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Il Foglio Rassegna Stampa
20.10.2012 Le pretese arabe sul Monte del Tempio
Raccontate da Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 20 ottobre 2012
Pagina: 2
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «La guerra del Tempio»

Sul FOGLIO di oggi, 20/10/2012, a pag. II dell'inserto, con il titolo " La guerra del Tempio ", Giulio Meotti racconta con accuratezza le vicende che coinvolgono il Monte Moriah, sul quale si trovano due moschee, costruite su quelle che erano le rovine del Tempio ebraico.
Ecco l'articolo:

Modello del Tempio

Può un pezzo di inferno avere tutta questa importanza strategica? A Gerusalemme, domino millenario in cui un pezzo cade sull’altro in un incredibile proscenio di volte, cripte, tombe e stele, in grandissima parte ebraiche, ma anche musulmane e cristiane, è in corso una guerra attorno al monte del Tempio e le valli circostanti piene di memorie ancestrali, accanto alla collina di Sion conquistata da David in battaglia, sopra la memoria antica dei fuochi notturni della Gehenna, dove strapiomba l’inferno, e il monte degli Ulivi, che sovrasta nero e punteggiato dell’oro dei santuari la Porta dell’Immondizia, dove strane tombe arcaiche adornano il fondovalle. Nella montagna dove l’umanità ha ricevuto in dono il monoteismo, nella città del Messia passato e futuro, si gioca il destino di Yerushalaim o al Quds, a seconda di chi prega. Il primo Tempio fu costruito nel 957 a. C. da Salomone, figlio di David, e distrutto da Nabucodonosor che trascinò via gli ebrei da Gerusalemme nel 586 a. C. Il secondo Tempio, iniziato per opera di Erode dopo che Ciro il Grande permise agli ebrei di tornare a Gerusalemme nel 537 a. C., fu distrutto dai romani nel 70 d. C. Giuseppe Flavio descrive la presa del Tempio, le fiamme, le stragi, le crocifissioni fuori dalle mura e l’Arco di Tito, a Roma, immortala nei bassorilievi la tragedia del popolo ebraico in catene trascinato nella diaspora. Spezzoni dell’ebraismo israeliano stanno adesso cercando di riportare il culto ebraico sul monte del Tempio. Sono le braci di una nuova guerra per Gerusalemme. Dinamite in cui si mescolano politica, religione e archeologia attorno a una zona che Geremia chiamò la “valle delle stragi”, dove Plutarco racconta che i preti del dio Moloch cantavano a squarciagola per coprire le urla dei sacrificati vivi. Quando nel 2000 l’allora premier Ariel Sharon fece la famosa passeggiata sulla Spianata delle Moschee, in molti dissero che l’ex premier israeliano sarebbe stato “l’ultimo ebreo” a farvi visita. Nei giorni successivi i palestinesi lanciarono la Terza Intifada e per tre anni il monte rimase chiuso agli ebrei. Oggi, ogni giorno, decine di israeliani salgono al Monte. In teoria lo stato ebraico controlla il luogo sacro. In realtà, un accordo con le autorità islamiche sancito nel 1967, ha reso illegale ogni tipo di culto ebraico. Moshe Dayan, l’eroe di guerra con la benda all’occhio, quando l’esercito israeliano riprese la città dai giordani dichiarò: “Se lascio la bandiera sul monte, domani verranno a pregarci, poi ci sarà una sinagoga, poi i sacrifici e in futuro vorranno costruire il tempio, che il cielo non voglia”. Gli ebrei religiosi vogliono rovesciare questo status quo. “Non siamo nel ghetto di Lodz”, scandiscono gli attivisti. Così si calcola che diecimila ebrei ogni mese salgano alla sacra montagna. Impensabile, fino a un paio di anni fa, che un giornale come Haaretz pubblicasse l’editoriale di tre giorni fa, dal titolo: “Let people pray”. Lasciateli pregare. Prima di accedere al sito, gli ebrei attendono un’ora al sole, assieme ai turisti. Una volta sul monte sono scortati dalla polizia e da ufficiali del Waqf, l’ente islamico che supervisiona il luogo. Gli ebrei possono essere arrestati