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il Giornale - La Repubblica - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
31.08.2010 Il regime iraniano attacca chi manifesta per Sakineh
Carla Bruni definita 'prostituta'. Cronache e commenti di Fiamma Nirenstein, Rosalba Castelletti, Giuseppina Manin, Giulio Meotti, Tatiana Boutourline

Testata:il Giornale - La Repubblica - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein - Rosalba Castelletti - Giuseppina Manin - Giulio Meotti - Tatiana Boutourline
Titolo: «Zitti, parla Teheran. Insulti alla Bruni e nessuno s’indigna - Saviano: Nessuno tocchi Sakineh - Il mio Iran come una grande prigione - Lettera scarlatta a Teheran. Un destino di morte accomuna Sakineh e Ahari»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 31/08/2010, a pag. 1.12, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Zitti, parla Teheran. Insulti alla Bruni e nessuno s’indigna ". Da REPUBBLICA, a pag. 14, l'articolo di Rosalba Castelletti dal titolo " Saviano: Nessuno tocchi Sakineh ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'intervista di Giuseppina Manin al regista iraniano Jafar Panahi dal titolo " Il mio Iran come una grande prigione ". Dal FOGLIO, a pag. I, gli articoli di Tatiana Boutourline e Giulio Meotti titolati "Lo chiamavano bocca di rosa " e " Lettera scarlatta a Teheran. Un destino di morte accomuna Sakineh e Ahari  ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Zitti, parla Teheran. Insulti alla Bruni e nessuno s’indigna "


Fiamma Nirenstein

In altri tempi sarebbe stata una dichiarazione di guerra: non si è mai dato di prostituta alla moglie di un re, di un primo ministro o un presidente di un Paese straniero, e nemmeno all’anima gemella di un qualsiasi uomo di onore senza che, nella storia e nella letteratura, questo creasse reazioni di sdegno popolare, diplomatico, ritiro di ambasciatori, duelli, cazzotti…
Invece Carla Bruni, per aver difeso la vita di Sakineh Mohammadi Ashtian, la donna iraniana condannata alla lapidazione, dicendo che «la Francia non abbandonerà la signora Mohammadi Ashtiani madre di famiglia di 43 anni» si è vista trattare da «prostituta» prima da un giornale conservatore di Teheran, Kayhan, poi da un sito internet vicino al governo, e infine dalla televisione iraniana, senza nessuna reazione significativa, né diplomatica, né personale.
Eppure i ripugnanti testi dicono che la Bruni, e anche la famosa attrice Isabelle Adjani, hanno una comprovata fama di prostitute, e che per questa vicinanza morale difendono Sakineh, una delinquente licenziosa come loro. Il duello è in vista? No, non si muove nulla, nessun intellettuale, ministro, governo, nessun funzionario dell’Unione europea. Eppure, guardiamo che le dicono: la first lady francese sarebbe «una attrice e una cantante depravata che è riuscita a disgregare la famiglia Sarkozy e a sposare il presidente francese» e che «gli antecedenti mostrano chiaramente perché questa donna immorale abbia dato il suo sostegno a una donna condannata per aver commesso adulterio e accusata (accusa aggiunta dal tribunale a quella originale quando la critica internazionale si era fatta insostenibile, ndr) di aver preso parte all’omicidio del marito». Insomma, in una parola, ma una parola islamista, la signora Sarkozy, secondo i media iraniani essendo come Sakineh una prostituta, altro non è che una donna che merita la lapidazione. È una fatwa sessuale. Non soltanto gli è dato di prostituta, ma è anche indicata, in base al ragionamento e alla logica religiosa che accompagna l’accusa, come una persona che merita la morte.
Più in grande: tutte le donne che difendono oggi l’iraniana Sakineh sono spinte da un istinto perverso e lascivo, sono prostitute da lapidare. A questo punto, inghiottire le accuse a Carla Bruni è evidentemente un pericolo e un’umiliazione per tutte le donne. Vorremmo che ci fossero durissime reazioni anche ufficiali in difesa della signora Bruni-Sarkozy contro la feroce, pericolosa volgarità iraniana, sempre più contagiosa nel discorso internazionale in cui ormai il mondo islamista estremo va in giro minacciando di morte i suoi supposti nemici, in cui ogni discorso interreligioso è abolito dall’imperialismo della sharia (prima Osama bin Laden che dichiara guerra ai «crociati e agli ebrei», poi il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che invita il presidente degli Stati Uniti a convertirsi, adesso il colonnello Muammar Gheddafi in visita in Italia che vuole rendere islamica l’Europa, tutto con sguaiata aggressività): la first lady francese ha tutto il diritto, come lo abbiamo tutti noi, a ritenere che la lapidazione sia parte di una barbarie che rifiutiamo, ha diritto, ed è anzi coraggioso da parte sua in quanto moglie di un presidente, di cercare di salvare Sakineh.
È la solita paura di un ignoto aggressivo, irrazionale, imprevedibile, ciò che impedisce di spiegare con determinazione all’Iran che non deve osare attaccare così la Francia che la signora Carla Bruni la rappresenta in quanto first lady. Non abbiamo lasciato, alla fine, che l’Iran entrasse a far parte, con tutto quello che fa alle donne, della Commissione delle Nazioni Unite per la condizione delle donne? Che la Bruni piaccia di più o di meno, essa è una di noi, è in tutto occidentale, con la gonna corta, il lavoro di cantante, i suoi passati fidanzati, la sua passione evidente per la libertà.
Tutto questo non ha nulla a che fare con la moralità: ha invece moltissimo a che fare con la decenza di combattere per salvare l’iraniana Sakineh dalla lapidazione.
www.fiammanirenstein.com

