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Corriere della Sera,Il Giornale,La Repubblica, Il Foglio Rassegna Stampa
07.03.2008 Strage alla Yeshiva Merkaz HaRav
cronache e commenti da quattro quotidiani

Testata:Corriere della Sera,Il Giornale,La Repubblica, Il Foglio
Autore: Davide Frattini-Ennio Caretto-R.A.Segre-Alberto Stabile-Giulio Meotti
Titolo: «Strage alla Yeshiva Merkaz HaRav»

Sulla strage degli studenti della Yeshiva di Merkaz Harav, riportiamo la cronaca di Davide Frattini dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/03/2008, a pag.5, dal titolo " L'ombra di Hamas sul funerale degli studenti", Seguono altre cronache e commenti da altri quotidiani.

CORRIERE della SERA, Davide Frattini, "" L'ombra di Hamas sul funerale degli studenti":

 Le bandiere verdi di Hamas e quella gialla di Hezbollah sventolano sopra la tenda, dove la famiglia Abu Dheim riceve le condoglianze. I servizi segreti israeliani non sanno ancora che colore dare all'assalto contro la scuola religiosa Merkaz HaRav. Ala Hisham, 25 anni, avrebbe agito per rappresaglia contro i raid israeliani a Gaza. «Era sconvolto dalle immagini. Mi ha detto che non poteva dormire la notte», dice la sorella Iman.
L'unica rivendicazione è quella rilanciata da Al Manar,
la televisione di Hezbollah, che ha parlato del gruppo Brigate degli uomini liberi della Galilea: l'attacco sarebbe dedicato ai «martiri della Striscia e Imad Mughniyeh», il capo delle operazioni speciali del movimento sciita, ucciso in Siria.
Una radio di Hamas ha attribuito l'azione al movimento, poche ore dopo un portavoce ha smentito: «Celebriamo l'atto eroico. Non ci prendiamo l'onore, almeno per ora».
Lo Shin Bet israeliano è preoccupato dal colore della carta d'identità che Ala Hisham portava in tasca, quando è stato ucciso nell'assalto. Il blu contraddistingue i documenti dei palestinesi che vivono a Gerusalemme Est e non hanno restrizioni di movimento in Israele. L'assalitore lavorava come autista e per un periodo avrebbe trasportato anche gli studenti della scuola rabbinica. Avi Dichter, ministro per la Sicurezza pubblica ed ex capo dei servizi segreti, ha proposto «di espellere da Gerusalemme tutti gli arabi che minacciano la pace».
I funerali degli studenti uccisi — avevano tra i 15 e i 19 anni, il più vecchio 26 — sono partiti dal cortile della yeshiva. Merkaz HaRav è il centro più importante per il sionismo religioso, il movimento che ha spinto per la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania. Alcuni ragazzi sono stati seppelliti a Gerusalemme, sul Monte degli ulivi, altri nelle colonie da dove venivano. Yaakov Shapira, il rabbino che dirige il seminario, ha detto in lacrime: «Dio ha chiesto ad Abramo di sacrificare il suo unico figlio. Noi abbiamo dovuto sacrificarne otto ». Shapira ha attaccato, senza nominarlo, il governo di Ehud Olmert: «Abbiamo bisogno di una leadership migliore, più forte, più devota».
I portavoce del premier ripetono che i negoziati di pace con il presidente Abu Mazen vanno avanti: «Non possiamo punire i palestinesi moderati per le azioni dei terroristi». Dall'Italia, Massimo D'Alema ha definito l'attentato «tragico e rivoltante»: «Da una parte c'è l'estremismo palestinese e dall'altra l'estrema durezza della reazione di Israele — ha continuato il ministro degli Esteri durante Tv7 del Tg1 —. La maggioranza degli israeliani dice che bisogna trattare con Hamas, la considero una posizione saggia. La tenterei ». L'ipotesi dell'apertura ai fondamentalisti è stata respinta da Gianfranco Fini, anche lui ospite della trasmissione: «Il movimento esprime un'ambiguità intollerabile e se non riconosce il diritto dello Stato ebraico a esistere deve essere considerato un'organizzazione terroristica». E da Gideon Meir, ambasciatore israeliano a Roma: «Dopo l'attacco a Gerusalemme, non si può chiedere al nostro governo di dialogare con Hamas».

