuto nella cittadina di Sukkariya, nella parte orientale del paese, a soli otto chilometri dalla frontiera con l’Iraq. Quattro elicotteri sono penetrati nello spazio aereo siriano, due sono atterrati, le forze speciali sono sbarcate e hanno ripulito gli edifici. “Sono arrivati da quattro direzioni differenti – dice alla Reuters Osama Malla Hameed, che possiede una fattoria a poche centinaia di metri di distanza – Due elicotteri si sono abbassati e i soldati sono scesi sparando. Sono rimasti a terra quattro minuti e poi sono ripartiti. Mio nipote, che stava passando in motocicletta, è stato colpito a una mano”. Per al Dunia, la tv siriana privata ma controllata dallo stato, ci sono nove morti. “Il raid ha preso di mira un gruppo di muratori al lavoro – sostiene l’emittente – Sono tutte vittime civili”. I resoconti su quello che è successo non sono chiari. Il governo di Damasco dice che gli americani hanno ucciso otto persone, fra loro una famiglia con quattro bambini, e sta parlando di “crimine di guerra”. Un giornalista dell’Associated Press sul posto ha però visto i funerali degli uccisi e dice di avere visto soltanto i corpi di nove adulti. La Coalizione in Iraq ha negato che il raid sia avvenuto: “Non ne siamo informati”. Ma è stata una smentita ovvia e di routine: non riconoscere questo tipo di incursioni oltreconfine è la linea standard scelta dai militari per non turbare i delicati rapporti geopolitici con i paesi confinanti. Succede lo stesso anche in Pakistan. Gli americani impegnati in Afghanistan attaccano i covi di al Qaida e i santuari talebani oltre il confine sud, con aerei e missili, e il mese scorso anche un blitz con squadre speciali a terra, come domenica a Sukkariya: pure quelli sono negati con regolarità. Ma un responsabile americano conferma, a condizione di anonimato: “Un successo contro i terroristi”, ma non dice se Abu Ghadiyah è stato preso. Anche una fonte dell’ufficio del portavoce governativo iracheno Ali al Dabbagh conferma: “Il raid americano in territorio siriano ha preso di mira i rifugi dei terroristi che usano quelle basi per sferrare attacchi all’interno dell'Iraq”. L’opzione “raid in Siria” fino a oggi era considerata possibile ma non probabile. Un anno fa una squadriglia di aerei israeliani ha violato il cielo della Siria e ha bombardato un sito in mezzo al deserto. Si è trattato di un’incursione eccezionale, perché gli israeliani avevano scoperto che il regime di Damasco stava cominciando a lavorare al proprio programma nucleare clandestino con l’aiuto di tecnici militari arrivati dalla Corea del nord, e hanno scelto di radere al suolo quell’installazione segreta. Domenica il comando americano a Baghdad deve avere intravisto un’opportunità altrettanto eccezionale, perché sa che quando colpisce oltre confine manda all’aria la delicata ragnatela dei rapporti diplomatici in medio oriente. Il gioco deve valere la candela. In questo periodo la Siria è impegnata in negoziati discreti ma fitti con Israele, anche se i due paesi restano sul piano nominale due nemici in guerra. Inoltre l’Europa, soprattutto Parigi, sta tentando di staccare con cautela il presidente Bashar el Assad dal raggio d’influenza iraniana (è un’operazione che potrebbe durare secoli). E infatti ieri lo stizzito portavoce del ministero degli Esteri francese, Eric Chevallier, sottolineando l’importanza “del rispetto dell’integrità territoriale” degli stati ha chiesto spiegazioni a Washington e ha anche inviato un messaggio di condoglianze della Francia “alle famiglie delle vittime siriane”. Gli americani stessi in teoria hanno interrotto i rapporti diplomatici ufficiali ma sono in contatti riservati con l’esercito e con i servizi segreti della Siria. Quello che non quadra è la scelta dei tempi: il comando di Baghdad sceglie di colpire proprio ora che la situazione con Damasco si sta riaggiustando piano, almeno per quanto riguarda il problema Iraq (l’altra grande questione, l’alleanza con l’Iran e il movimento politico-terrorista di Hezbollah in Libano è aperta). Negli anni scorsi dal confine siriano arrivavano in Iraq almeno centocinquanta combattenti