La REPUBBLICA - Rosalba Castelletti : " Saviano: Nessuno tocchi Sakineh"


Roberto Saviano

ROMA - Anche Roberto Saviano si unisce alla mobilitazione internazionale per la liberazione di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana di 43 anni, madre di due figli, condannata alla lapidazione per adulterio e complicità nell´omicidio del figlio. «Lapidarla significherebbe lanciare un sasso contro ogni donna», denuncia lo scrittore, auspicando che siano «in molti, e determinanti, nel dire, nel pretendere: "Nessuno levi la mano contro Sakineh"».
L´autore di Gomorra unisce così la sua voce a quella dei tanti politici, artisti e intellettuali che stanno aderendo all´iniziativa "Lettera a Sakineh" lanciata dalle testate francesi Libération, La Règle du Jeu ed Elle, a cui si è associata anche Repubblica. A indirizzare messaggi di solidarietà alla donna iraniana nei giorni scorsi erano stati anche la première dame francese Carla Bruni, le attrici e cantanti francesi Charlotte Gainsbourg e Isabelle Adjani, il medico italiano Umberto Veronesi e il filosofo e scrittore spagnolo Fernando Savater. Nomi e cognomi che si vanno a sommare alle migliaia di adesioni agli appelli per la liberazione di Sakineh: oltre 220mila le firme raccolte dalla petizione internazionale Freesakineh.org e poco sotto quota 80mila gli italiani che sino a ieri sera avevano sottoscritto sul sito Repubblica.it l´appello di quindici intellettuali francesi a «mettere fine a questo tipo di procedure oltre che a queste punizioni inique e barbare». E solo ieri a schierarsi in Italia per la liberazione di Sakineh erano anche il ministro degli Esteri Franco Frattini, la regione Lazio e la Cgil.
Una mobilitazione che Teheran non vede di buon occhio tanto che sulla stampa iraniana si moltiplicano gli attacchi contro le donne illustri che sinora hanno preso le difese dell´iraniana incarcerata a Tabriz, nell´Azerbaijan iraniano. A subire gli strali più feroci Carla Bruni. «Immorale» l´ha definita ieri il sito Internet dell´agenzia di stampa governativa iraniana, Iran newspaper on network, commentando un articolo pubblicato sabato dal quotidiano ultra conservatore Kayan che aveva chiamato la moglie del presidente francese Nicolas Sarkozy «prostituta». «I media occidentali, nell´esporre i suoi numerosi precedenti d´immoralità, hanno implicitamente confermato che merita questo titolo», si leggeva ieri sul sito inn.ir, che denunciava anche l´intervento della «corrotta attrice Adjani». «Gli eccessi di un giornalista o di un giornale non rappresentano l´opinione del governo né del popolo iraniano», precisava però sempre ieri il sito Internet conservatore Asriran. Una presa di posizione contro corrente che fa ancora sperare per la vita di Sakineh che, dalla cella dov´è rinchiusa insieme ad altre 25 adultere, attende che la magistratura iraniana annunci la sentenza definitiva sul suo caso.