Davide Frattini intervista lo scrittore arabo israeliano Sayed Kashua, tradotto anche in italiano. Ha rifiutato l' invito della Fiera del Libro di Torino con la seguente motivazione " Non partecipo perchè non voglio onorare Israele, il cui esercito occupa la terra del mio popolo". a Frattini, lui che vive a Tel Aviv, scrive in ebraico, lavora a Haaretz, ha invece detto " Mi fa orrore la gioia di Gaza". Come la mettiamo ?

CORRIERE della SERA, Davide Frattini: "" Mi fa orrore la gioia di Gaza":

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — Prima si è fatto la barba. Doveva accompagnare la figlia alla festa di compleanno in un parco di Gerusalemme e Sayed Kashua ha pensato fosse meglio presentarsi rasato. «La bambina frequenta una classe mista, ci sono arabi ed ebrei. È il giorno dopo l'attacco alla scuola religiosa, non volevo allarmare nessuno». Scrittore arabo israeliano, vive nella parte Est della città e su Haaretz
tiene una rubrica settimanale per raccontare che cosa significhi trovarsi in mezzo: bollati come «traditori » dai palestinesi, trattati con sospetto dalla maggioranza ebraica. «Ai margini, non in mezzo», precisa.
«La gente non capisce che cosa siamo, mi chiede a chi sono leale, a chi mi sento più vicino, come se dentro di me ci fosse più di una parte».
Condanna le celebrazioni nella Striscia di Gaza, bandiere e cortei di auto, accompagnati dal fuoco dei Kalashnikov: «È terribile. Fa inorridire. Una popolazione che vive una situazione così difficile dovrebbe provare compassione per le sofferenze degli altri». Abraham B. Yehoshua è rimasto sconvolto, quando Hamas ha distribuito caramelle ai bambini per festeggiare l'attentato suicida a Dimona. Lo scrittore israeliano ha parlato di «codici morali differenti». «A me sconvolge Yehoshua — risponde l'autore arabo —. Definire i codici morali di un altro popolo conferma l'idea che dall'altra parte non esista nessuno per dialogare e rafforza la convinzione della maggior parte degli israeliani che gli arabi abbiano un'attitudine differente verso la morte. I palestinesi fanno lo stesso errore: pensano che gli ebrei capiscano solo la legge del potere, che abbiano codici morali sbagliati e mostruosi. Il dramma è che stiamo perdendo la capacità di vedere il lato umano negli altri e se sono inumani significa che possiamo ucciderli».
Yehoshua ha anche spiegato — nella stessa intervista ad Haaretz
— di sentirsi più vicino agli ultraortodossi moderati che a un intellettuale laico come il palestinese Mahmoud Darwish. «Mi dispiace per lui. Io non baso i miei rapporti con gli altri sulla loro religione o nazionalità, ma sulle qualità umane personali. A me non spaventa vivere fianco a fianco con gli ebrei». Da laico, teme un'avanzata di Hamas anche in Cisgiordania. «Voglio una società democratica e sono terrorizzato dalla coercizione religiosa».
La serie televisiva Lavoro da arabi,
che ha sceneggiato, è finita da poche settimane. È stata la prima sit-com dedicata a una famiglia arabo- israeliana, la prima a ironizzare su pregiudizi e stereotipi di tutt'e due le parti. «Gli arabi non hanno apprezzato le mie ironie. Si sono sentiti come se i panni sporchi venissero lavati in televisione e proprio da uno di loro. Non sono abituati alla satira e io non avevo capito quanto si sentano minacciati come minoranza».
La comunità araba israeliana si è divisa sull'offerta del governo di far partecipare i giovani a un servizio civile nazionale. «È un'ottima idea ma temo che a questo punto non possa favorire l'integrazione. I problemi sono troppo profondi. L'esempio dei drusi dimostra che fare il militare nell'esercito israeliano non aiuta a essere accettati dalla società o a migliorare le condizioni economiche. Io sono un israeliano temporaneo fino a quando il governo e la gente non deciderà che appartengo veramente a questo posto».
Davide Frattini Bandiera
La bandiera di Hamas esposta sulla casa dell'attentatore palestinese

Sul CORRIERE della SERA, Ennio Caretto intervista il politologo americano Micheal Walzer, titolo " Gli arabi non sono cambiati":

