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Sulla strage degli studenti della Yeshiva di Merkaz Harav, riportiamo la cronaca di Davide Frattini dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/03/2008, a pag.5, dal titolo " L'ombra di Hamas sul funerale degli studenti", Seguono altre cronache e commenti da altri quotidiani. CORRIERE della SERA, Davide Frattini, "" L'ombra di Hamas sul funerale degli studenti": Le bandiere verdi di Hamas e quella gialla di Hezbollah sventolano sopra la tenda, dove la famiglia Abu Dheim riceve le condoglianze. I servizi segreti israeliani non sanno ancora che colore dare all'assalto contro la scuola religiosa Merkaz HaRav. Ala Hisham, 25 anni, avrebbe agito per rappresaglia contro i raid israeliani a Gaza. «Era sconvolto dalle immagini. Mi ha detto che non poteva dormire la notte», dice la sorella Iman. Davide Frattini intervista lo scrittore arabo israeliano Sayed Kashua, tradotto anche in italiano. Ha rifiutato l' invito della Fiera del Libro di Torino con la seguente motivazione " Non partecipo perchè non voglio onorare Israele, il cui esercito occupa la terra del mio popolo". a Frattini, lui che vive a Tel Aviv, scrive in ebraico, lavora a Haaretz, ha invece detto " Mi fa orrore la gioia di Gaza". Come la mettiamo ? CORRIERE della SERA, Davide Frattini: "" Mi fa orrore la gioia di Gaza": DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Sul CORRIERE della SERA, Ennio Caretto intervista il politologo americano Micheal Walzer, titolo " Gli arabi non sono cambiati": WASHINGTON — «Non vedo una via d'uscita da questa crisi, i bagni di sangue continuano e l'ostilità tra gli israeliani e i palestinesi cresce. Il premier Olmert e il presidente Abu Mazen non possono più risolverla da soli, ci vuole una mediazione araba presso Hamas, vera non di facciata». Al telefono dall'università di Princeton, Michael Walzer, uno dei più grandi filosofi politici americani, dichiara di non credere che entro il 2008 si firmerà la pace, come prospettato a novembre alla conferenza di Annapolis. «Possiamo solo sperare che la firmi il prossimo presidente degli Stati Uniti — aggiunge l'autore di «Guerra giusta e ingiusta », un liberal ma fautore della diplomazia muscolare. La domanda che Israele si pone dopo l'attacco a una delle accademie rabbiniche di Gerusalemme frequentata soprattutto da figli di coloni, è la seguente: si è trattato di un attentato di tipo americano contro un centro di studi oppure è l'inizio di una nuova intifada palestinese?
Per il momento non c'è risposta. L'assalitore era un giovane arabo israeliano residente a Gerusalemme. Non ha agito come un kamikaze ma come un combattente. Sembra persino che avesse lavorato come autista per l'accademia. La sua azione è stata esaltata dai media arabi ma non ancora rivendicata con certezza. Se, dunque, non si tratta di un ritorno alla terrorizzante epoca degli attacchi suicidi, potrebbe essere un segno che Hamas sta organizzando combattenti secondo i sistemi degli Hezbollah libanesi nelle zone ancora occupate da Israele? Gente disposta e capace di mettere in pericolo non solo la sicurezza degli israeliani ma anche quella della dirigenza della autorità palestinese di Abu Mazen in Cisgiordania. Non a caso l'attacco ha coinciso con la visita di Condoleezza Rice e con i suoi sforzi per rilanciare il dialogo fra Olmert e il presidente palestinese Abbas e col tentativo egiziano di raggiungere un compromesso tripartito fra Autorità palestinese, Israele e Hamas per riportare la calma a Gaza. Per quanto colpito dall'ultima incursione israeliana che ha causato più di 100 morti palestinesi, il movimento islamico è imbaldanzito dalla ritirata delle truppe israeliane, descritta come nuova vittoria degli islamici contro l'invasore sionista. Il governo israeliano