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Il Foglio Rassegna Stampa
17.11.2004 Inchiesta sull'Islam italiano
tra fondamentalismo e sottomissione

Testata:Il Foglio
Autore: Cristina Giudici
Titolo: «L'arte della politica per l'Islam di casa nostra»
A pagina 2 e 3 dell'inserto il FOGLIO del 16-11-04, pubblicava l'articolo di Cristina Giudici "L'arte della politica per l'Islam di casa nostra", che di seguito riproduciamo:
Riassunto della puntata precedente: in Italia vivono più di un milione di musulmani. Dietro le pareti domestiche si celano conflitti sempre più aspri fra mariti e mogli, che si interrogano sui propri diritti, e fra padri e figli, che vorrebbero essere italiani ma fanno fatica a coniugare i propri desideri di emancipazione con le tradizioni familiari e religiose. Come è già successo nel resto dei paesi europei, anche da noi stanno emergendo difficoltà nel rapporto con una religione che mescola Dio e politica e mette governi e partiti di fronte a dilemmi difficili da risolvere. In questa puntata ci siamo posti un interrogativo che ormai preoccupa tutti i governi occidentali, divisi fra chi crede che la tolleranza coincida con la filosofia multiculturale e chi ritiene invece che lo scontro all’interno del mondo islamico radicato in occidente metta in discussione i valori fondanti della nostra società. Qual è il rapporto reale fra la comunità islamica italiana e la politica? Non è facile capire cosa sia la democrazia per i musulmani che vivono in Italia. Per quelli che combattono in silenzio una battaglia interna sempre più cruenta, l’arte della politica si traduce in un sistema parallelo di regole, scambi, veti incrociati, lotte intestine, che si possono riassumere in un unico concetto: l’imamato. Più di duecento luoghi di culto trasformati in feudi, gestiti in modo autarchico da immigrati di diversa nazionalità che raramente possono vantare una formazione teologica e che non sono stati inviati da scuole religiose tradizionali e ufficiali dei loro paesi. Cresciuti in un sottobosco mai regolato dallo Stato italiano, si sono autoproclamati a turno capi di movimenti, partiti di fatto, schieramenti e clan per noi invisibili. Oggi in Italia esiste un islam di centro, di destra e di sinistra, con categorie spesso rovesciate, che si evolve continuamente e usa codici difficili da interpretare. Un mondo in cui si specchiano (e rimbalzano) le parole che vorremmo sentirci dire e i valori che vorremmo fossero parte anche del loro bagaglio culturale. Non è facile capire cosa sia l’occidente pluralista per gli islamici italiani. Noi ci limitiamo a dividerli in moderati e fondamentalisti, ma per loro la politica italiana è diventata il treno su cui corre veloce l’ultimo scontro, non per il potere, o almeno non solo per quello, e neanche per i potenziali finanziamenti che potrebbero ricevere in futuro dal governo, o almeno non solo per quelli, ma per vincere una guerra che si consuma senza che noi ce ne accorgiamo. Si tratta di uno scontro etico non ancora esplicito fra chi in diversi modi disprezza e odia l’occidente che si è insinuato dentro il proprio mondo e chi articola in differenti forme una tiepida lotta per il rinascimento dell’islam. Per comprendere chi siano oggi gli attori che si muovono sulla scena pubblica bisogna partire da lontano. Dagli anni Settanta, quando in Italia arrivarono i primi studenti universitari musulmani. Erano quasi tutti mediorientali e diedero vita all’Usmi, l’Unione degli studenti musulmani che, da Milano a Napoli, aprirono i primi luoghi di culto. Il loro orientamento ideologico era molto radicale. Quasi tutti facevano riferimento al pachistano al Maudidi, fondatore di Jama at al Islami e all’egiziano Sayyed Qutb, l’ideologo dei Fratelli Musulmani, che sin da allora auspicavano l’instaurazione di uno Stato islamico nel cuore dell’occidente. Bisogna aspettare fino al 1995 per avere una nuova presenza: la Grande Moschea di Roma, finanziata dal governo dell’Arabia Saudita. Nonostante il substrato ideologico tradizionalista wahabita, oggi mantiene un canale di dialogo con il governo italiano e nonostante i conflitti interni cerca di arginare la deriva delle correnti più integraliste. Sono passati trent’anni e oggi la comunità musulmana è frammentata in miriadi