stranieri al mese, per alimentare la violenza e il caos. Sei mesi fa il flusso si è dimezzato e da circa tre mesi gli infiltrati sono diventati meno di venti al mese. Perché attaccare oltreconfine proprio ora? La risposta è nella scadenza del mandato delle Nazioni Unite che consente alla Coalizione di operare in Iraq: vicina, vicinissima, fine dicembre 2008. Agli americani rimangono poco più di sessanta giorni per finire di risolvere la situazione sul campo. Poi entrerà in vigore il cosiddetto Sofa, “Status of force agreement”, che però è ancora nebuloso in alcuni suoi punti. Meglio dare il colpo risolutivo ora, che i rapporti con il governo di Baghdad sono definiti. “Mi domando – ha detto in tv il ministro degli Esteri siriano Walid al Muallim – se l’aggressione di ieri facesse parte del trattato di sicurezza tra Washington e Baghdad che deve ancora essere siglato”. L’ultima area che non smette di creare problemi agli americani è proprio quella vicina al confine con la Siria, la provincia di Ninive, lo stradone dritto che collega Mosul, Tall Afar e la frontiera. In quell’area i guerriglieri sunniti attaccano ancora l’esercito e terrorizzano la minoranza cristiana – nelle ultime tre settimane diecimila caldei sono scappati dalle proprie case. In quella zona godono ancora di una libertà di movimento che nel resto del paese non possiedono più. Una spiegazione è che i terroristi stanno uscendo dall’Iraq passando a ritroso attraverso gli stessi buchi da cui sono entrati baldanzosi negli anni scorsi. Oggi operano senza mai allontanarsi troppo dalle loro basi sicure appena oltre la frontiera – per questo il loro raggio è ridotto – e per muoversi avanti e indietro si confondono nel via vai giornaliero di iracheni attraverso il confine C’è un paradosso: i commando americani potrebbero aver fatto un grosso favore alla Siria, anche se ora ci sono proteste e ripercussioni diplomatiche (“E’ stato un atto criminale, terroristico e deliberato”, “roba da cowboy”, dice il ministro al Muallim). La ragione è che se negli anni scorsi il regime di Damasco ha usato al Qaida per i propri scopi politici, oggi comincia ad avere paura. La classe dirigente è un piccolo gruppo di alawiti, una setta deviata della tradizione sciita che conta appena per il dodici per cento dei siriani, in bilico sopra a un mare di sunniti, che sono il settanta per cento. Agli occhi di al Qaida la casta al potere in Siria è una minoranza eretica, oppressiva e sterminatrice. Nel giugno 1980, per soffocare la rivolta dei sunniti Fratelli musulmani, i soldati di Hafez al Assad con carri armati ed elicotteri hanno ucciso centinaia di dimostranti nelle strade di Aleppo. Hanno massacrato un migliaio di detenuti nella prigione di Palmiriyah. Hanno applicato punizioni collettive e indiscriminate sulla popolazione, fucilando ottanta sunniti ad Aleppo dopo un attentato e quattrocento nella città di Hama. Un anno dopo hanno tentato di uccidere il primo ministro della Giordania, Mudar Badran, accusato di sostenere i correligionari in Siria. Nel settembre 1981 sono tornati a Hama per schiacciare in via definitiva la volontà sunnita e hanno ammazzato un numero di abitanti compreso tra i diecimila e i ventimila. Secondo gli stessi comunicati di al Qaida, la Siria potrebbe diventare il prossimo terreno di scontro ora che le operazioni in Iraq sono diventate così difficili. Nibras Kazimi, analista iracheno dello Hudson Institute che oggi vive negli Stati Uniti, spiega al Foglio che sta aumentando la frequenza con cui al Qaida in Iraq parla del Levante, la Siria. Inoltre il paese esercita un fascino irresistibile per il movimento eversivo sunnita: la capitale Damasco è dove fu stabilito per la prima volta il trono ereditario dell’islam dalla dinastia Ummaide ai tempi di Maometto, e quattro secoli dopo fu proclamata dal grande Saladino (sulla cui vita Zarqawi cercava di modellare la propria) capitale della dinastia Ayyubide. Il condottiero islamico fece costruire a Damasco il mausoleo per sé appena fuori dalla Moschea Umayyad e le tombe per i suoi fratelli, zii e nipoti sono sparse in tutti i quartieri. La capitale