CORRIERE della SERA - Giuseppina Manin : " Il mio Iran come una grande prigione "


Jafar Panahi

«Sto aspettando il visto, non so ancora se ce la farò ad arrivare. Sono nove mesi che mi hanno tolto il passaporto. I giorni passano, ma non dispero. Nonostante tutto ero e resto ottimista». Da Teheran Jafar Panahi, 50 anni, regista iraniano Leone d’oro nel 2000 alla Mostra del Cinema per «Il Cerchio», Orso d’argento a Berlino nel 2006 per «Offside», parla per la prima volta dopo il lungo silenzio a cui l’ha costretto il regime. Arrestato lo scorso 2 marzo per aver partecipato ai movimenti di protesta dell’Onda Verde, rilasciato 83 giorni dopo, il 24 maggio, a seguito di una mobilitazione internazionale. Colloquiare con lui non è facile, Panahi parla solo farsi, domande e risposte passano attraverso un’interprete di fiducia, Ella Mohammadi. Il momento è delicato. Sono le ultime ore buone per arrivare in tempo a Venezia dove domani sarà presentato in anteprima mondiale il suo nuovo film, «The Accordion» (La fisarmonica) prodotto da ART for The World all’interno del progetto «Then and Now, Beyond Borders and Differences» sulla tolleranza tra culture, evento d’apertura delle Giornate degli Autori/Venice Days. E il giorno dopo incontro pubblico con Panahi, il regista Mazdak Taebi, la produttrice Adelina von Furstenberg. E forse a sorpresa, Abbas Kiarostami.

Allo scorso Festival di Cannes la sua sedia di giurato è rimasta per tutto il tempo vuota. Durante la conferenza stampa di «Copia conforme» Abbas Kiarostami, di cui lei è stato assistente, ha pubblicamente sollevato il suo caso. Mentre Juliette Binoche si è commossa fino alle lacrime...

«Tutto questo ha avuto una vasta risonanza in Iran. Io in quei giorni ero in prigione, e in prigione non arrivano né i giornali né la tv. L’ho saputo solo dopo, quando mi hanno rilasciato. Come ho saputo che, anche nel mio stesso Paese, nonostante i mille problemi, molti intellettuali hanno preso posizione in mio favore».

Fatto sta che lei è stato liberato proprio il giorno dopo la chiusura di Cannes, che ha funzionato da detonatore mediatico...

«L’elenco di chi ha firmato l’appello per la mia liberazione è stato davvero lungo. Ho capito cosa vuol dire far parte della grande famiglia del cinema mondiale. Quando uno di noi si trova in difficoltà, il problema diventa comune. Voglio ringraziare tutti. I registi, gli attori, gli amanti del cinema. Ovunque si trovino sul pianeta: grazie di cuore».

Lei torna al cinema con un piccolo film di otto minuti. Una storia tenera quanto emblematica: due fratelli, un ragazzo e una bambina suonatori ambulanti in un suk, lui con la fisarmonica, lei con il tamburello. Ma quando sconfinano nello spazio di una moschea, la fisarmonica viene strappata di mano da un integralista che condanna la musica nei luoghi sacri. Quando l’ha girato? Come ha scelto questa storia?

«L’ho girato prima di venir arrestato, a Shiraz, nel cuore dell’Iran. La storia è tratta da un racconto che avevo letto tanto tempo fa, quand’ero ragazzo. Mi era rimasto sempre in mente, anche per la sua conclusione violenta. Ho voluto riprenderlo ma con un finale diverso. Tenendo conto dell’attuale situazione in Iran, ho scelto quella che per me è l’unica possibile strada: la non violenza. Il senso del mio piccolo film sta tutto lì».

L’uomo che sequestra la fisarmonica per ragioni d’ordine reli-

gioso, in realtà si rivela un ladro.