di associazioni e movimenti religiosi, visibili e nascosti, ma la principale contrapposizione è fra due schieramenti: quelli definiti "Sirios", i mediorientali che dirigono l’Ucoii, l’Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia (variante italiana dei Fratelli Musulmani) che, nonostante rappresentino una minoranza etnica, controllano la maggior parte delle moschee grazie a una costante opera di proselitismo (e ai sussidi di organizzazioni wahabite) e quelli chiamati "Moros", cioè i maghrebini, (in maggioranza marocchini) a loro volta divisi in due orientamenti: i salafiti (jidahhisti e non) e i riformatori che vorrebbero poter importare nella comunità islamica italiana, restia a ogni innovazione, le riforme volute dal Re Mohammed VI, che si definisce il Principe dei Credenti. A queste suddivisioni ne seguono altre due: una di tipo geografico fra il nord d’Italia, dove prevalgono i fondamentalisti, e il centro-sud, dove
si concentrano i più moderati, e una di tipo generazionale fra gli anziani, ancorati alle tradizioni religiose più rigide e i giovani – anch’essi divisi al loro interno – , che sognano una maggiore integrazione con la società italiana. Da quando l’occidente si dibatte sul dilemma della compatibilità fra islam e democrazia e gli studiosi si dividono fra scettici e gradualisti, in Italia è difficile trovare un integralista che dichiari apertamente di esserlo. Non esiste un solo salafita che ammetta di essere tale, un wahabita che dichiari la sua fede, un militante della repubblica islamica dei Fratelli Musulmani
che dica pubblicamente che la democrazia è una schifezza. E non solo perché in mezzo ci sono stati l’11 settembre e la recrudescenza del terrorismo. Lo abbiamo già raccontato nella puntata dedicata alle famiglie musulmane (pubblicata sul Foglio il 30 ottobre): in Italia come in Europa c’è una guerra interna fra chi pensa che la religione debba guidare la politica e chi ritiene che l’islam sia pronto per uscire dall’oscurantismo e diventare una religione come le altre, uno spazio spirituale per i fedeli di Allah. Dietro alle lotte pubbliche per arrivare a un’intesa con il governo italiano ed entrare a far parte della Consulta che il ministro degli Interni vorrebbe nominare (più o meno sulla falsariga del modello francese, creando finalmente un islam d’Italia) ci sono miriadi di piccoli gruppi, associazioni civili e religiose che si combattono per poter rappresentare la comunità islamica. Ed è per questo che l’arte della dissimulazione, una pratica inventata dagli sciiti per sfuggire alle persecuzioni dei sunniti, si è trasformata in una strategia molto diffusa fra leader e imam che usano due linguaggi: uno rivolto all’occidente democratico e uno diretto al proprio interno, verso i fratelli che devono alzare gli scudi contro i nemici interni, i miscredenti che hanno abbandonato la via indicata dal profeta. Perché è facile dire moderati e fondamentalisti, ma poi, quando si cerca di tracciare le linee, queste si spezzano in tanti segmenti impazziti ed è difficile sapere chi si ha di fronte. Prendiamo il caso dell’imam torinese
Bouriki Bouchta, fra i primi a costruire il sistema feudale degli imamati. Divenne famoso il 13 ottobre del 2001 perché durante una preghiera disse ai suoi seguaci che bin Laden era un fratello capace di tenere in scacco l’America. Tre giorni dopo dichiarò in una lettera scritta in terza persona che avrebbe continuato a percorrere la strada moderata per mantenere il dialogo fra musulmani e cristiani. Per chi lo conosce bene e da anni cerca di emarginarlo senza capire come faccia ad avere tanto seguito, la sua storia è emblematica perché spiega bene il rapporto distorto che oggi esiste fra la maggioranza dei musulmani e la democrazia italiana. La sua carriera inizia durante la guerra in Bosnia, quando Bouchta, allora un immigrato fra tanti che lavorava ai mercati generali e non studiava certo il Corano, si offre volontario per partecipare a un viaggio organizzato dalla Cgil per portare medicine e viveri ai bosniaci assediati dai serbi. Nessuno poteva immaginare che al suo ritorno aveva un solo incarico: far circolare le videocassette che illustravano le gesta dei mujaheddin bosniaci. Così, quando il suo maestro Abu Saad si dileguò per andare a vivere in