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Libero - Corriere della Sera - L'Unità Rassegna Stampa
22.09.2009 Bibi e Abu Mazen da Obama
Analisi di Angelo Pezzana, Francesco Battistini.

Testata:Libero - Corriere della Sera - L'Unità
Autore: Angelo Pezzana - Francesco Battistini - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Barack penalizza Israele e minaccia la pace- Israele e la mappa delle colonie - Ci fidiamo di Obama. Deve strappare lo stop alle colonie israeliane»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 22/09/2009, a pag. 21, l'articolo di Angelo Pezzana dal titolo " Barack penalizza Israele e minaccia la pace ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 9, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Israele e la mappa delle colonie ", preceduto dal nostro commento. Segue, inoltre, un breve commento all'intervista di Umberto De Giovannangeli a Saed Erekat dal titolo " Ci fidiamo di Obama. Deve strappare lo stop alle colonie israeliane " pubblicata sull'UNITA' di oggi, che non riportiamo. Ecco gli articoli:

LIBERO - Angelo Pezzana : " Barack penalizza Israele e minaccia la pace"


Barack Obama con Netanyahu e con Abu Mazen

E’ difficile che dall’incontro tra Barack Obama con Bibi Netanyahu e Abu Mazen possa uscirne qualcosa che assomigli alle speranze proclamate dal presidente americano. Dopo otto mesi di Casa Bianca, anche sul versante mediorientale il segnale è negativo, come è stato confermato dai colloqui dell’inviato in M.O. Mitchell. L’inesperienza di Obama brilla ancora di più se paragonata alle buone intenzioni di Bush e Clinton, che saranno state solo tali e non avranno prodotto risultati, ma almeno consideravano Israele un paese amico oltre che alleato. Questa considerazione è finita con l’arrivo di Obama, che applica allo Stato ebraico lo stesso trattamento che riserva ai governi democratici, anche loro fedeli alleati, dell’Europa orientale o alle repubbliche ex sovietiche liberatesi dal giogo comunista. Mentre di tutt’altra natura sono i rapporti instaurati con gli stati dittatoriali. La lista è lunga, dalla Corea del Nord, all’Iran, Cuba, Siria, per bene che vada la sua è una politica del sorriso e della mano aperta, in attesa che arrivi, in cambio, un mutamento di rotta. Una politica che finora gli ha procurato solo brutte figure e nessun successo. L’esempio di Israele è illuminante. Invece di rendersi conto che i problemi che hanno determinato il conflitto con i palestinesi sono risolvibili soltanto con una decisione salomonica, Obama continua ad aggirarne la soluzione con richieste che Israele non potrà mai soddisfare, stante l’obiettivo della controparte che è sempre il medesimo. Come notava Benny Morris, sul Guardian dell’ 11/9, l’obiettivo dell’OLP è ancora quello scritto nel suo atto costitutivo degli anni ’60, e cioè la distruzione di Israele. E vero che decenni di negoziati ci hanno abituato a considerare i contendenti come se fossero equivalenti, ma così non è. Gli stati arabi, e i palestinesi per loro conto dopo, hanno in sessanta anni cercato di cancellare lo Stato ebraico dalle carte geografiche, sempre regolarmente sconfitti. Questo risultato avrebbe dovuto produrre un solo e unico ragionamento, ragazzi, accontentatevi di quello che vi verrà dato, come capita a tutti coloro che vengono sconfitti in guerre che hanno scatenato. No, con i palestinesi, anche da parte di Israele, è sempre stato usato il guanto di velluto, dentro al quale non c’era nessun pugno di ferro. Prima Arafat, poi Abu Mazen, si sono visti offrire praticamente tutto quello che chiedevano, tranne il ritorno di quelli che vengono ancora chiamati “profughi”, il cui arrivo avrebbe cancellato la natura ebraica dello Stato, decretandone la fine. Eppure, ciò malgrado, il rifiuto continua ad essere il leit motiv della loro politica. Viene giudicato persino ragionevole discutere della possibilità che Gerusalemme diventi capitale di due stati, una proposta che verrebbe rifiutata da qualunque stato che la ricevesse. Ma per Israele, il ragionamento non vale, Obama ha persino sottoscritto il divieto per il governo israeliano di costruire sul suo territorio nazionale, con un ragionamento, questo sì, da stato coloniale che detta gli ordini ad una sua provincia. Fra queste acque mobili, Bibi si sta muovendo con abilità, il suo approccio è di apertura, due passi avanti e uno indietro, sa troppo bene quanto l’alleato americano sia importante per Israele, e poi Obama non è eterno, in Israele il suo consenso è sotto al 3 %, e pure in casa i sondaggi lo danno in forte calo. Prima o poi qualcuno gli farà notare che la sua politica attrae consensi fra i nemici degli Stati uniti solo perchè maltratta gli alleati, qualcuno poi gli chiederà come mai non ha preteso da Abu Mazen una spiegazione logica del rifiuto a considerare Israele uno stato ebraico, e pure perchè nell’ultimo congresso dell’Anp ha riservato accoglienze trionfanti agli autori degli orrendi massacri di civili israeliani, applauditi addirittura con ovazioni da dei rappresentanti palestinesi che il giorno dopo ci sono stati descritti quali ardenti desiderosi di pace. Obama vuole costruire ponti, ma non si chiede chi li attraverserà. Non si capisce perchè Israele debba partecipare, addirittura consenziente, alla creazione di uno stato che, a queste condizioni, potrebbe realizzare quello che è stato finora il sogno palestinese. Non la costruzione di un loro stato, ma la distruzione di un altro. Obama può anche essere in buona fede quando si augura la pace, ma è ora che si svegli, dica chiaramente quale progetto ha in mente, e Israele giudicherà se è accettabile. Prima, nulla che metta in pericolo la sua sicurezza.