WASHINGTON — «Non vedo una via d'uscita da questa crisi, i bagni di sangue continuano e l'ostilità tra gli israeliani e i palestinesi cresce. Il premier Olmert e il presidente Abu Mazen non possono più risolverla da soli, ci vuole una mediazione araba presso Hamas, vera non di facciata». Al telefono dall'università di Princeton, Michael Walzer, uno dei più grandi filosofi politici americani, dichiara di non credere che entro il 2008 si firmerà la pace, come prospettato a novembre alla conferenza di Annapolis. «Possiamo solo sperare che la firmi il prossimo presidente degli Stati Uniti — aggiunge l'autore di «Guerra giusta e ingiusta », un liberal ma fautore della diplomazia muscolare.
Perché è così scettico?
«Perché a questo punto tutto dipende da Hamas. Olmert sa che Abu Mazen è molto debole, sospetta che il presidente palestinese cadrebbe dopo pochi mesi se concludesse la pace e ottenesse la restituzione della Cisgiordania. Hamas lo rovescerebbe, la Cisgiordania diverrebbe un'altra rampa di lancio dei suoi missili contro Israele. Temo che scoppierebbe una guerra».
Abu Mazen è esautorato?
«I fatti dimostrano che non ha il minimo controllo su Gaza e ha un controllo precario sulla Cisgiordania. Penso che sappia anche lui di avere i giorni contati in caso di un accordo. Non li avrebbe se nel frattempo la situazione cambiasse. Ma perché cambi, bisogna che Paesi arabi come l'Egitto e l'Arabia saudita intervengano».
In che modo?
«Chiudendo le frontiere alle forniture di armi alle formazioni terroristiche in Palestina, impedendone i finanziamenti. E sottoponendo Hamas a pressioni politiche ed economiche perché rinunci alla violenza e dialoghi con Israele allineandosi ad Abu Mazen».
Come sta facendo l'Egitto?
«L'Egitto prova a mediare, non con il necessario vigore: forse teme una sollevazione interna se si sbilancia troppo. Inoltre, gli servono appoggi da parte degli altri Paesi arabi, ma l'Arabia Saudita, il più influente di tutti, non ci sente. Il fronte arabo rimane antiisraeliano».
Nessuna sorpresa che all'Onu la Libia abbia bloccato la condanna dell' attentato.
«La Libia può avere rinunciato all' atomica e abbandonato il sostegno al terrorismo, ma non ha cambiato posizione su Israele. Questo è stato uno dei limiti dell'operato di Bush: non ha saputo mettere i Paesi arabi amici o ex nemici con le spalle al muro. Peggio, ha sprecato i successi compiuti dal predecessore Clinton, pur di non riconoscergli meriti».
Israele è anche minacciato da Hezbollah in Libano.
«Confido che il prossimo presidente Usa negozierà con gli sponsor di Hezbollah, la Siria e l'Iran. Ma per riuscirci, dovrà mobilitare i Paesi arabi amici anche su questo fronte. Se le loro mediazioni presso Hamas e Hezbollah avanzassero di pari passo il clima migliorerebbe. Si aprirebbe uno spiraglio di pace. Tra l'altro, i negoziati faciliterebbero una soluzione anche in Iraq».
Che contributo si aspetta dall'Ue e dall' Onu?
«L'Ue e l'Onu si sono mostrati inefficienti, non hanno riempito il vuoto lasciato da Bush in Medio Oriente. Grandi potenze che siedono nel Consiglio di Sicurezza come Russia e Cina, e soprattutto l'Ue possono premere sull'Egitto, l'Arabia Saudita, la Siria e l'Iran per ridurre le tensioni. Naturalmente, bisogna che gli Stati Uniti collaborino».

Sul GIORNALE, il commento di  R.A.Segre,a pag.14. dal titolo " I fondamentalisti e i rischi di una nuova intifada ":