«Non lo condanno. Nei miei film non ci sono buoni o cattivi in assoluto. Sono le condizioni sociali che spingono le persone ad agire in un certo modo. Più che motivi religiosi spesso è la necessità economica a costringere la gente a comportamenti discutibili».

La bambina spegne la voglia di v endetta del f r at el l o di c endo: quello è più povero di noi. Si tratta di una guerra tra poveri?

«Non intesa in senso strettamente sociale. Guerre del genere esistono in ogni classe. Quel che conta è andare alle radici dei problemi».

Il fatto che sia una giovane donna a suggerire una soluzione pacifica è indicativo di quello che può essere il ruolo femminile nel suo Paese?

«Non amo le classificazioni, mi interessa analizzare gli ostacoli e le privazioni che vengono imposti alle persone e i loro sforzi per poterli superare con intelligenza e saggezza. E’ ovvio però che le donne, essendo più soggette a queste limitazioni, si diano più da fare per trovare soluzioni adeguate».

Durante la sua detenzione ha avuto paura?

«Tutti gli esseri umani hanno paura. Non si può non averne in certe circostanze. Sono cinque anni che non ho il permesso di girare un film. E per un regista la vita ha senso solo se può fare il suo lavoro. Se ti viene impedito, allora è come stare in pr i gi one. Una pr i gi one pi ù grande, ma non fa differenza. Nonostante ciò, amo il mio Paese e spero di poter in futuro tornare dietro la macchina da presa. Le idee certo non mi mancano. Finché c’è vita, c’è speranza».

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Lettera scarlatta a Teheran. Un destino di morte accomuna Sakineh e Ahari "


Giulio Meotti

Roma. Non potrebbero essere più diverse, Sakineh Ashtiani e Shiva Ahari. La prima è un’anonima ragazza iraniana condannata a morte perché colpevole di “adulterio”. La seconda è una celebre giornalista e attivista la cui persecuzione è iniziata quando ha acceso candele votive per le vittime dell’11 settembre. Con l’appello francese lanciato da Bernard- Henri Lévy, Sakineh è assurta a simbolo dell’ingiustizia iraniana. A favore di Ahari è appena intervenuto con un appello l’ex candidato repubblicano John Mc- Cain, mentre Amnesty International sta promuovendo una propria iniziativa: “Shiva Nazar Ahari è una prigioniera di coscienza, detenuta solo per il pacifico esercizio del suo diritto alla libertà di espressione”. Se la mobilitazione internazionale non avrà successo, Sakineh Ashtiani verrà sotterrata fino all’altezza del seno, con la testa coperta da un foulard, e colpita con tante pietre quante ce ne vorranno perché muoia. Da più di tre anni Sakineh è rinchiusa nel “reparto adultere” del carcere di Tabriz, in attesa di questo momento. Ahari sarà invece uccisa appesa a un’anonima gru e impiccata, se il processo che inizia il 4 settembre la riconoscerà colpevole di “mohareb”, la peggior offesa agli occhi di Allah, ovvero l’eresia, il deviazionismo religioso. “Spesso la notte, prima di addormentarmi, mi chiedo: ‘Ma come fanno a prepararsi a lanciarmi delle pietre, a mirare al mio viso e alle mie mani? Perché? Dite a tutto il mondo che ho paura di morire. Aiutatemi a restare viva e a poter di nuovo tenere i miei figli fra le braccia”: sono le parole disperate di Sakineh in un messaggio riferito per telefono da un’organizzazione per i diritti umani. Sono state lette a Parigi, dove in nome di Sakineh si è riversata per strada tanta gente come non si vedeva da tempo. Lo scrittore Daniel Salvatore Schiffer ha letto ad alta voce l’appello firmato da molti intellettuali francesi. Tra la folla anche lo scrittore Marek Halter, la pop star Bob Geldof, la storica Elisabeth Roudinesco e il filosofo Edgar Morin. Shiva Nazar Ahari nel 2001 venne arrestata per aver commemorato le vittime dell’attentato alle Torri Gemelle di New York. Nel giugno 2009 è stata fermata di nuovo durante le proteste contro Ahmadinejad. Rilasciata, è finita di nuovo in cella per aver pregato sulla tomba di Sohrab Arabi, uno degli studenti uccisi dai pasdaran durante le sommosse elettorali a Teheran. E le accuse a suo carico si sono aggravate quando è andata in pellegrinaggio sulla tomba dell’ayatollah dissidente Montazeri, da poco scomparso. Nel febbraio 2010, nel corso di una telefonata, Ahari ha raccontato alla famiglia di essere stata rinchiusa in una cella di isolamento, simile a una gabbia dove non può muovere né braccia né gambe. Shiva, una delle donne più coraggiose dell’Iran, è ora privata persino del possesso di carta e penna, e viene tenuta bendata. La madre le ha fatto arrivare una missiva bellissima che è un po’ la lettera scarlatta del regime iraniano: “Cara figlia, sembra che ormai sia diventato normale imprigionare le persone per crimini come la voglia di libertà e l’amore per gli esseri umani. Da sei mesi ti trovi in prigione per aver commesso questi due crimini. Come madre, io sono orgogliosa di te. Sei sempre stata la migliore e lo sei tuttora. E ora dal profondo del mio cuore vorrei gridare: ho tenuto Shiva sulle ginocchia, e se qualcuno merita di essere imprigionato allora quella sono io e non Shiva! Incatenate me, ma non mia figlia”.