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Israele e la mappa delle colonie "

Alcune precisazioni sul pezzo di Battistini. Contrariamente a quanto scrive, tutti gli insediamenti illegali, quando scoperti, vengono smantellati.
Battistini scrive : " Peraltro, proprio a Gerusalemme Est, dopo Annapolis sono aumentate le co­struzioni nei quartieri orientali ebraici (750 nuovi progetti) e le demolizioni delle case palestinesi «abusive»". Non comprendiamo l'utilizzo delle virgolette con la parola abusive. Le case demolite lo erano e, come in ogni paese civile, gli edifici abusivi vanno demoliti per legge, a prescindere dall'etnia del proprietario e del costruttore.
Per quanto riguarda il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, definito "
la pietra tomba­le sul diritto al ritorno dei profu­ghi del 1948", Battistini sa bene che è vero il contrario. E' diritto al ritorno dei profughi del 1948 ad essere la pietra tombale sullo Stato israeliano. Ecco l'articolo:

GERUSALEMME — L’ultima (e unica) volta in cui Netanyahu an­dò da Obama a parlare di colonie da congelare, maggio scorso, lo stesso giorno sui giornali israelia­ni uscì il progetto d’una nuova co­lonia da costruire a Maskiot, nella Valle del Giordano. Stavolta sarà diverso. Ma non troppo: Bibi, Ba­rack e Abu Mazen si vedono al­l’Onu, tutti insieme per la prima volta, argomento gli insediamen­ti, e nessuno si aspetta granché. «L’unico a volere questo incontro è Obama — riassume Nahum Bar­nea, editorialista israeliano —. Gli altri due sono lì solo perché l’as­sente ha sempre torto». Netan­yahu, ostaggio dell’estrema destra nel suo governo; il presidente pa­lestinese, ricattato dall’ascesa dei fondamentalisti di Hamas. Eppu­re, è di qui che deve passare la so­luzione dei Due Stati che tutti (più o meno) dicono di volere. E al mo­mento è su questo problema che il presidente americano si gioca la partita arabo-israeliana. Ecco un piccolo atlante per orientarsi nella disputa.
Che cosa sono