un paese mediorientale, lui si autoproclamò imam e seguace della Salafija Jihadia d’ispirazione wahabita, vincolato, si ritiene, all’egiziano Aboufalah, ricercato in Egitto per la strage di Luxor. Da allora ha aperto macellerie, scuole coraniche, luoghi di culto nel capoluogo piemontese. Pulpiti da cui ha lanciato a intermittenza sermoni infuocati contro l’occidente o appelli per la pace e la tolleranza. Alla fine degli anni 90 si è trasformato nell’alfiere della guerra contro la secolarizzazione della comunità musulmana. In moschea istigava i giovani a obbligare le madri a svegliarsi all’alba per pregare e a batterle se non rispettavano i precetti del profeta. Ordinava ai suoi seguaci di non salutare gli infedeli, italiani e musulmani deviati, suggeriva alla donne italiane sposate con musulmani di cambiare regime alimentare, addestrava i giovani all’arte del karatè perché bisognava essere pronti a difendersi, dice va, ed emetteva continuamente scomuniche per apostasia contro chiunque lo ostacolasse. Come la fatwa emessa contro una mediatrice culturale marocchina, Sued Benkdhim, che ha cercato di combattere il suo integralismo, soprattutto riguardo ai diritti delle donne musulmane e italiane sposate con islamici, accusate pubblicamente di apostasia. Oggi alterna manifestazioni per la pace e la tolleranza alle proteste contro gli americani. Ogni volta che la guerra irachena è arrivata dentro le case degli italiani con i sequestri di cittadini italiani da parte dei teroristi, è tornato sulla scena pubblica per lanciare appelli accorati a favore della loro liberazione. Lo ha fatto per esempio con Quattrocchi, Stefio, Agliana e Cupertino, ("noi vogliamo che gli ostaggi siano liberati perché non sono andati in Iraq a combattere gli iracheni" ha dichiarato il 19 aprile), salvo poi insultarli durante i suoi sermoni limitati a un ristretto gruppo di fedeli. Ormai nessuno a Torino si fida di lui e nella sua moschea ci sono molti giovani che cercano di emarginarlo, di impedirgli di continuare a rappresentare la comunità islamica torinese, lui che, come molti altri esponenti degli imamati, non ha mai studiato il Corano ma sabato scorso ha celebrato l’Id al Fitr, la festività che segna la fine del digiuno del Ramadan in anticipo di un giorno, seguendo calcoli astronomici e teologici molto personali. Il dilemma che si trova ad affrontare il governo italiano, che prima o poi sarà costretto a riconoscere i luoghi di culto di fatto, è il seguente: se si firma un’intesa con i soli moderati, come si farà a neutralizzare tutti i leader radicali che hanno acquisito potere senza che nessuno intervenisse per fermarli, che di fatto aggregano migliaia di fedeli e che dalle moschee continuano a fare politica e a predicare la sharia? Come si fa a creare un islam italiano se, senza che nessuno se ne accorgesse, nelle città del Nord ha preso piede un nuovo movimento, illegale in Marocco, che si chiama Giustizia e Benevolenza e combatte il multipartitismo? Il loro capo spirituale si chiama Yassin Chaikh ed è nato come predicatore sufi. Arrestato dal governo marocchino, recentemente è stato rilasciato e ha riunito intorno a sé migliaia di studenti che vorrebbero tornare all’islam salafita, decontaminato dalle influenze occidentali. La sua azione più eclatante risale alla metà degli anni 90, quando, di notte, i suoi seguaci recintarono una spiaggia in Marocco per impedire alle donne di fare il bagno in costume Gradualmente, senza fare troppo rumore, i suoi fedeli hanno aperto luoghi di culto, scantinati e garage alla periferia di Torino e hanno cominciato a fare proseliti fra i commercianti. La loro struttura assomiglia a quella di una setta segreta. Organizzati in piccoli gruppi, fondano imprese commerciali che si trasformano in luoghi di raduno religiosi e politici. A Torino, la maggior parte delle macellerie sono state finanziate da questo movimento che in Marocco combatte il sistema dei partiti perché per loro l’unico rappresentante degli uomini deve essere Allah (e i suoi emissari.) Anche loro fanno ricorso alla strategia della dissimulazione se è vero, come sussurra qualcuno, che stanno cercando di infiltrarsi nel gruppo dei musulmani moderati che dovrebbero far parte della Consulta governativa voluta dal governo italiano.