si trova una volta di più di fronte a una difficile scelta. Lanciare una grande offensiva contro Gaza per infliggere un colpo decisivo ad Hamas con tutte le incognite e le perdite di soldati che questo comporterebbe; oppure rispondere al lancio dei missili contro città israeliane con bombardamenti dei luoghi di lancio anche se in zone densamente abitate. Il ministero degli Esteri ha diffuso uno studio sulle convenzioni internazionali che regolano l'intervento militare in zone abitate. Dall’analisi appare che la richiesta dell'Onu e della Ue a Israele, astenersi «da tutte le attività atte a mettere in pericolo civili», contrasta, fra l'altro, con l'articolo 28 della quarta convenzione di Ginevra per la quale «la presenza di civili non può essere usata per rendere punti o zone immuni da operazioni militari». Questo può rinforzare la tendenza di rispondere ai missili di Hamas con bombardamenti contro zone abitate e usate come punti di lancio. Il ragionamento ha la sua crudele logica ma deve tener conto del peso dell'opinione internazionale e soprattutto dell'incapacità israeliana di combattere con successo le battaglie della guerra psicologica. Su REPUBBLICA, a pag.6-7, due cronache di Alberto Stabile, titoli " Israele,la rabbia e il terrore, così divamperà la guerra" e " E sulla casa dell'assassino sventola la bandiera di Hamas ":
dal nostro corrispondente
GERUSALEMME - La porta a vetri blindata della biblioteca è tutta sforacchiata di proiettili. Almeno due raffiche sparate con mano ferma e tecnica militare, dall´alto verso il basso, l´hanno resa un colabrodo. Un lumino fiammeggia sul gradino. Dentro la stanza della strage, gli uomini di Zaka, con il giubbotto giallo e la kippà nera, stanno ripulendo il grande tavolo e gli scaffali pieni di testi sacri consumati dall´uso, del sangue versato dalle vittime. E´ una procedura lenta e meticolosa, da non disturbare. Così, quelli che accorrono per i funerali, arrivano sulla soglia della biblioteca, sbirciano dentro, si abbracciano, scoppiano in lacrime ma non entrano. Tutto il dolore della Gerusalemme ebraica, devota e militante s´è concentrato qui, nel cortile della Yeshiva presa d´assalto giovedì sera, sulla strada che porta il nome del suo fondatore, via Zvi Yehuda (da Zvi Yehuda Kook), quasi all´entrata ovest della città. Il collegio talmudico consta di un edificio a quattro piani senza pretese, spartano, ma con un balcone in ogni stanza. Evidentemente, i posti dove potersi raccogliere e studiare sono inferiori alle richieste. Ci sono banchi dappertutto, anche sui ballatoi delle scale. Per i corridoi c´è la composta animazione che caratterizza l´atto formale e conclusivo di una grande tragedia. Migliaia di persone affollano la strada tappezzata di manifesti per «i nostri santi eroi dall´animo gentile». I terrazzini della Yeshiva sono gremiti di studenti. Molti sono poco più che bambini. Felpe, tute, t-shirt, jeans, scarpe da ginnastica e kippà colorate. Da sotto le magliette, spuntano i fiocchi (talled) della tradizione esibiti con molta indulgenza. Qualcuno indossa la divisa e porta l´arma, perché i membri di questa Yeshivà, contrariamente ad altri correnti ultra ortodosse, servono nell´esercito, solitamente, come ufficiali delle unità combattenti. Tanto più forte è la pena per l´oltraggio subito, quanto più alta è la consapevolezza del proprio ruolo. «Non a caso i terroristi ha scelto di venire qui - dice il direttore amministrativo della Yeshivà, il rabbino Eitan Eisen - perché noi cresciamo generazioni e generazioni di persone che hanno fede nella Torà, perché siamo il cuore pulsante di Eretz Israel e non rinunciamo a nessuna parte di essa». In queste aule, tra questi banchi è nato, infatti, il sionismo religioso. Qui si è avuto l´incontro tra nazionalismo e fede da cui ha preso le