è stata anche la città di Ibn al Tammiya, ideologo medievale della guerra santa (come spiega Carlo Panella nei suoi libri sull’ideologia fondativa di al Qaida). Tutto è sovrastato dal monte Quassion, dalla cui sommità, secondo la tradizone islamica, i fedeli ascenderanno al cielo con molta più facilità quando verrà il giorno del giudizio. Ma è possibile che l’inquieta borghesia sunnita in Siria sia pronta all’estremismo hardcore apparso negli anni scorsi nel paese confinante, a Ramadi e poi a Baqubah, capitali dell’autoproclamato “Governo militare di al Qaida” sull’Iraq centrale? Kazimi dice che anche lui non credeva che sarebbe stato possibile in Iraq, dove la religione è di tradizione permissiva e blanda, più vicina al sufismo riflessivo e personale che al rigore militante sul modello saudita. “Ma poi è successo, la violenza modifica in fretta il paesaggio”. Era l’effetto Afghanistan: nei primi anni Novanta molti reduci della guerra contro l’invasione sovietica, i cosiddetti arabi-afghani, hanno fatto ritorno ai propri paesi d’origine come tante spore dello stesso fungo. Con sé portavano il proprio bagaglio di fanatismo ideologico e di esperienza militare. Le conseguenze si sono viste in fretta. Per fare l’esempio più cruento: negli stessi anni è scoppiata la guerra civile in Algeria. Ora c’è l’effetto Iraq. E’ già cominciato. Il 29 settembre scorso, poco prima delle otto di mattina, una Gmc sedan bianca con 200 chilogrammi di esplosivo a bordo lascia la strada principale che porta all’aeroporto internazionale di Damasco e si infila nel quartiere di Sidi Miqdaq, un pezzo povero di capitale a pochi minuti da un santuario visitato tutti i giorni da sciiti in arrivo da Libano, Iran e Iraq. L’auto non ha targa siriana ed è dello stesso modello di quelle che ogni giorno si offrono come taxi a lunga percorrenza tra Iraq e Siria, dove, da quando è scoppiata la guerra, circa un milione di iracheni aspetta tempi migliori. Punta verso un edificio del governo da alcuni indicato come una sede dell’onnipresente polizia segreta, scoppia, uccide 17 persone. Il taxi iracheno suicida che esplode nella capitale della Siria è la materializzazione dell’incubo del regime e dei servizi segreti. Per quattro anni hanno usato al Qaida come se fosse il loro esercito privato. Missione: alimentare la violenza in Iraq, dissanguare gli americani e impedire loro di allargare la minaccia della propria presenza al resto della regione mediorientale. Tutti ricordano che fino al dicembre 2003, con la cattura di Saddam Hussein nel suo buco, si parlava ancora di “effetto domino”: la destituzione del rais a Baghdad era solo il primo passo nella democratizzazione dell’intera regione, presto sarebbe toccato mettersi in riga anche a Siria e Iran. Ma nel novembre 2004, a meno di un anno di distanza, dopo la rielezione di Bush e con i marine impegnati nella presa cruenta di Fallujah, il medio oriente democratizzato sembra già un’utopia nostalgica. Il piano della Siria è riuscito, all’America sarebbe già bastato riuscire a districarsi dal guazzabuglio iracheno. Però: l’irhab, il fanatismo militante dei terroristi, è una materia contaminante, ti resta sulle mani, si appiccica addosso e ti aggredisce. Pensate a Benazir Bhutto in Pakistan, che ha permesso ai suoi servizi segreti di ammaestrare i talebani in Afghanistan a partire dal 1994 e quindici anni più tardi è caduta sotto i colpi di quella stessa alleanza diabolica. E’ l’eterogenesi dei fini, conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali, con molto fumo e parecchi morti. E’ il blowback, la fiammata di ritorno. La tua politica ti si ritorce contro nel peggiore dei modi. Ora Damasco teme l’ora del proprio turno. Per questo ammassa truppe pure sul confine con il Libano. Perché teme che il contagio arrivi anche da lì, dai campi estremisti palestinesi dove il flusso di volontari per l’Iraq s’è fermato in coda e ora stanno scoppiando come vulcani. Tra il 2003 e il 2008 migliaia di soldati regolari in arrivo dagli Stati Uniti sono sbarcati alla base dell’aviazione americana di Ali al Salem, sulla costa del Kuwait, ultima tappa prima