Per capire meglio come funziona la società musulmana che corre sui due binari, basta ascoltare la testimonianza di Saleh Choufka, che da tempo in Toscana combatte gli estremisti, in maggioranza salafiti. Choufka, che ha fatto l’insegnante, il traduttore nei processi giudiziari e ha fondato l’Unione dei lavoratori marocchini democratici, nella speranza di portare i musulmani fuori dalle moschee, dritti dentro la società civile italiana, sa bene che la battaglia politica non è quella che si evidenzi sulla scena pubblica, ma quella che ruota intorno alle moschee. Lui, che poco tempo fa ha denunciato la circolazione di un libro censurato in Egitto, scritto dall’ideologo dei Fratelli Musulmani, Sayyed Qutb, che si intitola "Segnali sulla strada" e predica la lotta contro la democrazia in cui ha scritto "la repubblica islamica è l’unico modello politico perfetto", sa decifrare i doppi messaggi lanciati dai pulpiti delle moschee. E’ stato così durante tutto il Ramadan, un mese di digiuno che dovrebbe essere per i musulmani un periodo dedicato alla preghiera e alla contemplazione per riflettere su come servire meglio Dio e che in tutt’Italia apparentemente è stato un’occasione di incontri ecumenici ispirati al dialogo con i cristiani. "E’ accaduto spesso che alla fine della preghiera gli imam ordinassero ai fedeli di non condividere quel momento di gioia con gli italiani", spiega al Foglio. "Il messaggio era più o meno questo: andate dritti a casa senza stringere le mani a nessuno, per voi le porte del paradiso sono
aperte, non condividete la vostra gioia con gli infedeli. Purtroppo c’è molta ipocrisia all’interno della comunità musulmana: gli stessi che organizzano incontri interreligiosi con gli italiani sono quelli che poi predicano la separazione (l’hijra) dalla società italiana. Quelli di noi che invece credono veramente nei valori della democrazia e della laicità sono considerati apostati e infedeli. E’ vero, il Corano prevede come unico modello politico la consultazione (shura) e l’unica legge consentita è quella di Dio,
ma è anche vero che ormai in tutti i paesi arabi ci sono tantissimi intellettuali che cercano di modernizzare il messaggio del profeta. Purtroppo il Corano è un arma a doppio taglio: quando parla di pace, parla anche di guerra. Ecco perché per vincere la battaglia contro gli integralisti bisogna separare la religione dalla politica". Sembra facile, ma i Saleh d’Italia sanno bene che ci vorranno molti anni prima di riuscire a mettere d’accordo islam e democrazia. Guardiamo questa piccola commedia per esempio. E’ accaduta dentro una piccola moschea in provincia di Siena, a Colle Val D’Elsa. C’è un palestinese, Feaas Jabarren, che fino all’11 settembre si faceva chiamare l’emiro, (colui che è comandato ad applicare la legge) e che oggi si è trasformato in imam, (colui che guida la preghiera).
Da poco è approdato alla scena pubblica italiana perché organizza quasi ogni giorno una manifestazione pubblica con parroci ed esponenti politici a favore del dialogo ecumenico, la pace, la tolleranza. C’è un fisioterapista arrivato in Italia dieci anni fa per studiare e godere dei privilegi del "paradiso italiano", così definisce lui la nostra imperfetta democrazia. Durante il sequestro di Enzo Baldoni in Iraq ha lanciato un appello contro il terrorismo; durante quello delle due Simone ha organizzato una manifestazione per la loro liberazione. Davanti alla strage compiuta in Ossezia dai kamikaze ceceni, ha guidato un digiuno di tre giorni e ha rilasciato dichiarazioni a non finire sul nuovo nazismo (il terrorismo islamico) e le "aberrazioni commesse" nel nome dell’islam. Ai forestieri in
visita nella sua moschea mostra il suo progetto: una grande moschea con la cupola ispirata a quella del Brunelleschi e costruita con pareti di vetro che simboleggiano la trasparenza. Seduto di fronte a lui c’è
un marocchino, Yassine Belkassem, che invece non partecipa ai talk show né rilascia dichiarazioni entusiastiche sulla democra zia e sulla tolleranza. Da anni, in silenzio, combatte l’integralismo fuori e dentro le moschee per sottrarre la religione ai militanti dell’islam che dagli anni 90 hanno occupato quasi tutti i luoghi di culto. Presidente della consulta regionale sull’immigrazione di Poggibonsi, per lui la democrazia significa integrazione, e cioè case e lavoro per gli immigrati. Seduti uno di fronte all’altro discutono di islam. Jabarren, che durante i sermoni destinati ai soli fedeli lancia invettive contro tutte le donne musulmane che non portano il velo, dice ai forestieri che l’hijab è una scelta individuale, mentre Yassine lo sfida a dirgli quale sura del Corano imponga questa norma. Jabareen, che è stato soprannominato "imam di pace" ma in Toscana tutti se lo ricordano quando insultava gli ebrei, nella sua versione originale prima dell’11 settembre, spiega che il messaggio del Corano è la laicità e che la shura (la consultazione) predetta dal Corano rappresenta un modello politico ancora più rispettoso verso i diritti dell’individuo della democrazia. Jabareen, che dice che "la democrazia fa comodo", afferma che, a parte l’Arabia Saudita e l’Iran, tutti i paesi musulmani sono democratici e che l’islam non è affatto guidato dalla politica perché la "religione è dentro di noi", dice, ma anche che alla fine è Allah l’unico ad avere il diritto di vendicarsi se i musulmani non sanno comportarsi correttamente. "Noi non siamo venuti in Italia per importare l’islam", giura, "ma abbiamo lasciato l’islam per abbracciare l’Italia". A sentirlo così, nelle sue parole, potrebbe sembrare quasi un apostata, eppure Yassine Belkassem, che lo sfida in continuazione a mostrare il suo vero volto, racconta
