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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
30.07.2021 La crisi del 'modello Tunisia'
Intervista di Lorenzo Cremonesi, analisi di Domenico Quirico

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Lorenzo Cremonesi - Domenico Quirico
Titolo: «'Questa crisi riguarda tutti L'Italia e la Ue ci aiutino a ritrovare la democrazia' - L'Algeria, la Primavera di Tunisi e l'illusione dell'Islam democratico»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/07/2021, a pag.12, con il titolo 'Questa crisi riguarda tutti L'Italia e la Ue ci aiutino a ritrovare la democrazia' l'intervista di Lorenzo Cremonesi; dalla STAMPA, a pag. 20, con il titolo "L'Algeria, la Primavera di Tunisi e l'illusione dell'Islam democratico", il commento di Domenico Quirico.

Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi: 'Questa crisi riguarda tutti L'Italia e la Ue ci aiutino a ritrovare la democrazia'

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Lorenzo Cremonesi

Rashid Ghannushi - Wikipedia
Rashid Ghannouchi

Siamo tutti sulla stessa barca. Noi tunisini, l'Europa, in particolare voi italiani. Se in Tunisia non sarà ripristinata la democrazia al più presto, rapidamente scivoleremo nel caos. Potrà crescere il terrorismo, la destabilizzazione spingerà la gente a partire, in ogni modo. Oltre 500.000 migranti tunisini potrebbero cercare di raggiungere le coste italiane in tempi molto brevi». L'ottantenne Rashid Ghannouchi, leader del partito islamico Ennahda, è oggi al cuore della tempesta politica innescata domenica scorsa dal presidente Kais Saied con la scelta di dimettere il governo e congelare il parlamento per almeno 30 giorni. Appena dimesso dall'ospedale per curarsi dal Covid che Infesta l'intero Paese, le sue parole sono chiare e preoccupanti. Ieri l'abbiamo incontrato per quaranta minuti nel suo ufficio.

Come giudica la mossa del presidente Saied? «Rifiutiamo tutte le sue decisioni. Ha commesso errori gravissimi, un colpo di Stato, ha agito contro la costituzione. Un fuorilegge che vorrebbe riassumere in sé i tre poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario».

Cosa farete? «Resisteremo con tutti' mezzi pacifici e legali. Lotteremo per il ritorno della democrazia. Lui deve capire che il parlamento deve tornare al centro dei meccanismi decisionali dello Stato».

Ha contatti con lui? «Non ancora. Ma ci proverò. L'impasse può ancora venire risolta con il dialogo. In ogni caso, gli va detto che ogni suo governo o premier da lui designato deve essere legittimato dal parlamento attuale. Non c'è altra via».

Però sembra che il presidente sia molto popolare. La gente accusa Ennahda e gli altri partiti di essere corrotti e di avere causato la crisi economica e il fallimento sanitario contro il Covid. «Accuse senza fondamento. E stato lo stesso Saied a scegliere l'anno scorso Hichem Mechichi, il premier appena licenziato, noi non avevamo alcun ministro nel suo gabinetto. Abbiamo accettato di sostenerlo solo per evitare un vuoto di governo. Non abbiamo alcuna responsabilità nella gestione degli affari economici e nel collasso della sanità».

Come spiega la forte rabbia popolare contro di vol? «Non nego l'esistenza di questa rabbia. Disoccupazione e carovita avvelenano la coesistenza civile. I tunisini non sono contenti, è evidente. il Covid ha reso tutto più difficile. Ma qui' media e soprattutto i social hanno gravi responsabilità nel manipolare il risentimento. Un po' come è stato in Gran Bretagna con la Brexit e con il ruolo della disinformazione ispirata da Mosca per fare vincere Trump contro la signora Clinton. Saied si è imposto col suo populismo sfruttando il malcontento. L'opinione pubblica ha dimenticato che dal 2011 a oggi noi abbiamo guidato il governo solo dal 2012 al 2013, due anni su dieci. Eravamo riusciti a riportare la crescita economica a più 3%, oggi siamo a meno 8%, un crollo di u punti. La nostra popolarità resta alta, lo dimostra il fatto che almeno metà dei consiglieri municipali in tutto il Paese sono membri del nostro partito. Lo scorso 27 febbraio oltre 200.000 persone hanno sfilato a Tunisi in sostegno di Ennahda».