La domanda che Israele si pone dopo l'attacco a una delle accademie rabbiniche di Gerusalemme frequentata soprattutto da figli di coloni, è la seguente: si è trattato di un attentato di tipo americano contro un centro di studi oppure è l'inizio di una nuova intifada palestinese?
Per il momento non c'è risposta. L'assalitore era un giovane arabo israeliano residente a Gerusalemme. Non ha agito come un kamikaze ma come un combattente. Sembra persino che avesse lavorato come autista per l'accademia. La sua azione è stata esaltata dai media arabi ma non ancora rivendicata con certezza. Se, dunque, non si tratta di un ritorno alla terrorizzante epoca degli attacchi suicidi, potrebbe essere un segno che Hamas sta organizzando combattenti secondo i sistemi degli Hezbollah libanesi nelle zone ancora occupate da Israele? Gente disposta e capace di mettere in pericolo non solo la sicurezza degli israeliani ma anche quella della dirigenza della autorità palestinese di Abu Mazen in Cisgiordania.
Non a caso l'attacco ha coinciso con la visita di Condoleezza Rice e con i suoi sforzi per rilanciare il dialogo fra Olmert e il presidente palestinese Abbas e col tentativo egiziano di raggiungere un compromesso tripartito fra Autorità palestinese, Israele e Hamas per riportare la calma a Gaza.
Per quanto colpito dall'ultima incursione israeliana che ha causato più di 100 morti palestinesi, il movimento islamico è imbaldanzito dalla ritirata delle truppe israeliane, descritta come nuova vittoria degli islamici contro l'invasore sionista. Il governo israeliano si trova una volta di più di fronte a una difficile scelta. Lanciare una grande offensiva contro Gaza per infliggere un colpo decisivo ad Hamas con tutte le incognite e le perdite di soldati che questo comporterebbe; oppure rispondere al lancio dei missili contro città israeliane con bombardamenti dei luoghi di lancio anche se in zone densamente abitate.
Il ministero degli Esteri ha diffuso uno studio sulle convenzioni internazionali che regolano l'intervento militare in zone abitate. Dall’analisi appare che la richiesta dell'Onu e della Ue a Israele, astenersi «da tutte le attività atte a mettere in pericolo civili», contrasta, fra l'altro, con l'articolo 28 della quarta convenzione di Ginevra per la quale «la presenza di civili non può essere usata per rendere punti o zone immuni da operazioni militari». Questo può rinforzare la tendenza di rispondere ai missili di Hamas con bombardamenti contro zone abitate e usate come punti di lancio. Il ragionamento ha la sua crudele logica ma deve tener conto del peso dell'opinione internazionale e soprattutto dell'incapacità israeliana di combattere con successo le battaglie della guerra psicologica.
 
Su REPUBBLICA, a pag.6-7, due cronache di Alberto Stabile, titoli " Israele,la rabbia e il terrore, così divamperà la guerra" e " E sulla casa dell'assassino sventola la bandiera di Hamas ":
 