mosse il movimento dei coloni, Gush Emunim, il Blocco dei Fedeli, secondo l´insegnamento di Rav Kook semplificato nella frase: «Chiudete la torà e andate a stabilirvi in Giudea e in Samaria», gli antichi nomi biblici dei territori conquistati nella guerra del ‘67. Nel cortile abbellito da una grande palma, dove lentamente si raccoglie la folla dei parenti e dei partecipanti al lutto, sfilano alcuni degli uomini che, una volta usciti dalla Yeshivà, hanno animato le fila della destra messianica. I rabbini degli insediamenti. I deputati Benny Elon e Nissan Slomiansky, sempre al fianco dei coloni sia che si tratti del ritiro da Gaza che di sgomberare qualche abitazione illegale in un quartiere di Hebron. L´ex speaker della Knesset Rubi Rivlin. Praticamene assente, il governo, a meno di non considerare il ministro senza portafoglio Meshullam Nehari, del partito ultraortodosso sefardita, Shass, in rappresentanza dell´esecutivo. Quando arrivano le salme, ognuna avvolta nello scialle della preghiera (talleth), bianco bordato di nero, l´aria, il cortile, la strada in cui s´accalcano almeno diecimila persone risuonano di lamenti. I corpi nei loro sudari, senza cassa di legno, secondo l´uso ebraico, vengono adagiati ognuno su due banchi uniti a formare una lettiga, un biglietto azzurro appoggiato sopra con su scritto il nome. Attorno si raccolgono i familiari. Da platea dolente affiora qualche dettaglio. L´ultimo degli otto uccisi doveva essere un giovane falashià, un ebreo etiope di colore. Cinque avevano meno di 18 anni. Uno appena 15. E deve essere quello la cui giovane madre non riesce a darsi pace e ad impedire che le unghia le graffino le guance. Chi, anche in considerazione dell´ideologia che impregna questo luogo simbolo del nazionalismo ebraico, s´aspettava discorsi infuocati, rimarrà probabilmente deluso. Non è la retorica a gonfiare le parole, ma più spesso è il pianto a spezzare la voce degli oratori. Solo in un passaggio della sua elegia, il rabbino capo della Yeshivà, Yakoov Shapira, accenna ad una critica alla dirigenza del paese: «E´ giunto il momento per tutti noi di capire che la lotta sta divampando. Tutti noi crediamo che sia ora di un capovolgimento spirituale, di avere una leadership migliore più forte e più credente. Noi tutti abitanti di Gerusalemme siamo gli obiettivi degli assassini». Molti conoscitori del mondo politico nazionalista e religioso hanno previsto una possibile risposta dei coloni all´eccidio degli studenti. Una vendetta. Davanti alla porta chiusa della biblioteca chiedo ad uno dei seminaristi quanto quest´ipotesi sia credibile. Risponde con sicurezza: «E´ il governo che deve vendicarci. Nel senso che tutti i responsabili di questa strage devono essere puniti. Se non sarà così, allora è possibile che qualcuno si alzi per fare giustizia». Poco prima, il rabbino capo sefardita Morchia Eliahu aveva ricordato a tutti che la «vendetta del sangue spetta a dio». DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME - Sul terrazzo della casa di Alaa Abu Dheim, nel villaggio di Jabel Mukaber, non lontano dalla rappresentanza delle Nazioni Unite, quasi sulla linea verde che divide Gerusalemme dai territtori, sventola il gran pavese del terrore: le bandiere verdi di Hamas, quelle nere della Jihad e quelle gialle di Hezbollah. Al piano terra, a ridosso della porta d´ingresso i familiari hanno eretto la tenda del lutto, ma molti parenti diretti non possono ricevere gli ospiti venuti per le condoglianze, perché da giovedì sera sono nelle mani della polizia israeliana, che li interroga. Presumibilmente tra i 20 e i 25 anni, Alaa Abu Dheim qualche anno fa aveva lavorato come autista per la stessa Yeshivà Merkaz Harav in cui ha compiuto la strage di studenti. E questo dettaglio spiegherebbe come mai il terrorista sia