di entrare in Iraq. E i loro nemici? Il loro scalo è stato l’aeroporto internazionale di Damasco, in teoria una dei luoghi più sorvegliati della nazione. Arrivavano da tutto il mondo arabo, scendevano la scaletta in abiti civili e poi, a bordo di auto e furgoncini provveduti dalla rete locale, dirigevano verso l’Iraq. Il grosso è passato dalla stazione degli autobus della linea pubblica per Baghdad, che si trova dall’altra parte della strada davanti all’ambasciata degli Stati Uniti in Siria – un altro dei luoghi più sorvegliati del paese. L’ex ambasciatore americano Theodore Kattouf racconta della propria frustrazione a osservare dalle finestre blindate, sotto il suo naso, i volontari arabi aspettare in coda per andare a uccidere americani e civili in Iraq. Dopo le proteste ufficiali, lunghe e ripetute, il governo spostò semplicemente il capolinea in un’altra zona di proprietà dello stato, quella della fiera. L’ambasciata è stata poi attaccata da al Qaida il 12 settembre 2006. Passata la frontiera, i combattenti stranieri si fondevano con il resto della popolazione. Baghdad era a quattrocento chilometri di autostrada. “Meglio che un’agenzia di viaggi”, dice ora chi negli anni scorsi è scivolato fin laggiù per portare la guerra. Almeno l’ottanta per cento degli stranieri di al Qaida in Iraq è arrivato così. Questi stranieri erano – sono – i più pericolosi: il novanta per cento degli attentatori suicidi non è arruolato sul posto, arriva da fuori, sauditi, libici, algerini. La Siria aveva scelto la politica delle porte aperte: export di terrorismo verso il paese confinante, senza intoppi e senza ritardi. E che fosse una scelta consapevole è facile da dimostrare: il paese è sorvegliato da una polizia segreta invadente e ossessiva, una dozzina di servizi segreti competono per il controllo maniacale di posti e persone, se lasciano passare i volontari è perché hanno disposizioni precise. Anzi, fanno molto più che farli transitare. Organizzano campi d’addestramento di stato, vicino a Damasco. I terroristi raccontano di un corso di tre mesi, trentacinque giorni di indottrinamento ideologico e poi il resto passato ad apprendere la pratica, come si costruisce e si piazza una bomba, come si spara, persino come si sgozza: “Ci portavano degli animali per farci provare. Poi lo abbiamo fatto sugli iracheni, perché così ci avevano insegnato i nostri istruttori: le decapitazioni terrorizzano la gente, dopo faranno quello che volete”. Secondo il racconti di Abu Jowhar, un comandante libanese di al Qaida, uomini dell’intelligence siriana arrivano fino al campo di Zarqawi in Iraq, per offrire assistenza, rifornimenti, aiuto, munizioni, esplosivo: ma quello esita, perché è impegnato a costruire il proprio mito personale e invece sta per passare alla storia come un’altra pedina dei siriani. Già in tasca ha un passaporto siriano, che nel 2001 gli ha permesso di scappare dall’Afghanistan. fermato in Iran, è stato subito rilasciato perché la Siria è un paese alleato di Teheran. Poi nel 2007 la Siria capisce che il vento è cambiato: i suoi protetti in Iraq stanno perdendo, e non conviene farsi trovare in così stretti rapporti di complicità. Istituisce pattuglie lungo i confini , per ostentare una qualche volontà di controllo – e gli arrivi pericolosi – secondo la Cia – si diradano. Il generale Petraeus chiede e ottiene dai siriani una misura efficace: controllate tutti i maschi in età militare che arrivano al vostro aeroporto internazionale con in tasca il biglietto di sola andata. Era l’identikit del terrorista che fino all’anno scorso voleva andare a combattere in Iraq, ma che ora sogna anche Damasco. Forse oggi il governo nomina al Qaida per coprire i problemi interni, la misteriosa catena di attentati e omicidi nella gerarchia dei servizi segreti e fra gli uomini chiave che legano Damasco a Hezbollah e a Hamas. Kazimi, l’analista iracheno, esclude che si tratti di una copertura: “Per loro è un problema reale, e la prova è che stanno nascondendo e minimizzando ogni informazione su al Qaida in Siria. Vogliono evitare il diffondersi del contagio e anche di apparire deboli”.

