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Il Foglio Rassegna Stampa
17.08.2013 Suicidi in Iran
commento di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 17 agosto 2013
Pagina: 13
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il suicidio dell'Iran»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/08/2013, a pag. IX, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Il suicidio dell'Iran".


Hassan Rohani            Il figlio suicida di Rohani

Ufficialmente in Iran il suicidio non esiste. Si chiama “depressione” o “attacco di cuore”. Ammetterne l’esistenza sarebbe una sconfitta del regime islamico degli ayatollah. Lo stesso avveniva nella Germania dell’est, capitale mondiale dei suicidi fino agli inizi degli anni Novanta. Una terribile realtà enunciata così nel magnifico film “Le vite degli altri”: “Il dipartimento centrale di statistiche della Ddr in Hans-Beimler-Strasse registra tutto, sa tutto. Quante paia di scarpe compriamo ogni anno (due, tre), quanti libri leggiamo ogni anno (tre, due) e quanti studenti superano brillantemente ogni anno l’esame di maturità (6,347). Ma c’è una cifra che non viene aggiornata, forse perché anche ai burocratici fa impressione: quella del numero di suicidi. A chi telefonasse in Beimler-Strasse per chiedere quante persone la disperazione ha indotto a togliersi la vita tra l’Elba e l’Oder, tra il mar Baltico e la frontiera meridionale, l’oracolo delle statistiche non risponderebbe. Probabilmente passerebbe subito il nome dell’incauto che ha chiamato alla Stasi, il servizio segreto di stato che tutela la sicurezza e la felicità dei cittadini della Ddr. Nel 1977 il nostro paese ha smesso di conteggiare i suicidi”.
C’è un suicidio spettacolare, indicibile, segreto e inconfessabile che oggi fa arrossire la teocrazia iraniana. E’ quello del figlio del nuovo presidente, Hassan Rohani. Avvenne nel 1992. Il figlio di Rohani lasciò un biglietto prima di uccidersi. Si tratta di una lettera di accusa indirizzata al padre, allora funzionario della Difesa e ayatollah in ascesa: “Odio il tuo governo, le tue menzogne, la tua corruzione, la tua religione, le tue doppiezze, la tua ipocrisia. Mi vergogno a vivere in questo ambiente, dove ogni giorno devo mentire ai miei amici, spiegare loro che mio padre non fa parte di tutto questo. Dire che mio padre ama questo paese, che non è vero. Mi fa star male vederti, padre, baciare la mano di Khamenei (la Guida Suprema, ndr)”. Dopo gli incidenti, la seconda causa di morte in Iran oggi è il suicidio. L’Iran ha il triste primato mondiale dei suicidi con una media tra i venticinque e i trenta casi su centomila (contro una media di 11,5).
Negli ultimi tre anni il tasso di suicidi in Iran è salito del diciassette per cento. Ogni giorno dieci iraniani si tolgono la vita. Hanno scelto la morte tanti intellettuali, blogger, ayatollah dissidenti, ordinari cittadini finiti sotto la mannaia del regime. E’ il suicidio a svelare il volto oscuro e terribile della Repubblica islamica dell’Iran. Ogni giorno, l’ospedale Loqman della capitale Teheran ricovera decine di pazienti che hanno cercato di togliersi la vita in numerosi modi. Le stesse strutture mediche cercano di tenere nascosti questi dati. Secondo il quotidiano Sedaya Edalat, l’Organizzazione medica iraniana avrebbe ordinato di “non comunicare alcun dato ufficiale al riguardo”. Nelle zone rurali, una delle cause dei suicidi sono i matrimoni combinati, ai quali le bambine possono essere costrette sin dall’età di nove anni. Il blogger Omidreza Mirsayafi aveva trent’anni quando si è tolto la vita nel famigerato carcere di Evin, la Lubianka iraniana. “Dedicava la maggior parte dei suoi articoli alla musica tradizionale persiana e alla cultura”, comunicherà Information Safety and Freedom. Mirsayafi non era un politico, ma a costargli la vita è stata la critica dei leader iraniani. “Omidreza soffriva di un’acuta forma di depressione e avrebbe abusato dei farmaci”, recita il bollettino ufficiale. Sembra scritta dagli ascari di Honecker.