un’altra storia, quella di un leader autoproclamato che fa finta di essere moderato per dare agli italiani ciò che vogliono sentirsi dire, in un balletto di dichiarazioni contradditorie e sommarie interpretazioni del Corano che non ha mai studiato a fondo. Yassine racconta di un dialogo interreligioso all’insegna di un’apparente tolleranza, organizzato da un membro della moschea allontanato per le sue posizioni ultra
radicali. Racconta la storia di una guerra culturale combattuta in silenzio nelle biblioteche
coraniche della Toscana per individuare i libri che arrivano dallo Yemen e o dall’Arabia Saudita, libri che predicano il disprezzo contro l’occidente. "Si tratta di libretti di predicazioni che illustrano i motivi
per i quali bisogna rifiutare la democrazia", spiega Yassine che frequenta la moschea per creare un movimento antagonista ai quello dei radicali: "Il multipartitismo non può esistere perché l’unico partito giusto è quello di Dio", traduce da uno dei libri scovati in in una moschea toscana. E ancora: "(..) la democrazia non va bene perché permette di cambiare religione mentre l’islam no, la democrazia è da combattere perché permette il laicismo e il laicismo è ignoranza, la battaglia dell’islam è quella contro l’ignoranza".
Alla fine dentro questo sistema di scatole cinesi, che impedisce di capire chi sia chi, di dividere i buoni dai cattivi, perché ogni schieramento è inflitrato da un altro, simile o concorrente, e non permette di sapere quale sia l’atteggiamento giusto da tenere nei confronti di una comunità che essenzialmente non crede nelle regole della democrazia liberale, si è persa anche la politica italiana. La sinistra, divisa fra l’antimperialismo no global e l’esigenza di portare avanti la battaglia multiculturale ma anche la necessità di difendere i valori laici, si è offerta spesso come ponte con la comunità islamica. Non si contano le iniziative locali, le manifestazioni in piazza contro la guerra, i convegni, gli incontri, i tentativi di arrivare a un dialogo con il Governo organizzati l’Ucoii, l’Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia, che si ispirano all’ideologia dei Fratelli musulmani. Fa niente se il progetto dei Fratelli, fondati nel 1923 da Hasan al Banna, fosse quello di radicalizzare il fondamentalismo islamico attraverso una struttura segreta paramilitare nella quale si differenziavano tre gradi di affiliazione progressiva, dal fratello assistente a quello combattente, e che prima e dopo la Seconda guerra mondiale i Fratelli fossero vicini alle potenze dell’Asse, come ricorda nel suo libro "Islam, l’altra civiltà", Ahmad Abd al-Waliyy Vincenzo, docente di diritto islamico all’università di Napoli, convertito al sufismo e membro di un’associazione, il Coreis, che aggrega musulmani italiani convertiti e moderati. E fa niente se il loro obiettivo non dichiarato sia ancora oggi quello di reislamizzare l’occidente usando un doppio linguaggio che semina confusione e ambiguità, facendo leva sulle aperture obbligate di una società democratica. Perché la sinistra non si è trovata solo ad affrontare il paradosso di Tariq Ramadan, nipote del fondatore dei Fratelli musulmani ed ex consulente della Commissione europea durante la presidenza di Romano Prodi, che alle conferenze pubbliche all’università (anche italiane) parla della necessità di democratizzare i paesi musulmani e dall’altra profetizza che l’Europa prima o poi dovrà rivolgersi all’islam per ritrovare la dimensione di spiritualità
irreversibilmente perduta, come spiega Renzo Guolo nel suo saggio "L’islam è compatibile con la democrazia?". In Francia Tariq Ramadan è diventato un caso controverso dopo la pubblicazione del libro inchiesta di Caroline Fourest. La Fourest ha studiato i suoi sermoni, accusandolo di sviluppare "un discorso per l’orecchio che ascolta" che gli ha permesso di parlare di democrazia e annunciare un tempo in cui la sharia sarà legge anche in Europa, come auspicano da settant’anni i Fratelli musulmani
(i suoi libri sono tradotti dalla casa editrice dell’Ucoii). Alla fine è facile confondersi se il segretario dell’Ucoii è un italiano convertito che si chiama Hamza Piccardo, negli anni 70 militava in Autonomia
