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Il Foglio Rassegna Stampa
16.07.2022 La strategia della destabilizzazione russa
Due analisi di Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 16 luglio 2022
Pagina: 1
Autore: Paola Peduzzi
Titolo: «Putin esporta gas e caos, ma non è detto che un governo che cade generi più instabilità di un gasdotto rimasto aperto. La scelta è nostra - I mezzi del terrore»

Riprendiamo dal FOGLIO  di oggi, 16/07/2022, a pag. 1, con i titoli "Putin esporta gas e caos, ma non è detto che un governo che cade generi più instabilità di un gasdotto rimasto aperto. La scelta è nostra", "I mezzi del terrore", due commenti di Paola Peduzzi.

Ecco gli articoli:

"Putin esporta gas e caos, ma non è detto che un governo che cade generi più instabilità di un gasdotto rimasto aperto. La scelta è nostra"

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Paola Peduzzi

Milano. Vladimir Putin esporta gas e instabilità assieme, riempie le proprie casse con il primo e rafforza il proprio potere con la seconda, lo fa da tempo immemore anche se l’occidente ne ha avuto contezza piena e inequivocabile soltanto quando il presidente russo ha mostrato con le armi e la violenza il suo progetto terrorista contro l’Ucraina e quindi contro di noi. Sono almeno dieci anni che parliamo della strategia della destabilizzazione russa – l’abbiamo definita “interferenza” per illuderci che fosse innocua – ma abbiamo fatto poco per contenerla, così ha attecchito in Europa e in America, nei cuori, nelle menti e nei partiti politici divisi tra chi si lasciava ammaliare dal putinismo e tentava di imitarlo, e chi invece pensava che potesse essere integrato e gestito. Nessuno o quasi ha mai davvero pensato che fosse necessario fermare le esportazioni russe pur sapendo quanto fossero redditizie per Putin. Poi la guerra ha strappato il velo e siamo rimasti nudi. Indifesi anche? No, non è detto, la difesa è una scelta. Anche lasciare che Putin riesca a trarre profitto dall’instabilità occidentale, proprio come lo fa con il gas, è una scelta. Così come è una scelta lasciare che, per fare un esempio, la caduta di Boris Johnson sia strumentalizzata come un regalo a Putin: non lo è. A ben vedere, il premier britannico forse sarebbe stato cacciato prima se Putin non avesse fatto la guerra, e in ogni caso chiunque verrà dopo Johnson non sarà certo meno alleato dell’Ucraina – foss’anche un laburista, figuratevi un po’. Lo stesso si può dire dell’instabilità francese: Emmanuel Macron è un’anatra zoppa perché non ha più la maggioranza in Parlamento e questo è un altro regalo a Putin (sottotesto: l’occidente è fragile, la democrazia è fragile)? La Francia vive da sempre di coabitazioni politiche complicate, farà più fatica oggi perché questa particolare convivenza è scomodissima, ma lasciare che Putin ne tragga profitto è, di nuovo, una scelta. Le telefonate inconcludenti di Macron a Mosca o la retorica del “non umiliamo Putin” come se non fosse Putin a umiliare noi hanno creato instabilità, eccome. E ancora: l’attuale crisi italiana è sì sciagurata, perché ci siamo sparati sui piedi, ed è sì piena di incognite spaventevoli sulla tenuta dei paesi europei in mezzo a guerra, inflazione e ristrettezza energetica, ma non è che sia così più pericolosa della stabilissima cautela dello stabilissimo governo di Berlino che è rimasto nudo come tutti noi ma che non si è ancora deciso a difendersi, tranciando la propria dipendenza dalle risorse russe senza impantanarsi nei rimandi. Se guardiamo all’America poi la scelta diventa ancora più chiara. Sono settimane che si parla di quanto sia vecchio e impopolare Joe Biden, discettando del 2024 come se fosse domani quando ancora non c’è stato nemmeno il voto di metà mandato. Intanto candido e spregiudicato come solo lui sa essere Donald Trump, cioè il presidente che nel 2016 fu eletto anche grazie a un aiutino della destabilizzazione russa, dice in un’intervista a Olivia Nuzzi del New York che lui la sua decisione l’ha già presa, si ricandiderà, deve solo decidere se annunciarla prima o dopo il voto di metà mandato. La vedete la differenza, sì? L’instabilità si può governare, il bello delle democrazie è che lo sanno fare senza lanciare missili sulle scuole dei vicini, ma va anche bloccata l’esportazione russa di gas e caos – forse col gas si fa prima.

"I mezzi del terrore"

La Russia che chiude Memorial è un Paese che restaura il passato - di Anna  Zafesova [editoriale]
Vladimir Putin

Milano. Paul Urey è morto il 10 luglio di malattia e stress in prigione, hanno detto le autorità della sedicente repubblica di Donetsk, nel Donbas occupato da Mosca. Il volontario britannico era stato catturato ad aprile, a un checkpoint di Zaporizhzhia, nel sud-est dell’Ucraina: i russi lo avevano accusato di essere un mercenario. Aveva con sé l’insulina, di cui aveva bisogno per il diabete, ma i russi dicono che le sue condizioni erano preoccupanti dal punto di vista fisico e mentale: “Era in uno stato di depressione perché sentiva l’indifferenza nei confronti del suo destino da parte della sua patria”, hanno detto. La sua patria, Londra, ieri ha chiesto urgenti chiarimenti che non arriveranno, così come la Croce Rossa non è mai stata autorizzata a visitarlo. Gli stranieri che vengono catturati dai russi sono tutti accusati di essere mercenari e molti russi chiedono la pena di morte per questi ostaggi, così come per gli altri prigionieri ucraini. Non si sa nulla delle loro condizioni, non sono permessi contatti con le famiglie, non si sa nemmeno dove siano imprigionati, anche se molti sono nella regione di Donetsk. Lo stress e l’indifferenza dei suoi hanno ucciso Urey, dicono i russi, così come i civili che muoiono sotto i missili che cadono nei centri abitati, sulle università, sui centri commerciali, ovunque, mirano, secondo loro, a obiettivi militari. Nelle regioni occupate dei russi, civili e politici ucraini sono imprigionati e torturati. Vladimir Putin vuole tenere in ostaggio un’intera nazione e a volte ci mostra, con quei colpi mortali lontanissimi dal fronte, come a Vinnytsia e a Dnipro, le esecuzioni sommarie, proprio come fanno i terroristi.

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