Dalle finestre della cella, Mirsayafi poteva vedere l’area dove ancora oggi uomini e donne vengono seppelliti fino al collo e presi a sassate finché non muoiono. Il blogger aveva scritto: “Vivere nel paese di Khomeini è nauseante, vivere in un paese il cui presidente è Ahmadinejad è una grande vergogna”. Il suo primo post su Internet era del settembre 2006: “Cos’è la libertà? Non lo so, ma so che un giorno vedrò la sua ombra scendere sulla mia terra”. Due anni e mezzo dopo telefona alla madre dal carcere. Parlano della depressione, lei chiede se ha preso le medicine per il cuore che gli ha prescritto il medico. Omidreza morì di lì a poco. Il suo blog, in farsi “Rouznegar”, significa “il diario dello scrittore”. Tutto per lui cambia il 22 giugno del 2007, quando fa nomi e cognomi dei responsabili della tortura del suo popolo. Mirsayafi sapeva di essere entrato in un territorio incandescente, ma sapeva anche di essere un semplice blogger senza celebrità all’estero. Invece, per quelle poche righe, è finito nella cellula numero sette, sezione cinque, di Evin. Tre anni fa si è ucciso a Los Angeles, dove viveva in esilio, anche lo scrittore Mansour Khaksar, che aveva fatto la prigione sia sotto la monarchia dei Pahlavi che sotto gli ayatollah islamici. Stessa sorte per Siamak Pourzand. Aveva già tentato il suicidio due volte, la seconda con i suoi pantaloni. C’è riuscito gettandosi dal sesto piano della sua abitazione a Teheran. La sua storia tragica inizia con l’incontro con il “Vishinsky iraniano”, il giudice Jafar Saberi. Le imputazioni contro il decano del giornalismo iraniano si erano srotolate come un catalogo ben rodato: “Propaganda contro il sistema islamico”, “spionaggio a favore di governi stranieri”, e ancora “emigrato”, “collaborazionista”, “servo”. Pourzand era stato accusato anche del crimine per antonomasia nella repubblica della sharia: aver dichiarato “guerra contro Dio”, mohareb, e poi di “relazioni sessuali illecite”, e persino di “consumo di vino”. Nel mercuriale iraniano corrisponde a novantanove frustate. Il “Gandhi di Teheran”, come veniva chiamato Pourzand, non ha retto alla brutale repressione.
C’è chi lo ha paragonato a Jan Palach, lo studente praghese che si diede fuoco per protestare contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia. Altri hanno accostato il suo nome a quello di Szmul Zygielbojm, l’ebreo polacco che nel 1943, in segno di protesta contro l’indifferenza degli Alleati nei confronti dell’Olocausto in fieri, si uccise con il gas a Londra. Altri ancora a Nelson Mandela e a Václav Havel. Eminente giornalista e critico prima della presa di potere islamista del 1979, Pourzand aveva subito più di un trentennio di attacchi per mano del regime, compreso un rapimento da parte dei servizi di sicurezza e diversi anni di reclusione nel famigerato carcere di Evin. Era noto ad alcuni intellettuali europei, specie per via della sua passata collaborazione alla rivista francese di critica cinematografica Cahiers du Cinéma. A favore di Pourzand nel 2006 era intervenuto anche il vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Fra le accuse a Pourzand, quella da lui “confessata” in televisione di aver avuto contatti con Reza Pahlavi, il figlio dello Scià. La tv di stato iraniana ha trasmesso ripetutamente le sue parole estorte con la tortura: “Il mio obiettivo era promuovere la promiscuità culturale e creare disillusione tra i giovani. Io e i miei amici volevamo promuovere la cultura occidentale, e uno stato secolare”. Quando nel 2009 la polizia iraniana ha ucciso per strada Neda Soltan, la ragazza simbolo delle proteste giovanili, Pourzand disse: “Hanno ucciso mia figlia”. La famiglia ha chiesto che il dissidente venisse sepolto nel cimitero di Teheran riservato agli artisti, il Behesht-e Zahra. No, ha risposto il regime, perché “Pourzand ha vissuto ed è morto in maniera non islamica”. Prima della rivoluzione khomeinista, Pourzand faceva il corrispondente per il giornale iraniano Keyahn.