Il FOGLIO - Tatiana Boutourline : " Lo chiamavano bocca di rosa  "


Mahmoud Ahmadinejad

E’opinione largamente condivisa che la diplomazia non sia una delle principali qualità di Mahmoud Ahmadinejad e chi lo ascolta sa che, nei suoi discorsi, la sorpresa è spesso dietro l’angolo. Ma il 2 agosto il presidente si è superato e la platea dapprima scossa da gridolini di stupore e imbarazzo si è infine sciolta in una risata sguaiata e liberatoria. Un’ilarità irresistibile determinata non tanto dal bersaglio dell’ironia di Ahmadinejad – il consueto Grande Satana – quanto dall’espressione scelta dal presidente per schernirlo. “Lui (Barack Obama) non ha colto molte opportunità che gli si sono presentate – ha esordito il presidente – ora (riferendosi a Wikileaks, ndr) pubblicano documenti secondo i quali la loro disfatta in Iraq e in Afghanistan è da imputarsi all’Iran e non si accorgono che così facendo innalzano il nostro status”. Ma addossare la colpa a Teheran – ha proseguito il presidente – è una tattica che non paga più. A questo punto la platea è pronta per una nuova spericolata invettiva. Una frase perentoria e minacciosa che vaticini il tramonto della civiltà occidentale e rinsaldi lo spauracchio delle magnifiche sorti nucleari della Repubblica islamica. Dopo una pausa sapientemente calibrata, l’attesa si dimostra tutt’altro che vana, ma dalla bocca di Ahmadinejad escono parole che è eufemistico definire irrituali. “Mameh-ro lulu bord” – ha detto – se gli sporchi giochi dell’America non sortiscono più alcun effetto è perché, letteralmente, “l’uomo nero si è preso la tetta” , una frase con cui le mamme negano il seno ai bimbi durante lo svezzamento, un’espressione gergale, inusitata e volgare sulle labbra di una delle massime cariche dello stato. Per capire lo sconcerto dell’uditorio di Ahmadinejad occorre tenere presente che tra il persiano forbito della letteratura e della filosofia e quello basso della strada si spalanca un abisso. Anche se la rivoluzione con la sua pretesa di spazzar via duemila anni di vestigia aristocratiche ha contribuito a livellare il linguaggio e il farsi odierno, rispetto a quello di trent’anni fa, è infarcito di espressioni che nell’ancien régime sarebbero state considerate sprezzantemente “dehati” (contadine), la cadenza di una parola e la scelta di una metafora piuttosto che di un’altra restano ancora un barometro della posizione sociale di chi le pronuncia. Del resto, in una cultura in cui gli eroi nazionali più riveriti non sono condottieri ma poeti, non c’è da stupirsi che anche i mullah non possano resistere alla tentazione di richiamare accanto ai passi del Corano i versi di Hafez, Rumi e Saadi. La retorica politica iraniana è circonvoluta, tradizionalmente infarcita di iperboli, rimandi sapienti alla storia e alla tradizione sciita. “Mameh-ro lulu bord”, una citazione che evoca plasticamente il seno in uno stato in cui le donne non possono scoprire nemmeno i capelli, è una frase che non può avere diritto di cittadinanza sulla bocca di un presidente della Repubblica islamica. Eppure Mahmoud Ahmadinejad non solo lo ha detto, ma ha rincarato la dose suggerendo agli Stati Uniti di “versare l’acqua dove c’è il bruciore”, un’espressione che allude “al sedere in fiamme” di chi si rode per l’umiliazione di una vergognosa sconfitta. Come era prevedibile la sortita del presidente ha fatto molto rumore. Una pagina di Facebook intitolata “vogliamo indietro la tetta portata via dall’uomo nero” ha attratto in pochi giorni più di 10 mila adesioni. I più conosciuti slogan rivoluzionari sono stati riveduti e corretti per introdurre la parola dello scandalo “mameh”. Una petizione canzonatoria che ha fatto il giro di tutte le scrivanie che