potuto entrare tranquilamente nel cortile della scuola religiosa ed arrivare fino alla biblioteca. Sulle braccia reggeva un pacco di cartone in cui aveva nascosto il fucile mitragliatore e sette caricatori. Altro particolare emerso dalla scarna biografia del giovane assalitore della Yeshivà è che quattro mesi Alaa era stato arrestato dalla polizia israeliana ed era stato rilasciato da poche settimane. E´ in questo lasso di tempo che i palestinesi di Gerusalemme est, considerati dai servizi di sicurezza israeliani come una sorta di cavallo di troia del nazionalismo palestinese, sono tornati in primo piano con una serie di manifestazioni di protesta e di attentati sia pure minori. Di più diranno sicuramente le autorità israeliane. Le quali, però, sono attualmente alle prese con il mistero della rivendicazione. Ce ne sono state due, la cui validità viene tuttora soppesata. La prima, giovedì sera, ad opera del fantomatico «Battaglione degli uomini liberi della Galilea - Martire Imad Mughniyeh e martiri di Gaza», portata a conoscenza della rete televisiva degli Hezbollah, Al Manar, a Beirut e successivamente comunicata anche dall´agenzia palestinese Mann. L´altra, è stata raccolta ieri pomeriggio dalla Reuter che ha ricevuto una telefonata di un anonimo esponente del Movimento islamico, Hamas, a Gaza. Quali che siano i suoi collegamenti con l´organizzazione islamica, la polizia israeliana sembra convinta, o almeno così fa sapere, che Alaa Abu Dhein abbia agito da solo, sfruttando abilmente la carta d´identità blu concessa ai cittadini arabi di Gerusalemme est, grazie alla quale possono muoversi su tutto il territorio israeliano. Come ai quasi tutti 253 mila palestinesi della città santa, anche ad Alaa Dhein era stato accordato lo status di «residente permanente» di Gerusalemme che, oltre a comportare la possibilità di godere di quasi tutti i sussidi e le misure di protezione sociale, come per esempio, l´assistenza sanitaria e l´indennità di disoccupazione, dà diritto a ricevere uno speciale documento d´identità, detto appunto «carta blu». Gli arabi di Gerusalemme est, contrariamente agli arabi israeliani della Galilea, non sono cittadini dello Stato ebraico, non hanno passaporto israeliano e non possono votare. Possono però viaggiare all´interno del paese e di questo privilegio s´è avvalso il terrorista per muoversi indisturbato dal suo villaggio nella parte orientale della città alla Yeshivà situata nella zona Ovest. (a. s.) Segue l'analisi di Giulio Meotti dal FOGLIO,a pag.2, dal titolo " Colpire a Merkaz HaRav è come voler uccidere il Talmud ":
“Un attacco al cuore del sionismo”. Così lo ha definito il Jerusalem Post. I terroristi hanno uccisi otto studenti a raffiche di mitra, come a Maalot più di trent’anni fa. Anche ieri, come a Maalot, era un giorno di festa per gli ebrei. Poco prima c’era stato il massacro di Avivim, una comunità fondata da ebrei marocchini. Nove bambini uccisi, tutti sotto i dieci anni. E dopo Avivim la strage di Kiryat Shmona: diciotto gli ebrei assassinati, anche allora nove bambini. A Maalot i terroristi colpirono una città simbolo dell’immigrazione, fondata negli anni Cinquanta da migliaia di ebrei fuggiti dai paesi arabi che li perseguitavano. Ieri hanno scelto una scuola religiosa da dove escono molti dei capi delle unità combattenti di Tsahal, l’esercito israeliano, e dei rabbini israeliani. La scuola è la yeshivà Mercaz Harav, fondata nel 1924 da Avraham Yitzhak Kook, il primo rabbino capo del Mandato Britannico. Oggi ospita diverse centinaia di studenti edè il più grande centro mondiale del sionismo religioso. Raramente il fanatismo antiebraico aveva scelto con maggiore malizia il luogo da colpire. Yerach Toker, paramedico accorso fra i primi sul posto, ha detto che gli studenti avevano in mano ancora i