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Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/10/20009, a pag. 33, l'articolo di Lietta Tornabuoni dal titolo " Sotto il burqa niente ". Lietta Tornabuoni mette sullo stesso piano una donna col burqa a una che viaggia in moto col casco. Il parallelo non regge dal momento che il casco è una misura di protezione obbligatoria e che, una volta scesi dalla moto, è vietato tenerlo in testa (proprio perchè, come il burqa, rende irriconoscibili e non identificabili ). La donna col burqa è discriminata e obbligata dal marito a portarlo. Non è un capo di vestiario folkloristico. E' un simbolo di segregazione, discriminazione e non integrazione. All'articolo di Tornabuoni rispondiamo riportando quello di Filippo Facci dal titolo " Neppure il Corano prescrive il burqa ", pubblicato su LIBERO a pag. 1-17. Ecco i due articoli: La STAMPA - Lietta Tornabuoni : " Sotto il burqa niente " Una donna con il burqa e una col casco. Quale delle due è discriminata? Bisognerà arrestare anche i motociclisti rispettosi delle regole, con il casco che nasconde la faccia e che non di rado viene usato come copertura nel corso di rapine o altri reati, che negli anni del terrorismo proprio per questo era proibito? Dovranno scattare le manette pure per chi porta la mascherina bianca temendo di venir contagiato dell’influenza suina, per i poliziotti in assetto da scontro con la visiera calata, per gli operai che si riparano da fuoco e scintille, per i lavoratori della nettezza urbana che si difendono dai miasmi, per le signore con cappello e veletta fitta? LIBERO - Filippo Facci : " Neppure il Corano prescrive il burqa " Donna col burqa Vietare il burqa è di destra, di sinistra, di centro e di buon senso. La proposta della parlamentare del PdL Suad Sbai, fatta vigorosamente propria anche dalla Lega, in Francia per esempio è una bandiera femminista: da noi no, da noi l’opposizione parla di intolleranza, di «diritti religiosi violati» oppure presenta una legge - alla commissione Affari costituzionali del Senato - che ammette il burqa «a condizione che il volto sia riconoscibile», con ciò dimenticando che, nel caso, non sarebbe più un burqa ma uno hijab, al amira, shayla, chador: tutta roba cui nessuno si oppone. Il burqa è un’altra cosa, è un’opprimente prigione ambulante - di colore blu, se tipicamente afghano - che copre tutto il corpo e annulla ogni percezione di forma. Un fantasma. La legge per vietarlo ci sarebbe già, ma l’interpretazione l’ha superata: la n. 152 del 1975, norma anti-terrorismo secondo la quale è vietato comparire mascherati in un luogo pubblico, viene definita inapplicabile giusto nei casi delle musulmane che abbiano «giustificato motivo». È il giustificato motivo a fare la differenza: se un tizio che passeggi in Via Condotti con un casco integrale ha il giustificato motivo di essere probabilmente un cretino, una donna musulmana che indossi il velo, volente o costretta che sia, i motivi religiosi o culturali li ha ufficialmente tutti. La giurisprudenza, più volte, ha sollecitato una precisa legge in materia: ma non si è mai fatta. Ora si propongono due soli articoli che modifichino la legge del 1975: il «giustificato motivo» verrebbe in sostanza eliminato e si ipotizza l’arresto per flagranza, due anni di carcere e multe varie. La radicale Emma Bonino applaude («burqa e nikab violano il concetto della piena assunzione della responsabilità individuale») mentre Donatella Ferranti del Partito democratico sostiene che una norma del genere lederebbe la libertà religiosa, come detto. E qui sta il primo, clamoroso equivoco culturale. La religione islamica, infatti, non prevede nessuna copertura tipo burqa: quella cristiana, paradossalmente, sì. La storia è interessante. Era l’inizio del 1900 quando Habubullah Khan, grande emiro dell’Afghanistan, impose alle duecento donne del suo harem una speciale copertura che scongiurasse ogni tentazione maschile che non fosse la sua. Più in generale, fuori dalla residenza reale, le donne dell’emiro non dovevano neppure essere guardate: e nacque il burqa, inquietante copertura che da principio contraddistinse le donne di alto ceto. Ma di religioso, appunto, non c’era nulla. Il Corano non ne parla, anzi, quando genericamente affronta l’argomento - al verso 59 della sura XXXIII - dice che le donne devono essere riconosciute come è possibile fare con tutte le coperture islamiche tranne una, o una e mezza: col burqa, appunto, e assai spesso col niqab, che serve a velare il volto lasciando scoperti solo gli occhi. Nel tempo, tuttavia, il burqa si diffuse in tutto l’Afghanistan: e mentre i ceti elevati lo abbandonavano, quelli poveri lo facevano loro. Sembrava dovesse sparire nel 1961, in Afghanistan, nel 196, che una legge ne aveva vietato l’uso alle dipendenti pubbliche: ma poi ci fu la guerra civile e il regime teocratico dei talebani giunse progressivamente a vietare a ogni donna di mostrare il volto. Il burqa divenne una regola che oggi resta discretamente rispettata anche in Iran, in parte della Palestina, del Libano, della Georgia, dello Yemen, dell’Arabia Saudita - nell’entroterra meno acculturato - e in generale dove ci sono musulmani sciiti. Difficilmente vedrete un burqa in Egitto, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Indonesia o India. Se uno stesse fedelmente al Vangelo, invece, potrebbe rifarsi alla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi: «Ogni donna che prega senza velo sul capo manca di riguardo al proprio capo... Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza». Va da sé, tuttavia, che una differenza tra islamismo e cattolicesimo sta proprio nel come le due religioni si rapportano ai testi sacri. L’Islam è sdraiato su un’interpretazione fedele del Corano da 1300 anni - ma nel Corano, come visto, di burqa neppure si parla - mentre il cattolicesimo si è invece evoluto tra concili ed encicliche e secolarizzazioni varie. Il risultato è che la Chiesa cattolica non discrimina tra uomini e donne (oggi) e che la veletta in testa (oggi) al limite la mette vostra nonna se è meridionale. Un certo Islam, invece, tra burqa e niqab, è una macchina del tempo puntata sul Medioevo che ora si pretende di importare in Occidente, simbolo più appariscente di altre e più nascoste segregazioni femminili. Anche per questo il burqa va vietato: perché è l’aspetto più allucinante di una separatezza culturale che è solo il travestimento di una separatezza delle regole, quelle che gravano su tutti gli altri, quelle che si è costretti a rispettare e che talvolta si è addirittura orgogliosi di avere. Per inviare la propria opinione a Stampa e Libero, cliccare sulle e-mail sottostanti lettere@lastampa.it segreteria@libero-news.eu |
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