contano ha reso noto che d’ora in poi la tv di stato manderà in onda gli interventi del presidente soltanto dopo la mezzanotte per essere certi che i bambini siano già a letto. La volgarità di Ahmadinejad è naturalmente divenuta il tema del giorno tra i suoi nemici. A capeggiare le fila dei detrattori il plenipotenziario alla Giustizia Sadegh Larijani, fratello del presidente del Parlamento e membro di uno dei più influenti clan clericali. “Come cittadino mi aspetto che la lingua adottata dal presidente sia matura e misurata”, ha sentenziato Larijani, rivelando di avere spesso invitato il presidente a conformarsi a un eloquio più consono. Ma le rimostranze dei rivali di Ahmadinejad – personaggi che “lo spazzino degli iraniani” non perde occasione di descrivere come tracotanti Soloni – erano scontate, difficile credere che il presidente non avesse presagito una reazione. C’è una buona ragione se Ahmadinejad si è esposto a vincere il trofeo di protagonista indiscusso delle barzellette più surreali di questa estate persiana, anche perché, come sottolinea Abbas Milani, direttore dell’Iranian Studies Program di Stanford, Ahmadinejad è meno naïf di quanto appaia. “A volte – dice Milani – usa il linguaggio di un mullah di campagna, in altre circostanze, per esempio a colloquio con dei teologi, cambia radicalmente registro. Ahmadinejad è stato un astuto osservatore dello stile di Khomeini e ha compreso che la comunicazione è uno strumento molto molto potente”. Nel video della campagna elettorale che nel 2005 lo presenta alla platea nazionale Ahmadinejad mostra i tratti del populismo scaltro che è croce e delizia della sua esperienza politica. Il futuro presidente è ritratto in una casa modesta con tappeti a buon mercato e pochi mobili di scarsa fattura. Alle immagini del parco ménage del candidato-pasdaran vengono contrapposte le istantanee della residenza fastosa dell’ex sindaco di Teheran Karbaschi, accusato di avere dilapidato centinaia di migliaia di dollari tra stucchi e specchiere del suo quartier generale. Dopo il trionfo elettorale Ahmadinejad si compiace di sottolineare la distanza che lo separa da Khatami. Lontananza estetica – di Khatami si ricorda la vezzosa predilezione per un abilissimo sarto di Qom, di Ahmadinejad il vestito dozzinale color cachi acquistato stando ai ben informati a Shams al Emareh – e lontananza geografica – Khatami riceveva nel palazzo di Sadabad, Ahmadinejad predilige l’anonimo compound sulla via Pasteur. Ma il mito della frugalità di Ahmadinejad nasce lontano da Teheran, per carpire l’intenzione dietro le parole del presidente bisogna inoltrarsi nel deserto salato di Dasht e Kavir e lambirne il limite settentrionale fino al villaggio di Aradan dove il presidente nacque 53 anni fa. A parte i grandi cartelloni che onorano i 338 “martiri” del distretto morti nella guerra Iran-Iraq, Aradan non è cambiata molto da quando il padre di Ahmadinejad caricò la macchina per tentare la fortuna a Teheran con la moglie e quattro dei suoi sette figli (il quarto era proprio Mahmoud). La casa che diede i natali al presidente iraniano oggi è un rudere di fango e mattoni dove si tirano su i polli. Gli Ahmadinejad tornano di rado soltanto in occasione di cerimonie di famiglia, ma ad Aradan i parenti rimasti vanno fieri del legame con il presidente. “Il padre di Mahmoud era un uomo molto devoto – ha raccontato il cugino Ali Agha Sabaghian – nonostante fosse analfabeta ogni anno in occasione del Ramadan guidava delle classi coraniche”. Anche gli Ahmadinejad allora si chiamavano Sabaghian, un cognome che significa “maestri-tintori” di tappeti e kilim. Secondo i familiari la transizione da Sabaghian ad Ahmadinejad fu determinata proprio dal desiderio