L'analisi di Danielle Sussmann:

Ieri, gli Stati Uniti hanno compiuto un raid con 4 elicotteri sul confine siriano delle rive dell’Eufrate, penetrando per 8 km. all’interno della Siria. Mentre due elicotteri controllavano dall’alto il territorio, gli altri due sono atterrati e ne sono usciti 8 commando che hanno attaccato la Fattoria di Sukkariyeh non lontana dalla città siriana di Abu Kamal e dalla città irachena di confine, Qaim. Nel 2005, gli insorti iracheni avevano preso Qaim obbligando i marines americani a riconquistare la città dopo pesanti combattimenti. L’area divenne sicura solo nel 2006 quando le tribù sunnite dell’Anbar si rivoltarono contro al-Qaeda e si unirono alle forze americane. Una fonte dell’esercito USA ha detto che il raid delle forze speciali americane aveva come obiettivo i gruppi combattenti stranieri collegati alla rete di al-Qaeda che, dalla Siria, penetrano in Iraq. Gli americani non sono riusciti ad oggi a chiudere questa rete proprio perché la Siria era fuori dal loro raggio d’azione. “Ora stiamo prendendo in mano la situazione a causa dell’inazione siriana” ha detto all’Associated Press di Washington una fonte ufficiale rimasta anonima per la delicatezza della questione. “L’attacco è avvenuto proprio dopo che il comandante delle Forze USA nell’Iraq occidentale ha detto che le truppe americane stavano raddoppiando i loro sforzi per rendere sicuro il confine siriano, che ha definito una porta d’accesso “senza controllo” per i combattenti che entrano in Iraq.” Dal 2003, non è la prima volta che l’esercito americano sia sconfinato lungo i 600 km del confine siro-iracheno, né che gli aerei dell’USAF abbiano violato lo spazio aereo siriano; ma è la prima volta che un’operazione simile sia stata portata avanti su così larga scala. Giovedì scorso, il Generale John Kelly aveva detto che i confini occidentali con l’Arabia Saudita e la Giordania erano ben controllati grazie alla buona politica delle forze di sicurezza di quei paesi, mentre con la Siria “era tutta un’altra storia”. Kelly ha aggiunto che l’intelligence americana è certa della collaborazione di elementi dell’esercito siriano con i combattenti stranieri. Il precedente per l’attacco di ieri si è avuto ad agosto, quando la Casa Bianca ha autorizzato raids delle forze speciali USA in Afghanistan attraverso il confine con il Pakistan per colpire obiettivi talebani e di al-Qaeda. Il 90% dei gruppi combattenti stranieri entra in Iraq attraverso la Siria secondo l’Intelligence americana. Ed aggiunge che gli stranieri sono i più feroci combattenti in Iraq, addestrati nel fabbricare bombe ed esperti in armi di piccolo taglio, oltre che più decisi degli iracheni a portare a termine attentati-suicidi. Inoltre apportano alle casse di al-Qaeda ogni fonte d’introito. Hanno contribuito a più del 70% del bilancio operativo in un settore iracheno, secondo documenti trovati sul confine siriano nel settembre del 2007. Inoltre, l’area colpita domenica essendo vicina a Qaim, ed è il più importante crocevia per gruppi combattenti, armi e soldi che alimentano la rivolta sunnita. L’intelligence stima che siano 20 al mese gli armati stranieri che riescono ad entrare in Iraq dalla Siria. Il governo siriano conferma che 4 elicotteri hanno attaccato un edificio civile in costruzione poco prima del tramonto e aperto il fuoco sugli operai all’interno, affermando che sarebbero stati uccisi 8-9 civili (a seconda delle versioni). Vibrate proteste siriane (ed iraniane) seguite da minacce di adeguate ritorsioni. Questi fin’ora i fatti come li riportano il Jerusalem Post e l’Herald Tribune. Ora, alcune valutazioni personali. Com’è noto, un patto d’acciaio tra Siria ed Iran (stipulato in due fasi, tra la fine del 2006 e la primavera del 2007) “protegge” in un reciproco impegno di difesa Siria e Iran. Entrambi questi paesi hanno adottato la tattica di non attaccare mai direttamente le forze loro nemiche, per non contravvenire alle leggi del Diritto internazionale, ma di servirsi di una strategia trasversale nell’impiegare organizzazioni terroristiche come Hitzballah e Hamas contro Israele e gruppi armati stranieri contro l’Iraq. Fin’ora questa tattica li ha premiati. Con la Siria, gli USA iniziano una nuova strategia che poi è legittimata da quella afghana-pakistana. E’ piuttosto singolare il momento. Proprio quando tutti i media si beano del periodo di “anatra zoppa” del Presidente degli Stati Uniti, è quello in cui un maggior decisionismo si segnala sui campi di battaglia e nei paesi ambigui. I gruppi armati stranieri che entrano in Iraq dalla Siria, minano la stabilità dell’Iraq e questo offre agli USA il pretesto per agire in Siria allo scopo di fermarli. Non “contro la”, ma “in” Siria. Sottile differenza che trova la sua legittimazione nel Diritto internazionale. A tal punto, il pericolo è stato recepito dall’asse siro-iraniano, che il Jerusalem Post on line titola questo pomeriggio un servizio a caratteri cubitali: “Iran: We arm ME ‘liberation armies’. Così ha affermato un alto comandante delle élites delle Guardie Rivoluzionarie, il generale Hossein Hamedani. E’ la prima conferma ufficiale del Paese sulla fornitura di armi ai gruppi combattenti della regione, anche se il fatto è risaputo per Hitzballah e per le milizie sci’ite in Iraq, malgrado l’Iran abbia sempre negato. Fino ad oggi. Il 18 scorso, il direttore del dipartimento Europa e USA del Ministero degli Esteri iraniano, sul sito Aftab, ha invitato l’Iran a colpire Londra perché il Regno Unito è il più stretto alleato degli Stati Uniti in Europa. Il Minneapolis Star Tribune scrive che Bush intende annunciare a metà novembre, dopo le elezioni presidenziali, l’apertura delle prime relazioni diplomatiche con l’Iran dalla crisi degli ostaggi 1979/81 e che confluiranno nell’apertura di una ambasciata americana a pieno titolo. La proposta è già stata inviata a Teheran. Non si tratta di una mossa tesa ad avvicinare il governo USA a quello iraniano, ma a raggiungere il popolo iraniano che, in gran parte, non è antiamericano come i suoi leaders. Mancano ancora pochi giorni alle elezioni americane e la partita è ancora tutta da giocare.
Danielle Sussmann