libri sacri su cui stavano studiando. Le fotografie mostrano interi scaffali di libri sporchi di sangue, scie rosse per tutta la biblioteca. Elie Wiesel al Corriere della sera racconta che è come durante l’Olocausto, niente è più seducente della morte di uno studente talmudico con il suo caffettano, la faccia sbiancata, la barba da saggio, i boccoli con cui gli angeli lo salveranno dall’inferno, il suo essere custode delle radici, così non assimilabile. Il capo della yeshiva, Yaakov SAhapira, ha detto che “questo massacro è la continuazione di quello del 1929 a Hebron”. Quando al grido “Itbakh al Yahud!”, uccidete i giudei, un pogrom arabo cancellò le tracce della “vera presenza” ebraica, autoctona e preislamica, nella “sorella di Gerusalemme”, come David Ben Gurion chiamava Hebron. Il collegio Mercaz Harav è la più importante yeshiva del mondo, ogni altra scuola di Torah in Israele è stata fondata da ex studenti della Mercaz Harav, i famosi “Merkazniks”. Nelle intenzioni di rav Kook doveva diventare una “centrale di Torah e sionismo”. Dopo la guerra del 1967 e del 1973, da lì sono arrivati i capi dei coloni. Israele gli deve tanto dopo il disimpegno da Gaza del 2005, una delle più grandi dimostrazioni di forza del sionismo. Una resistenza pacifica, fisica ma non violenta. Gli allievi della Mercaz Harav non hanno mai mosso vendetta, anche quando i palestinesi uccidevano le donne ebree incinta e i loro figli nelle culle. Da quella scuola sono usciti tanti capi del sionismo revisionista, a cominciare dal comandante dell’Irgun, David Raziel (un moshav in Giudea ne porta il nome). Quella scuola è un misto di orgoglio e pietas, Scrittura e coraggio, purezza e ardore. Quegli studenti erano gli eredi di Rabbi Akivà, il giovane pastore che divenne il più grande rabbino del suo tempo. Nel 95 d.C. andò a Roma, ottenne l’annullamento delle leggi contro l’ebraismo. Imprigionato, i soldati romani gli strapparono le carni con degli uncini di ferro. Lui continuò a pregare, recitando “ascolta Israele”. La sala dove il terrorista ha spezzato le vite di quegli ebrei era sempre piena, notte e giorno, di studenti e studiosi. Mercaz Harav è uno dei cuori più vitali di Israele e lo dimostra l’età delle vittime. Pniel e Neria erano i più piccoli, 15 anni, Doron era il più grande, 26, aveva combattuto in Libano contro gli ascari di Hezbollah. Dal Libano non è mai tornato uno dei migliori studenti della yeshiva, Amihai Merhavia, che voleva servire nell’esercito per “difendere Israele”. In quella yeshiva faceva base anche Avital Sharansky, la moglie di Nathan che si è battuta per la liberazione del marito e la libertà degli ebrei sovietici. Yehuda Meshi Zahav, capo dello Zaka, gli ebrei timorati che dopo ogni attentato si occupano di recuperare brandelli di cogni corpo, “perché Dio possa tornare a sorridere”, ha raccontato la scena: “Tutto assomigliava a un mattatoio, il pavimento era tutto coperto di sangue, i libri sacri erano inzuppati di sangue”. La mamma di Avraham ha detto al funerale che “Dio ha scelto i fiori più belli per il suo giardino. Dio vedeva Avraham come un angelo e dobbiamo ringraziarlo per il privilegio di averlo cresciuto per sedici anni. Sedici anni di purezza e dolcezza”. Rav Kook ripeteva sempre che “una piccola luce disperde le tenebre”. Il terrorismo ha spezzato otto giovani luci, ma non lo spirito che vive a Mercaz Harav. “Questa sera i terroristi hanno interrotto la nostra gioia” ha detto uno studente. “Ma non riusciranno a distruggere ciò in cui crediamo”. Per inviare al Corriere della Sera, Il Giornale e la Repubblica e il Foglio il proprio parere, cliccare sulle email sottostanti; lettere@corriere.it-segreteria@ilgiornale.it-rubrica.lettere@repubblica-lettere@il foglio.itit |
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