di un nome più rispondente al fervore religioso della famiglia: Ahmadinejad vuol dire “della genia di Ahmadi”. Ahmadi è un cognome popolare che a sua volte deriva da Hamd, ossia “la lode di Dio”. Cambiare cognome per chi si spostava da un villaggio alla capitale era anche un modo per nascondere la modestia delle origini. “Sono nato in una famiglia povera – ha scritto Ahmadinejad sul suo blog – in un villaggio sperduto, in un tempo in cui ricchezza era sinonimo di dignità e vivere in città l’acme della sofisticazione”. Ad Aradan nel 2005 quasi tutta la cittadina votò per il celebre conterraneo e la sua vittoria elettorale fu celebrata con un trionfo di luci e festoni colorati. Tuttavia come racconta Kasra Naji nel suo “Ahmadinejad. The secret history of Iran’s radical leader” a un anno dal plebiscito i suoi poster erano già stati rimossi. Ad Aradan si erano stancati di aspettare l’acqua potabile che Ahmadinejad aveva promesso durante la campagna elettorale. Sono le promesse non mantenute di tutte le altre Aradan di Iran, il tallone d’Achille che sta erodendo come un cancro il potere di Ahmadinejad. Dal 2005 al 2009 il presidente ha girato il paese in lungo e in largo. Nella maggior parte dei luoghi che ha visitato ha invitato il pubblico a rivolgersi a lui direttamente. Serve un nuova diga? Un palazzetto dello sport? Un’università? Una palestra con strutture separate per maschi e femmine? Una volta nel corso di una tappa ripresa dalla tv, il presidente ha chiesto al governatore locale quale fosse il budget della sua città. Alla risposta del funzionario, Ahmadinejad ha garantito: “Può considerare il suo bilancio raddoppiato da oggi stesso!”. Il giornalista del Financial Times Najmeh Bozorgmehr, dopo avere accompagnato Ahmadinejad per lunghi tratti delle sue peregrinazioni, ha calcolato che soltanto nella tappa della provincia di Fars il presidente aveva assicurato contributi per oltre tre miliardi di dollari. Nessun esponente della Repubblica islamica si era mai dimostrato più sensibile ai bisogni delle province iraniane, Ahmadinejad è stato esaltato come il vendicatore degli ultimi, il primo presidente impermeabile alle tentacolari seduzioni di Teheran. Gli ambasciatori di Khatami erano suadenti imbonitori di un Iran ripulito e presentabile, che citava Popper e Kant, i collaboratori di Ahmadinejad non si sforzano di piacere agli stranieri, ricevono i giornalisti calzando sandali di gomma e parlano del Mahdi anche quando certe prospettive esoteriche mettono il governo in cattiva luce. Alla prova dei fatti però gli uomini dimessi hanno deluso l’Iran rurale quanto quelli imbevuti di sofisticherie occidentali. Ombre di nepotismo e corruzione sono tornate ad addensarsi sui palazzi del potere di Teheran e lo scarto tra le aspettative e la realtà ha sbalzato l’uomo della provvidenza giù dal suo piedistallo. Per difendere la propria leadership ad Ahmadinejad non resta che tornare alle origini, percorrendo a ritroso la strada intrapresa da suo padre. Essere meno Ahmadinejad e più Sabaghian. Meno mistico e più pratico. Incarnare l’ideale di un leader che parla come mangia e si fa beffe delle convenzioni quando le convenzioni non sono che rituali vuoti di senso. E così il campione del panislamismo militante, il presidente che alle Nazioni Unite si credeva illuminato dall’alone di luce del Mahdi, riscopre la libertà del virile bulletto di quartiere che, con la minaccia dei muscoli, intimidisce i prepotenti nei vicoli. E anche in alcuni iraniani piuttosto sofisticati alberga per un istante un briciolo di soddisfazione quando i politici di potenze straniere che hanno sempre trattato l’Iran come una pedina degli scacchi vengono apostrofati da Ahmadinejad come “bugiardi, quadrupedi