Di seguito riportiamo, in inglese, l'articolo del Jerusalem Post:

A top Revolutionary Guards commander has said Iran is supplying weapons to "liberation armies" in the Middle East, a state-run news agency reported - the first official confirmation the country provides weapons to armed groups in the region.

Gen. Hossein Hamedani, deputy commander of a volunteer militia that is part of the elite Revolutionary Guards, did not provide specific details. But Iran is widely believed to provide weapons to Hizbullah. The US military has also accused Iran of arming Shi'ite militias in Iraq.

"Not only are our armed forces self-sufficient, liberation armies of the region get part of their weapons from us," Borna news quoted Hamedani as saying on its Web site late Sunday.

In the past, Iran - a majority Shi'ite country - has denied arming Hizbullah, saying it only provided political and financial support. The Iranian government has also denied providing weapons or financial support to Shi'ite militants fighting US forces in Iraq.

But the US military has said it has evidence that elements of the Mahdi army, an Iraqi militia loyal to anti-American Shi'ite cleric Muqtada al-Sadr, have been armed by Iran.

Hamedani also said Iran has no shortage of advanced missile systems.

"Our chemical engineers have upgraded Iran's missile capability," he was quoted as saying.

Hamedani didn't elaborate, but Iranian officials have said they successfully tested a solid fuel motor for the medium-range Shahab-3 ballistic missile, a technological breakthrough for Iran.

Experts say solid fuel increases the accuracy of missiles in reaching targets. But many in the West have expressed doubt about Iran's professed military accomplishments.

 Iran launched an arms development program during its 1980-88 war with Iraq to compensate for a US weapons embargo. Since 1992, Iran has produced its own tanks, armored personnel carriers, missiles and a fighter plane.

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