Le colonie israeliane di cui si di­scute sono nate negli ultimi qua­rant’anni al di là della Linea Ver­de, ovvero del confine che prima della Guerra dei Sei Giorni (1967) divideva Israele dall’area giorda­na. Oggi si trovano sulle Alture del Golan, sotto amministrazione civile israeliana, ma soprattutto nell’area di Gerusalemme Est e in Cisgiordania (la West Bank, che Israele preferisce chiamare Giu­dea e Samaria). Sono 121 quelle nate su spinta e finanziamento dei vari governi israeliani: vere città come Maale Adumim (sorto nel 1975 alle porte di Gerusalemme, più di 30mila abitanti) o Ariel (1978, 16mila abitanti), simboli come Gush Etzion (fondato nel 1967), cantieri sempre aperti co­me Gilo. Più di 50 sono invece le colonie totalmente illegali, alcune microscopiche, nate senza il per­messo formale del governo israe­liano.

Chi ci abita

Le colonie occupano il 3 per cen­to della Cisgiordania, ma di fatto il loro controllo si estende al 40 per cento delle municipalità. Dal 1996, nessun governo israeliano ha ufficialmente autorizzato la co­struzione di nuovi insediamenti, ma gli interventi per bloccarli so­no stati praticamente zero. Uno de­gli ostacoli principali al congela­mento,
su cui adesso insiste Ne­tanyahu, è la loro «crescita natura­le »: il 5,5% l’anno, contro una me­dia nazionale dell’1,8. Oltre ai 180mila che vivono nei quartieri ebraici di Gerusalemme Est, i colo­ni sono quasi 270mila. La popola­zione (130mila nel 1995) è raddop­piata in poco più di dieci anni e l’età media è molto bassa: solo il 2,9% dei coloni ha più di 65 anni, contro una media nazionale del 10%. Secondo il governo israelia­no, questo aumento impetuoso non può essere limitato. L’Anp so­stiene invece che sono le politiche di incentivi e di esenzioni fiscali, fortemente volute in passato pro­prio dal Likud, il partito del pre­mier, a favorire questa crescita na­turale.
I palestinesi: sgomberare

A dirlo, sono innanzi tutto gli organismi internazionali. Dal­l’Onu alla Corte internazionale del­­l’Aja, dall’Unione Europea alla Cro­ce rossa, decine di documenti di­chiarano questi insediamenti una violazione degli accordi sanciti
dalla Convenzione di Ginevra, a Oslo nel 1993, dalla Road Map e dalla conferenza di Annapolis del 2007. Molti Paesi, come la Gran Bretagna, boicottano i prodotti agricoli degli insediamenti. Anche la Corte Suprema di Israele ha sta­bilito (2005) che questi territori non fanno parte dello Stato di Isra­ele, poiché solo Gerusalemme Est è stata annessa nel 1980. Peraltro, proprio a Gerusalemme Est, dopo Annapolis sono aumentate le co­struzioni nei quartieri orientali ebraici (750 nuovi progetti) e le demolizioni delle case palestinesi «abusive»: fra il 2004 e il 2008, ne erano state buttate giù 88, mentre solo nei primi sei mesi del 2009 ne sono state distrutte 40.
I coloni: vogliamo restare