e capre” . “Con lo stesso linguaggio criticato da Larijani – assicura il fedele Javanfekr – Ahmadinejad lotta da solo per i diritti degli iraniani”. Bisogna avere avuto a che fare con il tarof in Iran per percepire quanto possa essere affascinante l’idea di una vita dispensata dalla sua articolatissima etichetta. Il tarof è una babele di regole di buona educazione e ospitalità, un antico codice poetico che permette di evitare il rude scontro con la verità e al contempo un sottile gioco di potere, un esercizio di finta modestia e una manifestazione di orgoglio talmente esasperato da essere dissimulato in umiltà. L’Iran è un paese complicato in cui un tassista dopo averti portato a destinazione può insistere per cinque minuti che non vuole essere pagato, perché “ghabel nadare”, espressione che sta per “prego, vada ”, ma letteralmente significa anche “questo servizio non è degno di voi”. Ovviamente tu devi insistere e insistere, anche supplicare, finché il tassista con tono riluttante ti concede di pagare la corsa. In ogni famiglia iraniana si racconta di qualche forestiero poco versato nell’arte del tarof che finisce per uscire dal taxi senza pagare e dopo un’ora viene denunciato per furto alla polizia. A colloquio con un altro potente membro del clan Larijani, il brillante Javad Ardeshir, la decana del New York Times Elaine Sciolino gli domandò come mai il Parlamento non avesse mai diffuso le conclusioni della sua indagine sulle Bonyad, le fondazioni che reggono buona parte dell’economia iraniana. “C’è una realtà nascosta, un’ipocrisia che mantiene la pace”, le rispose Larijani. “Questo significa proteggere la dignità dell’altro. Gli architetti non costruiscono case di vetro in Iran. Se non parli di tutto apertamente, è meglio. Riuscire a mantenere un segreto, anche se per farlo devi trarre in inganno, è considerato un segno di maturità. E’ saggezza persiana. Non dobbiamo essere perfetti. Tutti mentono. Allora tanto vale essere dei buoni bugiardi”. Nessuno sa interpretare con più creatività l’arte del tarof del clero iraniano, ma si tratta di una reputazione che buona parte degli iraniani ritengono poco lusinghiera. L’Iran sta cambiando. Per i giovani il tarof è un’eredità scomoda, retaggio di una cultura patriarcale e autoritaria, per gli uomini d’affari un polveroso ingranaggio che rallenta l’economia. Chi arriva a Teheran da Los Angeles, la più iraniana delle città americane, si stupisce nel constatare che nella capitale ci si ribella ai modi antichi e che la dittatura del tarof è più potente in certe nostalgiche comunità della diaspora. Di converso lo show più amato e discusso su Voice of America è “Parazit”, un programma satirico in cui il conduttore Kambiz Hosseini – descritto come la risposta iraniana a Jon Stewart – fa domande impensabili per un iraniano di buona creanza. Pretende di sapere dal suo direttore se è un agente in sonno della Repubblica islamica, chiede ad Arsham Parsi, attivista iraniano per i diritti omosessuali, se è proprio il momento di insistere con le loro rivendicazioni, cerca di far confessare all’ex anchorwoman della Cnn Rudi Bakhtiar che in un’occasione è stata morbida verso Ahmadinejad nella speranza di poter continuare a viaggiare liberamente in Iran. “La chiamano satira. Spesso diciamo solo quello che ci detta il buonsenso, ma la verità spaventa meno quando si traveste da buffonata. Il massimo sarebbe trasmettere il nostro spettacolo in diretta da Teheran. Ma quello – dice Hosseini – sarebbe un altro Iran”. A Teheran il presidente può fare a meno del tarof, ma gli iraniani ancora no. Ci sono limiti alla sincerità che può tollerare il nuovo Ahmadinejad-Sabaghian.

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