Vede un problema di violenza all'orizzonte? «Certo, se il colpo di Stato continuasse e se la polizia dovesse ricorrere a mezzi dittatoriali, compresi torture e assassinii, non lo escludo affatto. Noi faremo di tutto per evitarlo, ma non possiamo garantire che non avvenga. A quel punto tutto il bacino Mediterraneo ne sarà investito con gravi conseguenze. Francia e Italia si troveranno in prima fila a dover garantire la propria sicurezza anche per controllare il flusso crescente di migranti sui barconi».

Si spieghi meglio: tra Italia e Tunisia esistono accordi bilaterali sul rimpatri e i controlli dei migranti. Tutto db potrebbe saltare? «La Tunisia è il Paese del Mediterraneo meridionale con il maggior numero di migranti potenziali, anche più numerosi della Libia. A Roma sanno bene che siamo tutti sulla stessa barca: le difficoltà sono comuni, dobbiamo condividere le soluzioni. Ce lo insegna il passato recente. Nella settimana seguente la defenestrazione del regime di Ben Ali, nel gennaio 2011, oltre 30.000 tunisini s'imbarcarono con gli scafisti per l'Italia. Un fenomeno molto rapido, incontrollabile. Oggi potrebbero essere oltre mezzo milione, il malessere sociale acuisce il desiderio di partire. E parlo solo di tunisini. A loro si aggiungono i migranti dall'Africa subsaharlana, che hanno già libero accesso al nostro Paese. Se la nostra polizia cessasse di controllarli, il flusso sarebbe gigantesco».

Come può l'Italia cercare di intervenire? «Occorre che il vostro governo, assieme all'Europa, ci aiuti a restaurare la democrazia e la nostra sovranità. Avete gli strumenti per farlo. Servono le vostre pressioni diplomatiche sul presidente Saied e sul suo entourage. Tutti assieme dobbiamo assolutamente impedire che l'anarchia e la violenza investano la Tunisia».

La Stampa - Domenico Quirico: "L'Algeria, la Primavera di Tunisi e l'illusione dell'Islam democratico"