Secondo un censimento del 2007, solo il 31,09% dei coloni è di­sponibile a una trattativa (ma non al ritiro), mentre gli altri si divido­no fra ultraortodossi che tengono duro «per motivi religiosi» (il 29,08%) e chi aderisce alle tesi del­la destra Likud (38,96%) o della de­stra estrema (0,87%). La tesi preva­lente: molti terreni sono stati com­prati con regolari contratti. E poi Israele ha già ritirato i coloni dal
Sinai, nel 1982, e da Gaza nell’ago­sto 2005. «Altre concessioni sono pericolose e l’avvento di Hamas nella Striscia ne è la dimostrazio­ne. Inoltre, sono stati i palestinesi a rifiutare le offerte di restituzione fatte dai governi Barak e Olmert» (oltre il 95% della Cisgiordania). Negli ultimi mesi sono aumentate le violenze dei coloni, specie nel­l’area di Hebron. Una donna, Da­niela Weiss, guida gli attacchi mi­rati dell’ala estrema contro i pale­stinesi o i pacifisti della sinistra israeliana: a ogni tentativo di sgombero, si risponde con aggres­sioni organizzate.
Cosa vuole Netanyahu

Dopo mesi d’attesa, il premier israeliano non dice no alla richie­sta Usa di una moratoria (parola preferita a congelamento) degli in­sediamenti a partire da ottobre. Obama vorrebbe lo stop di un an­no, Netanyahu è disponibile a sei-nove mesi, ma con varie condi­zioni: 1) escludere da ogni trattati­va Gerusalemme Est, proclamata capitale di Israele ma non ricono­sciuta come tale dalla comunità in­ternazionale; 2) terminare le 2.400 case già in costruzione in sette aree, da Gush Etzion a Maale Adu­mim,
fino a Maskiot (valle del Giordano); 3) il riconoscimento da parte dell’Anp delle radici ebrai­che dello Stato di Israele. A New York, Bibi va con un dato in tasca: nei primi otto mesi del 2009, i pro­getti edilizi nelle colonie sono co­munque già calati del 34% rispet­to all’anno prima. La betoniera non si è fermata. Però, inevitabile, sta rallentando.
Cosa vuole Abu Mazen

Per il presidente palestinese, la «moratoria» non somiglia nean­che da lontano a un reale stop. L’Anp chiede l’applicazione delle risoluzioni e degli accordi interna­zionali, col ritiro integrale dei colo­ni (sia pur diluito nel tempo): al momento, gli insediamenti spac­cano in quattro la Cisgiordania e isolano Gerusalemme Est («Che non va esclusa dalla trattativa»), impedendo «la contiguità territo­riale del futuro Stato palestinese» tra Nablus, Ramallah, Gerico, He­bron e Betlemme. Inoltre, l’Anp te­me che una dichiarazione di «ebraicità» dello Stato di Israele suoni come una rinuncia all’identi­tà della parte occupata, danneg­giando proprio gli arabi israeliani (il 20 per cento della popolazio­ne), oltre a essere la pietra tomba­le sul diritto al ritorno dei profu­ghi del 1948: quattro milioni di pa­lestinesi, dal Libano e dalla Giorda­nia.

Cosa vuole Obama

La questione degli insediamenti è la pre-condizione della «pace in due anni» che il presidente Usa so­gna. Oltre a eventuali sanzioni più dure all’Iran, chieste da Netan­yahu, in cambio di un congela­mento di almeno un anno ci sareb­be la disponibilità di alcuni Paesi arabi più moderati, come il Qatar e l’Oman, a scambiare ambasciato­ri con Israele e a concedere l’uso dello spazio aereo alla compagnia di bandiera israeliana, El Al. Oba­ma ci crede, ha impegnato il me­glio dei suoi collaboratori, da Den­nis Ross a Rahm Emanuel. E all’in­viato in Medio Oriente, George Mi­tchell, dicono abbia dato di perso­na il consiglio: «Prendi casa a Ge­rusalemme. E sulle colonie, non mollare l’osso».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Ci fidiamo di Obama. Deve strappare lo stop alle colonie israeliane ".

Ci auguriamo che l'intervista non appartenga al filone delle para-interviste inaugurato da Udg e a lui tanto caro. Nel titolo è ben specificata la posizione araba di Abu Mazen: pretese assurde senza nessuna concessione in cambio.Se l'incontro avverrà su queste basi, nessun stupore sul risultato.

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