dal nostro corrispondente
GERUSALEMME - La porta a vetri blindata della biblioteca è tutta sforacchiata di proiettili. Almeno due raffiche sparate con mano ferma e tecnica militare, dall´alto verso il basso, l´hanno resa un colabrodo. Un lumino fiammeggia sul gradino. Dentro la stanza della strage, gli uomini di Zaka, con il giubbotto giallo e la kippà nera, stanno ripulendo il grande tavolo e gli scaffali pieni di testi sacri consumati dall´uso, del sangue versato dalle vittime. E´ una procedura lenta e meticolosa, da non disturbare.
Così, quelli che accorrono per i funerali, arrivano sulla soglia della biblioteca, sbirciano dentro, si abbracciano, scoppiano in lacrime ma non entrano. Tutto il dolore della Gerusalemme ebraica, devota e militante s´è concentrato qui, nel cortile della Yeshiva presa d´assalto giovedì sera, sulla strada che porta il nome del suo fondatore, via Zvi Yehuda (da Zvi Yehuda Kook), quasi all´entrata ovest della città.
Il collegio talmudico consta di un edificio a quattro piani senza pretese, spartano, ma con un balcone in ogni stanza. Evidentemente, i posti dove potersi raccogliere e studiare sono inferiori alle richieste. Ci sono banchi dappertutto, anche sui ballatoi delle scale. Per i corridoi c´è la composta animazione che caratterizza l´atto formale e conclusivo di una grande tragedia.
Migliaia di persone affollano la strada tappezzata di manifesti per «i nostri santi eroi dall´animo gentile». I terrazzini della Yeshiva sono gremiti di studenti. Molti sono poco più che bambini. Felpe, tute, t-shirt, jeans, scarpe da ginnastica e kippà colorate. Da sotto le magliette, spuntano i fiocchi (talled) della tradizione esibiti con molta indulgenza. Qualcuno indossa la divisa e porta l´arma, perché i membri di questa Yeshivà, contrariamente ad altri correnti ultra ortodosse, servono nell´esercito, solitamente, come ufficiali delle unità combattenti. Tanto più forte è la pena per l´oltraggio subito, quanto più alta è la consapevolezza del proprio ruolo. «Non a caso i terroristi ha scelto di venire qui - dice il direttore amministrativo della Yeshivà, il rabbino Eitan Eisen - perché noi cresciamo generazioni e generazioni di persone che hanno fede nella Torà, perché siamo il cuore pulsante di Eretz Israel e non rinunciamo a nessuna parte di essa».
In queste aule, tra questi banchi è nato, infatti, il sionismo religioso. Qui si è avuto l´incontro tra nazionalismo e fede da cui ha preso le mosse il movimento dei coloni, Gush Emunim, il Blocco dei Fedeli, secondo l´insegnamento di Rav Kook semplificato nella frase: «Chiudete la torà e andate a stabilirvi in Giudea e in Samaria», gli antichi nomi biblici dei territori conquistati nella guerra del ‘67.
Nel cortile abbellito da una grande palma, dove lentamente si raccoglie la folla dei parenti e dei partecipanti al lutto, sfilano alcuni degli uomini che, una volta usciti dalla Yeshivà, hanno animato le fila della destra messianica. I rabbini degli insediamenti. I deputati Benny Elon e Nissan Slomiansky, sempre al fianco dei coloni sia che si tratti del ritiro da Gaza che di sgomberare qualche abitazione illegale in un quartiere di Hebron. L´ex speaker della Knesset Rubi Rivlin. Praticamene assente, il governo, a meno di non considerare il ministro senza portafoglio Meshullam Nehari, del partito ultraortodosso sefardita, Shass, in rappresentanza dell´esecutivo.
Quando arrivano le salme, ognuna avvolta nello scialle della preghiera (talleth), bianco bordato di nero, l´aria, il cortile, la strada in cui s´accalcano almeno diecimila persone risuonano di lamenti. I corpi nei loro sudari, senza cassa di legno, secondo l´uso ebraico, vengono adagiati ognuno su due banchi uniti a formare una lettiga, un biglietto azzurro appoggiato sopra con su scritto il nome. Attorno si raccolgono i familiari. Da platea dolente affiora qualche dettaglio. L´ultimo degli otto uccisi doveva essere un giovane falashià, un ebreo etiope di colore.
Cinque avevano meno di 18 anni. Uno appena 15. E deve essere quello la cui giovane madre non riesce a darsi pace e ad impedire che le unghia le graffino le guance.
Chi, anche in considerazione dell´ideologia che impregna questo luogo simbolo del nazionalismo ebraico, s´aspettava discorsi infuocati, rimarrà probabilmente deluso. Non è la retorica a gonfiare le parole, ma più spesso è il pianto a spezzare la voce degli oratori. Solo in un passaggio della sua elegia, il rabbino capo della Yeshivà, Yakoov Shapira, accenna ad una critica alla dirigenza del paese: «E´ giunto il momento per tutti noi di capire che la lotta sta divampando. Tutti noi crediamo che sia ora di un capovolgimento spirituale, di avere una leadership migliore più forte e più credente. Noi tutti abitanti di Gerusalemme siamo gli obiettivi degli assassini». Molti conoscitori del mondo politico nazionalista e religioso hanno previsto una possibile risposta dei coloni all´eccidio degli studenti. Una vendetta. Davanti alla porta chiusa della biblioteca chiedo ad uno dei seminaristi quanto quest´ipotesi sia credibile. Risponde con sicurezza: «E´ il governo che deve vendicarci. Nel senso che tutti i responsabili di questa strage devono essere puniti. Se non sarà così, allora è possibile che qualcuno si alzi per fare giustizia». Poco prima, il rabbino capo sefardita Morchia Eliahu aveva ricordato a tutti che la «vendetta del sangue spetta a dio».
 