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Domenico Quirico

Dove era la seduzione, ahimè unica, del modello Tunisia? Nel fatto che era, da dieci anni, l'unico luogo in cui la politica araba sembrava aver scoperto una uscita di sicurezza al bivio tra autoritarismo e moschea. La tenaglia che ha strangolato la loro Storia con il laccio di dittatura o islamismo, feroce doppio principio idolatrico di autorità assoluta, veniva messa da parte: eccola la Terza via, la democrazia con i contrappesi, le verità (e gli interessi) alternative ma non definitive. Sbriciolatosi di fronte all'indignazione della piazza rivoluzionaria nel 2011 la spregevole tirannia di Ben Ali, versione grottesca e brutale del solito rais acchiappatutto, si apriva il gioco dei partiti, delle maggioranze e delle minoranze: in cui anche gli islamisti assolti da ogni peccato totalitario potevano far sbocciare idee giuste e diventare islamisti di buona fede. A cui conveniva partecipare piuttosto che esercitarsi nella pratica di imporre ai renitenti l'obbligatorietà dell'essere santi e ristabilire il giusto ordine delle cose marmorizzato dalla legge di Dio. In fondo, confessiamolo, abbiamo creduto alla possibilità di un miracolo. Nessun talismano invece. Cosa è andato storto? Primo errore: a Tunisi i democratici, i laici, i modernizzatori non erano niente. Un pugno di politicanti incapaci mossi solo da una rudimentale avidità appoggiata su grossolani sofismi o intellettuali parolai pronti a vendersi come coscienza della nazione. La politica come eterna e monotona arma di difesa dei propri privilegi e interessi con i suoi notabili, i suoi profittatori, gli innumerevoli parassiti, il sistema Ben All in fondo. Sembrava che i tunisini se ne fossero liberati con la epopea di Primavera. Ma se il vento porta lontano l'odore di selvaggina, le vecchie volpi son pronte ad alzare il muso. La rivolta era diventata potere. Il vizio assurdo di questo tentativo di democrazia era un altro: la presenza di un partito islamista, Ennahda. E l'irrisolto problema che la tragedia algerina ha posto trent'anni fa quando per la prima volta l'islam politico ha tentato di conquistare uno Stato usando i mezzi della democrazia, ovvero il voto. Il Fronte islamico di Abbassi Madani va all'arrembaggio del potere utilizzando i comizi, la propaganda occidentale e le prediche del venerdì, dispone di mezzi economici ingenti che distribuisce nel vasto sottoproletariato dei miserabili algerini. Non rinuncia certo ai discorsi incendiari, alle intimidazioni fanatiche degli "afghani" per far piegar la testa al mondo degli apostati e dei tiepidi. Ma lo fa dietro le quinte, negando con l'ipocrisia che è il vero talento tattico dell'islam politico. In un mondo la cui sola realtà sono i miracoli sperati, nessun partito può far presa se non l'islamismo, e i populismi, che si nutrono di parole sante, di annunci escatologici, di falsi miracoli. La mitologia democratica è troppo razionale, troppo concreta, troppo possibile, troppo legata a un mondo ordinato e regolato per far presa sulle plebi algerine e tunisine uscite da decenni di malgoverno del partito unico o con un tasso di disoccupazione del 16%. I partiti islamici nel mondo sunnita giocano su due tavoli: praticano il vecchio entrismo opportunista, usare la democrazia per occupare posti chiave nell'economia, nel le istituzioni, nella comunicazione, nell'esercito e negli apparati di sicurezza. Le loro casse sono piene, gli emiri del petrolio foraggiano a piene mani sedi, propaganda, militanti, assistenzialismo. Si diventa, in Algeria in Egitto, in Tunisia, maggioranza. Ma questo non basta agli incalliti mestatori. C'è un altro partito occulto sotterraneo che essendo al potere si può nascondere efficacemente, che mantiene i rapporti con i movimenti islamisti dediti ai metodi violenti, alla lotta armata. Per cui arruolano e a cui inviano con perfetta efficienza, per esempio, le migliaia di aspiranti martiri tunisini delle brigate internazionali islamiche siriane. Un apparato di sicurezza privato, occulto che risponde al partito, raccoglie dossier, elimina avversari, arruola e corrompe. Pronta alla sbrigativa efficienza totalitaria. I partiti islamici possono essere veramente democratici se non per tattica e a parole? La risposta è negativa perché tutti, anche quelli "moderati" a cui facciamo, in tempi di pusillanimità, le fusa sperando di addomesticarli, devono per loro natura costruire una società totalitaria. È un dovere liturgico. La democrazia è difficile e nasce dagli errori, richiede il coraggio di non riconoscere mai nulla per acquisito ma di metter tutto ogni volta alla prova. Ma si può mettere alla prova Dio? Ecco che allora entra in scena in Tunisia, con il presidente Saied, l'eterna trappola dell'alternativa autoritaria, sospendere la democrazia, usare metodi spicci per ripulire gli angolini da politici corrotti e islamisti infidi. In paesi dove l'esercito è padrone della economia come Egitto e Algeria si procede direttamente uscendo dalle caserme per «salvare la nazione». In Tunisia l'esercito è minuscolo, ma con un atto di neutralismo nel 2011, rifiutando di scendere in strada per spazzar via i dimostranti, ha fatto cadere Ben Ali, i cui pretoriani erano semmai gli sbirri e i Servizi. Non a caso tra gli epurati da Saied ci sono anche alcuni militari: quelli troppo vicini a Ennahda. L'aspirante rais Saied offre, sciaguratamente, al partito islamico una nuova, grande occasione: presentarsi come scudo della democrazia a cui devono accodarsi, per necessità, anche i tunisini che ne rifiutano l'ipocrisia e il doppiogiochismo. Ma c'è di peggio: può spingerli a passare alla lotta violenta come accadde in Algeria. I cinquemila legionari siriani non sono scomparsi nel nulla.

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