Tra le altre cose, aveva intervistato il presidente Richard Nixon e raccontato il funerale di John F. Kennedy. I servizi segreti iraniani iniziarono a seguirlo da vicino quando nel 1998 raccontò il funerale dei coniugi Dariush e Parvaneh Forouhar, due intellettuali che erano stati uccisi nel loro appartamento di Teheran. Nel 2001 fu catturato dai servizi segreti vicino alla casa di sua sorella, a Teheran. Fu interrogato e torturato ripetutamente, nonostante avesse già oltre settant’anni. Fu costretto a “confessare” in televisione di fronte al giudice e ad alcuni giornalisti che il governo aveva istruito per l’occasione. Quando uno di questi fece una domanda che non era “prevista”, Pourzand si rivolse al suo avvocato d’ufficio e chiese: “Questa non era nell’elenco, che cosa devo dire?”. Dagli Stati Uniti gli ha scritto una lettera postuma una delle figlie, Azadeh: “Ho sentito dire che per un momento ti sei aggrappato al bordo del balcone prima di lasciarti andare. E’ stato perché ti stavi pentendo della tua decisione? O perché per un secondo hai creduto di sentirmi bussare alla porta? Il pensiero di te che ti tieni aggrappato al bordo di quel balcone per un momento prima di lasciare che la morte prenda il sopravvento mi uccide, trapassa i miei occhi come una spina appuntita. Mi manchi così tanto, papà. Mi sei mancato per anni. Non te ne faccio una colpa, neanche per un momento. Avevi tutto il diritto di cercare la libertà in questo modo. Sappi soltanto che ora il pensiero della tua testa infranta su quel terreno, il tuo sorriso meraviglioso e tutte le cose che mi hai sempre detto mi danno forza e, al tempo stesso, mi fanno morire ogni secondo di una brutta morte”.
Si è ucciso anche Ali-Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo scià dell’Iran, con un colpo di pistola nel suo appartamento di Boston, dove viveva in esilio. La famiglia, al momento del suicidio, ha dichiarato che “come milioni di giovani iraniani, anche lui era molto disturbato dalle sventure capitate alla sua patria, ma portava anche il peso della morte del padre (nel 1980 in Egitto, dove era stato costretto a riparare dopo la rivoluzione) e della scomparsa della sorella (che si era suicidata nel 2001, a trentuno anni, per depressione e overdose di farmaci)”. Ha tentato il suicidio anche Ali Tehrani, il cognato dell’ayatollah Khamenei, sposato alla sorella Badri, e che ha trascorso diversi periodi al confino e in carcere per aver condotto una campagna contro i leader religiosi iraniani. Si sono suicidati Nahal Sahabi e Behnam Ganji, una giovane coppia iraniana, lei maestra d’asilo e lui studente, innamorati e pieni di speranze per il futuro, vittime di un regime crudele che ha distrutto le loro vite semplicemente perché Ganji divideva un appartamento con un attivista per i diritti umani. Ganji è stato detenuto per otto giorni, alcuni dei quali in isolamento. Quando è uscito era un uomo distrutto. Si rifiutava di parlare del suo tormento carcerario. Non voleva vedere i suoi amici né rispondere alle telefonate. Si è ucciso con una overdose di medicinali. Anche Sahabi è rimasta nel carcere di Evin per tre giorni, vivendo nel continuo incubo di essere violentata. Si è suicidata nella sua stanza, nella casa dei genitori a Teheran. Come il suo ragazzo, lo ha fatto con un’overdose. E lo ha fatto nello stesso giorno della settimana, il martedì. Le ultime parole sul blog sono state di qualche giorno prima: “E’ di nuovo giovedì. Vieni Behnam. Balliamo insieme ancora una volta di giovedì”. C’è un libro proibito oggi in Iran. Si intitola “Il gufo cieco”.
Venne scritto da Sadeq Hedayat, il capostipite della letteratura iraniana moderna, anche lui morto suicida a Parigi, oppositore sia dello Scià che dei fedeli dell’imam Khomeini. Hedayat è l’autore di racconti come “Sepolto vivo”, un poderoso atto d’accusa contro “l’Iran dei religiosi inturbantati”. L’Iran di oggi è come il gufo di Hedayat. Un magnifico uccello notturno. Ma cieco al futuro. Questo, forse, aveva visto il figlio di Hassan Rohani prima di premere il grilletto della pistola del padre. Si uccise, simbolo tragico del suicidio dell’Iran contemporaneo, con l’arma della Rivoluzione.

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