 
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME - Sul terrazzo della casa di Alaa Abu Dheim, nel villaggio di Jabel Mukaber, non lontano dalla rappresentanza delle Nazioni Unite, quasi sulla linea verde che divide Gerusalemme dai territtori, sventola il gran pavese del terrore: le bandiere verdi di Hamas, quelle nere della Jihad e quelle gialle di Hezbollah. Al piano terra, a ridosso della porta d´ingresso i familiari hanno eretto la tenda del lutto, ma molti parenti diretti non possono ricevere gli ospiti venuti per le condoglianze, perché da giovedì sera sono nelle mani della polizia israeliana, che li interroga.
Presumibilmente tra i 20 e i 25 anni, Alaa Abu Dheim qualche anno fa aveva lavorato come autista per la stessa Yeshivà Merkaz Harav in cui ha compiuto la strage di studenti. E questo dettaglio spiegherebbe come mai il terrorista sia potuto entrare tranquilamente nel cortile della scuola religiosa ed arrivare fino alla biblioteca. Sulle braccia reggeva un pacco di cartone in cui aveva nascosto il fucile mitragliatore e sette caricatori. Altro particolare emerso dalla scarna biografia del giovane assalitore della Yeshivà è che quattro mesi Alaa era stato arrestato dalla polizia israeliana ed era stato rilasciato da poche settimane. E´ in questo lasso di tempo che i palestinesi di Gerusalemme est, considerati dai servizi di sicurezza israeliani come una sorta di cavallo di troia del nazionalismo palestinese, sono tornati in primo piano con una serie di manifestazioni di protesta e di attentati sia pure minori.
Di più diranno sicuramente le autorità israeliane. Le quali, però, sono attualmente alle prese con il mistero della rivendicazione. Ce ne sono state due, la cui validità viene tuttora soppesata. La prima, giovedì sera, ad opera del fantomatico «Battaglione degli uomini liberi della Galilea - Martire Imad Mughniyeh e martiri di Gaza», portata a conoscenza della rete televisiva degli Hezbollah, Al Manar, a Beirut e successivamente comunicata anche dall´agenzia palestinese Mann. L´altra, è stata raccolta ieri pomeriggio dalla Reuter che ha ricevuto una telefonata di un anonimo esponente del Movimento islamico, Hamas, a Gaza.
Quali che siano i suoi collegamenti con l´organizzazione islamica, la polizia israeliana sembra convinta, o almeno così fa sapere, che Alaa Abu Dhein abbia agito da solo, sfruttando abilmente la carta d´identità blu concessa ai cittadini arabi di Gerusalemme est, grazie alla quale possono muoversi su tutto il territorio israeliano.
Come ai quasi tutti 253 mila palestinesi della città santa, anche ad Alaa Dhein era stato accordato lo status di «residente permanente» di Gerusalemme che, oltre a comportare la possibilità di godere di quasi tutti i sussidi e le misure di protezione sociale, come per esempio, l´assistenza sanitaria e l´indennità di disoccupazione, dà diritto a ricevere uno speciale documento d´identità, detto appunto «carta blu». Gli arabi di Gerusalemme est, contrariamente agli arabi israeliani della Galilea, non sono cittadini dello Stato ebraico, non hanno passaporto israeliano e non possono votare. Possono però viaggiare all´interno del paese e di questo privilegio s´è avvalso il terrorista per muoversi indisturbato dal suo villaggio nella parte orientale della città alla Yeshivà situata nella zona Ovest. (a. s.)
 
Segue l'analisi di Giulio Meotti dal FOGLIO,a pag.2, dal titolo " Colpire a Merkaz HaRav è come voler uccidere il Talmud ":
 