Operaia e oggi firma sia i documenti con i gruppi che partecipano ai campi antimperialisti che la versione italiana del Corano più integralista che circoli nelle moschee. Uno che, nonostante abbia invitato tutte le moschee ad aprire le porte agli italiani in nome della tolleranza e della libertà religiosa alla fine del Ramadan, poi, sottovoce, critica aspramente tutti coloro che si battono per allontanare l’islam dalla militanza politica e formare uno schieramento più moderato. Secondo i moderati infatti l’Ucoii è l’organizzazione che fino a oggi ha ostacolato la possibilità di arrivare a un’intesa con il governo italiano e rappresenta il principale impedimento per trovare un accordo sulla Consulta. Nella bozza di intesa scritta a metà degli anni 90 "in nome di Dio il Compassionevole, il Misericordioso",
l’Ucoii chiedeva allo Stato italiano il monopolio e l’assoluta discrezionalità nella scelta delle guide di culto (che invece il governo vorrebbe affidare al ministero degli Interni) "senza dover dare ai magistrati o ad altre autorità notizia di cui siano venuti a conoscenza durante il loro magistero", si legge nel loro testo originale pubblicato sul sito internet dell’Ucoii. Una richiesta pesante, se si considera il processo di radicalizzazione politica che ha preso piede nelle moschee durante la seconda metà degli anni 90. Nella bozza d’intesa si chiedeva anche l’inserimento dell’ora di religione nelle scuole pubbliche, che sarebbe stata impartita da insegnanti preparati dall’Ucoii (e con programmi redatti da loro stessi) e la libertà di istituire scuole coraniche "di ogni ordine e grado e istituti di educazione". Riguardo ai matrimoni, invece, sollecitava la facoltà di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi "senza alcun effetto o rilevanza civile secondo la tradizione islamica". Infine, si chiedeva il riconoscimento da parte dello Stato italiano che delegasse all’Ucoii "la tutela delle tradizioni islamiche, le attività della comunità e i contatti con gli enti islamici degli altri paesi". Insomma uno Stato regolato dalla svaria dentro uno stato laico. E oggi cosa pensano? Hanno cambiato idea? Il presidente dell’Ucoii si chiama Mohamed Nour Dachan ed è un medico siriano. Fuggito vent’anni fa dal suo paese, dove lo hanno condannato a morte per la sua appartenenza ai Fratelli Musulmani (lui però nega). Durante il rapimento di Enzo Baldoni e il sequestro delle due Simone è volato a Baghdad per parlare con gli ulema iracheni. Da anni è sulla scena pubblica italiana e si batte per ottenere il riconoscimento dell’Ucoii come unico rappresentante della comunità musulmana italiana. Oggi è al vertice di una struttura di potere, quella
dei Sirios, che controlla la maggioranza dei luoghi di culto. Per lui non esiste nessun tentativo di separazione dalla società italiana, anzi. "Lavoriamo per l’integrazione, ma ci battiamo per la libertà di culto prevista dalla Costituzione italiana", spiega al Foglio. "Abbiamo cento uomini pronti a diventare guide di culto negli ospedali, nelle carceri, nelle scuole. Vogliamo poterli scegliere nei nostri centri per sapienza, carattere e carisma. Noi siamo per la democrazia e infatti nella nostra proposta di intesa non
abbiamo mai chiesto allo Stato italiano la facoltà di poter celebrare unioni poligamiche", insiste. Fa niente se dice che il velo è un ordine coranico che non si può discuteree chi lo fa cerca solo di giustificare l’atteggiamento sbagliato della propria moglie che viola un precetto del Corano. O che bisogna stare attenti ai matrimoni misti perché le donne italiane non sanno a cosa vanno incontro e devono imparare ad accettare che il capo famiglia è il padre e prima o poi dovranno tornare nei paesi di origine dei loro mariti e accettare le regole dell’islam. "Noi siamo contro la violenza", spiega. "Se la nostra fede è migliore, non c’è bisogno di nessuna imposizione", dice. A sentire lui, che organizza dialoghi ecumenici per la pace, usa parole severe contro il terrorismo ma recentemente, in una moschea romana, ha raccolto soldi per i fratelli palestinesi alla fine della preghiera, come ci ha raccontato un esponente della Grande Moschea di Roma che osserva con attenzione il processo di radicalizzazione in corso in alcune aree del nord d’Italia, chi sposa un musulmano alla fine si converte perché scopre presto che, per la religione islamica, le donne, nate da una costola dell’uomo, sono delle regine perché vengono scelte dagli uomini non per la loro bellezza o per la loro ricchezza, ma secondo le leggi di Dio (come diceva il profeta "Il paradiso è sotto i piedi della madre"). Insomma per Dachan le tensioni culturali, gli scontri politici all’interno della comunità musulmana, i conflitti all’interno dellefamiglie sono dei falsi problemi perché la democrazia non è affatto incompatibile con l’islam e se nei paesi musulmani oggi ci sono soprattutto dittatori non è colpa del Corano, ma delle potenze coloniali che hanno costruito governi fantocci. Alla fine per Dachan la questione islamica è semplice: "In Italia non esistono moderati o fondamentalisti, ma solo musulmani. O si crede o non si crede" Se la sinistra si interroga su come coniugare i valori laici con l’islam, inciampando nei limiti della filosofia multiculturale, a destra sembra tutto più facile. E non solo perché esiste una vasta letteratura che ha indugiato a lungo sui rapporti fra i militanti del Corano e il nazionalsocialismo, come spiega Stefano Fabei nel suo libro "Il fascio, la svastica e la mezzaluna", in cui calcola il sangue versato dai soldati musulmani per la Germania nazista (13 mila siriani, 60 mila fra bosniaci croati, montenegrini e albanesi, 117 mila caucasici morti in prima linea e così via). E neanche perché Nietzsche ha individuato
nell’islam la forza che avrebbe rigenerato l’Europa o perché Ezra Pound ha inserito il profeta fra le grandi personalità cosmico- storiche e così via, passando da Guenon, ( convertito al sufismo), Evola, Gabriele D’Annunzio (convinto che dall’islam sarebbe venuta la forza nuova), fino a Mussolini, che
si fece fotografare mentre sguainava una simbolica spada dell’islam e nel 1937 fondò a Roma l’Associazione musulmana del littorio (Aml). Oggi quel legame ideale è tenuto in vita da molti italiani fascisti convertiti che predicano (guarda un po’) un islam moderato e anche dalla Grande Moschea di Roma, che pratica (guarda un po’) un islam moderato (o almeno cerca di arginare l’integralismo salafita), sostenuta fra gli altri da un rautiano di ferro, Antonio Cicchetti, che da anni si batte per trovare nuovi spazi ai musulmani d’Italia. E’ stato lui, l’ex sindaco di Rieti, eletto per ben due volte con una maggioranza quasi bulgara, (oggi assessore dimissionario dei Lavori Pubblici del Comune), che alla Grande Moschea di Roma è di casa, ad aprire il primo cimitero islamico al camposanto di Rieti: cinquanta tombe austere rivolte verso la Mecca, circondate da quelle cattoliche e divise da due ulivi da quelle ebraiche. Interrate a pochi mesi di distanza dall’attentato alle Torri gemelle. Cicchetti ha aperto una moschea in campagna, a pochi chilometri dalla città, dentro una scuola elementare abbandonata dove all’ingresso c’è ancora l’effigie della Vergine Maria e un cartellone che avvisa i fedeli: "Qui c’è un parroco egiziano". Sempre Cicchetti ha dedicato un’ala della biblioteca comunale alla lettura dei libri sacri che vengono dall’Arabia Saudita e ha sostenuto la campagna elettorale del primo sindaco straniero d’Italia nel comune di Tarano: Tuemi Garnawi, nato in Tunisia settanta (mezze)lune fa. Per lui, che si dichiara fascista, la questione è più che semplice: "Mi piacciono gli uomini che credono", dice, "e i musulmani sono fra i pochi a credere ancora in qualcosa". Il suo non è affatto un islam fatto di tolleranza, multiculturalità e così via. Per Cicchetti queste parole non vogliono dire nulla. No, a lui la religione islamica piace perché rappresenta il pensiero forte contro quello gracile della sinistra, un antidoto contro il nichilismo dell’occidente che ha sostituito gli idoli sacri con quelli del consumo e del denaro. Certo, in mezzo ci sono le leggende della storia, come quella della difesa di Berlino, nella primavera del 1945, fatta dalla divisione SS di volontari francesi Charle Magne, secondo lui formata soprattutto da musulmani bosniaci. Gli ufficiali nazisti riparati nei paesi mediorientali, Sadat e Nasser processati per collaborazionismo. E poi quell’amicizia personale con Abdullah Assan, membro della famiglia reale afghana e moschettiere del duce morto a Rieti alla metà degli anni 90. Ma alla
fine ciò che conta per lui e per molti altri, che non esitano a definirsi fascisti, e se non si sono convertiti sono diventati paladini dell’islam d’Italia, è che i musulmani siano gli ultimi uomini disposti a sacrificarsi per un’idea, per difendere la famiglia, l’ideale di una patria, che si chiama la casa dell’islam, dar al islam. E infatti a Cicchetti non interessanoaffatto le discussioni sulla divisione fra islamici moderati e fondamentalisti perché anche, lui come Dachan, pensa sia un falso problema: o uno è musulmano o uno è laico, punto e a capo. E poi un giorno qualcuno dovrà riscriverla la storia della Palestina e della guerra in Iraq, e magari ridefinire chi sono le vittime e quali gli eroi, così almeno la
pensa lui. E così la pensa anche Tueni Garnawi, tunisino, 4 lauree alla Sorbona, unico sindaco immigrato e naturalizzato italiano mai eletto nella storia della Repubblica italiana. Un intellettuale eletto in una lista di centrodestra che si definisce laico e vorrebbe valorizzare la cultura di un piccolo paese contadino di mille anime. "L’islam è un modello politico", dice, "che non prevede affatto
la democrazia. Non si può mettere d’accordo il Corano con i valori laici. Se il terrorismo è una reazione da parte di popoli schiacciati dalle ex potenze coloniali e dagli Stati Uniti, il fondamentalismo religioso
coincide con il Corano. Non ci sono gradualismi o riforme che possano modificarlo e anche quelle fatte dal governo marocchino sono solamente degli aggiustamenti interni, la cornice non cambia e poi chi lo ha detto che la democrazia sia la panacea di tutti i mali?".