“Un attacco al cuore del sionismo”. Così lo ha definito il Jerusalem Post. I terroristi hanno uccisi otto studenti a raffiche di mitra, come a Maalot più di trent’anni fa. Anche ieri, come a Maalot, era un giorno di festa per gli ebrei. Poco prima c’era stato il massacro di Avivim, una comunità fondata da ebrei marocchini. Nove bambini uccisi, tutti sotto i dieci anni. E dopo Avivim la strage di Kiryat Shmona: diciotto gli ebrei assassinati, anche allora nove bambini. A Maalot i terroristi colpirono una città simbolo dell’immigrazione, fondata negli anni Cinquanta da migliaia di ebrei fuggiti dai paesi arabi che li perseguitavano. Ieri hanno scelto una scuola religiosa da dove escono molti dei capi delle unità combattenti di Tsahal, l’esercito israeliano, e dei rabbini israeliani. La scuola è la yeshivà Mercaz Harav, fondata nel 1924 da Avraham Yitzhak Kook, il primo rabbino capo del Mandato Britannico. Oggi ospita diverse centinaia di studenti edè il più grande centro mondiale del sionismo religioso. Raramente il fanatismo antiebraico aveva scelto con maggiore malizia il luogo da colpire. Yerach Toker, paramedico accorso fra i primi sul posto, ha detto che gli studenti avevano in mano ancora i libri sacri su cui stavano studiando. Le fotografie mostrano interi scaffali di libri sporchi di sangue, scie rosse per tutta la biblioteca. Elie Wiesel al Corriere della sera racconta che è come durante l’Olocausto, niente è più seducente della morte di uno studente talmudico con il suo caffettano, la faccia sbiancata, la barba da saggio, i boccoli con cui gli angeli lo salveranno dall’inferno, il suo essere custode delle radici, così non assimilabile. Il capo della yeshiva, Yaakov SAhapira, ha detto che “questo massacro è la continuazione di quello del 1929 a Hebron”. Quando al grido “Itbakh al Yahud!”, uccidete i giudei, un pogrom arabo cancellò le tracce della “vera presenza” ebraica, autoctona e preislamica, nella “sorella di Gerusalemme”, come David Ben Gurion chiamava Hebron. Il collegio Mercaz Harav è la più importante yeshiva del mondo, ogni altra scuola di Torah in Israele è stata fondata da ex studenti della Mercaz Harav, i famosi “Merkazniks”. Nelle intenzioni di rav Kook doveva diventare una “centrale di Torah e sionismo”. Dopo la guerra del 1967 e del 1973, da lì sono arrivati i capi dei coloni. Israele gli deve tanto dopo il disimpegno da Gaza del 2005, una delle più grandi dimostrazioni di forza del sionismo. Una resistenza pacifica, fisica ma non violenta. Gli allievi della Mercaz Harav non hanno mai mosso vendetta, anche quando i palestinesi uccidevano le donne ebree incinta e i loro figli nelle culle. Da quella scuola sono usciti tanti capi del sionismo revisionista, a cominciare dal comandante dell’Irgun, David Raziel (un moshav in Giudea ne porta il nome). Quella scuola è un misto di orgoglio e pietas, Scrittura e coraggio, purezza e ardore. Quegli studenti erano gli eredi di Rabbi Akivà, il giovane pastore che divenne il più grande rabbino del suo tempo. Nel 95 d.C. andò a Roma, ottenne l’annullamento delle leggi contro l’ebraismo. Imprigionato, i soldati romani gli strapparono le carni con degli uncini di ferro. Lui continuò a pregare, recitando “ascolta Israele”. La sala dove il terrorista ha spezzato le vite di quegli ebrei era sempre piena, notte e giorno, di studenti e studiosi. Mercaz Harav è uno dei cuori più vitali di Israele e lo dimostra l’età delle vittime. Pniel e Neria erano i più piccoli, 15 anni, Doron era il più grande, 26, aveva combattuto in Libano contro gli ascari di Hezbollah. Dal Libano non è mai tornato uno dei migliori studenti della yeshiva, Amihai Merhavia, che voleva servire nell’esercito per “difendere Israele”. In quella yeshiva faceva base anche Avital Sharansky, la moglie di Nathan che si è battuta per la liberazione del marito e la libertà degli ebrei sovietici. Yehuda Meshi Zahav, capo dello Zaka, gli ebrei timorati che dopo ogni attentato si occupano di recuperare brandelli di cogni corpo, “perché Dio possa tornare a sorridere”, ha raccontato la scena: “Tutto assomigliava a un mattatoio, il pavimento era tutto coperto di sangue, i libri sacri erano inzuppati di sangue”. La mamma di Avraham ha detto al funerale che “Dio ha scelto i fiori più belli per il suo giardino. Dio vedeva Avraham come un angelo e dobbiamo ringraziarlo per il privilegio di averlo cresciuto per sedici anni. Sedici anni di purezza e dolcezza”. Rav Kook ripeteva sempre che “una piccola luce disperde le tenebre”. Il terrorismo ha spezzato otto giovani luci, ma non lo spirito che vive a Mercaz Harav. “Questa sera i terroristi hanno interrotto la nostra gioia” ha detto uno studente. “Ma non riusciranno a distruggere ciò in cui crediamo”.

 
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