Così, a condurre la battaglia cruciale, non rimangono che loro. I moderati, quelli che per comodità potremmo definire i musulmani di centro. Non perché amino Follini o Casini o la Margherita. No, è solo che si trovano nel mezzo di una bufera dove si combatte la guerra per il rinascimento dell’islam o se vogliamo solo per la democrazia. Sono quelli che recentemente hanno firmato il manifesto dei musulmani contro il terrorismo e per questo si guardano intorno in modo guardingo, soprattutto perché hanno ricevuto parecchie minacce anonime da parte degli integralisti d’Italia che si muovono nell’ombra. Quelli che vorrebbero sottrarre la loro religione al controllo della politica per creare un islam della società civile, perfettamente integrata nella società italiana. Soprattutto giovani e donne, sospesi fra il desiderio di emancipazione e la paura dell’estremismo. Come Sued Benkhdim che a Torino difende donne e adolescenti dall’aggressione ideologica degli imam, vittime della
reislamizzazione che scompone le famiglie. O come Suad Sbai, che dirige l’associazione delle donne marocchine italiane (Acmid- Donna) per difendere i loro diritti civili e si batte per l’integrazione dei musulmani, lontano dalle moschee. Musulmani che non vogliono mescolarsi all’ambiguità di chi
parla un linguaggio in codice e lancia doppi messaggi. Che pensano che non ci possa essere democrazia senza laicità e diffondono il pensiero degli intellettuali liberali che sfidano gli Ulema e ci tengono a far sapere che anche all’università di Al Azar c’è chi ritiene che il velo non sia affatto un ordine coranico, solo per fare un esempio. Giovani come Khalid Chaouki, presidente dell’Associazione dei giovani musulmani d’Italia, nata da una costola dell’Ucoii, che ha provato a ribellarsi – per il momento senza troppo successo – contro i propri padri perché sogna un islam laico, pluralista. Perché vorrebbe
praticare una religione che non fosse militante e vorrebbe una comunità musulmana che espugni le roccaforti degli imamati feudali. Perché ha capito che lo scontro interno all’islam italiano è una cosa seria e che l’Olanda non è così lontana. "Noi vogliamo mantenere il legame con i precetti del Corano, ma non siamo disposti ad accettare le zone grigie", spiega Khalid. "Vogliamo che si discuta del velo, delle discoteche, dell’omicidio di Theo van Gogh, dei conflitti in famiglia, delle violenze commesse in nome di una religione che per noi è un messaggio di pace e di tolleranza. Vogliamo che in Italia si leggano i pensatori liberali e non i predicatori dell’Arabia Saudita, vogliamo la democrazia". Insomma, la questione del rapporto distorto fra "l’islam di casa nostra" e la democrazia italiana è una battaglia politica e culturale che si combatte senza esclusione di colpi, se è vero, come è vero, che
Khalid, come tutti i musulmani di centro, è stato accusato a turno di deviazionismo dalla strada illuminata dal profeta millequattrocento anni fa solo perché sostiene che per costruire l’islam d’Italia bisogna uscire dalle moschee e dai ghetti della comunità per mescolarsi con gli italiani, senza timore di perdere le proprie radici, perché bisogna agire prima che sia troppo tardi, per impedire che la questione islamica diventi irrisolvibile, perché è arrivato il momento di togliere l’islam d’Italia dalle tenebre. Perché alla fine la questione si può riassumere in una sola parola: Salam, che vuol dire la pace da cui deriva un'altra parola, islam che vuol dire sottomettiti. Ma qual è la verità?
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