se sostano a lungo in un punto, se portano con sé oggetti o libri religiosi, se piegano la testa in segno di preghiera, se sillabano il nome di Dio, se tirano fuori un foglio di carta dal portafogli o persino se chiudono gli occhi, in segno di ispirazione. Eppure, mai come oggi è forte il culto del Tempio. E non sono soltanto spezzoni della destra religiosa a tenerlo vivo. Come scrive il quotidiano Haaretz, salire sulla montagna più sacra del mondo è diventato un gesto “mainstream” anche per l’ebraismo moderato. Nel Council for the Prevention of Destruction of Antiquities on the Temple Mount compaiono anche due icone della sinistra israeliana come gli scrittori Abraham B. Yehoshua e Amos Oz. Arresti di ebrei da parte della polizia israeliana sono diventati una routine. L’ultimo due settimane fa. Una retata ha portato via numerosi rabbini e attivisti, fra cui Moshe Feiglin, che nel Likud contende la leadership al premier Benjamin Netanyahu, e HagaiWeiss, figlio del professore della Bar Ilan University, Hillel Weiss. I palestinesi negano che ci sia qualsiasi legame fra gli ebrei e la montagna che ospita anche le magnifiche moschee. Yasser Arafat fece del negazionismo del Tempio il cuore della sua politica araba a Gerusalemme. Nel luglio 2000, durante il summit di Camp David tra Bill Clinton, Arafat ed Ehud Barak, Arafat se ne uscì con una novità assoluta: “Il Tempio degli ebrei è un mito”, un negazionismo che l’archeologo Gabriel Barkan chiama “ancora peggiore di quello della Shoah”. Clinton perse la calma e lo apostrofò di fronte a tutti: “La diffido dal ripetere simili stupidaggini”. “Sono solo grandi menzogne”, ha detto il Mufti di Gerusalemme, Ikrima Sabri, al recente ritrovamento di un sigillo di tremila anni fa nel terriccio asportato dalla Spianata delle Moschee. Secondo l’archeologo Barkan sarebbe appartenuto a un funzionario di un monarca della dinastia di re David. Anche la nomenclatura mondiale della cultura, come l’Unesco, fa di tutto per sbiadire ogni legame ebraico con la montagna. Tempio? Nel XXI secolo? Cosa c’è sotto il monte del Tempio? Niente, secondo molti. L’Arca dell’alleanza, quella che conteneva le tavole della legge del Sinai, secondo una serie di rabbini guidati da Meir Getz, che scoprì il sottosuolo alcuni anni fa. Il giornalista israeliano Nadav Shragai, che ha scritto il libro “The Temple Mount Conflict”, scrive che secondo Maimonide re Salomone sapeva che il Tempio sarebbe stato distrutto, per cui “costruì una struttura nel sottosuolo dove nascondere l’Arca”. Così oggi si scava all’impazzata da ogni parte per riportare alla luce la vita ebraica che fu. La figura chiave in questa avventura nera e affascinante è un rabbino di nome Yisrael Ariel, il capo del Temple Institute, che nel 1967 da paracadutista contribuì a riprendere la città vecchia della capitale israeliana. Dopo aver dato la scalata alle mura, giunsero le elettrizzanti parole del comandante Motta Gur: “Il monte del Tempio è in mano nostra! Il monte del Tempio è in mano nostra!”. Oggi l’istituto di Ariel sta ricreando la vita religiosa nel Tempio prima della distruzione, fra cui un altare di difficile manifattura perché deve essere composto da pietre non tagliate. Negli anni l’istituto, già visitato da milioni di israeliani, ha ricreato settanta oggetti rituali, compresi il candelabro d’oro e i famosi “mahzorim”, i libri di preghiera. Un movimento iniziato nel 1989, quando i fedeli di una organizzazione ebraica posarono una pietra angolare, “la prima pietra del terzo Tempio”, nei pressi del muro del pianto. Una pietra di un metro cubo, estratta da una cava presso Mitzpe Ramon, nel deserto del Negev, e squadrata senza far uso di arnesi metallici, nel rispetto della prescrizione salomonica. Una cerimonia simbolica che la polizia israeliana autorizzò all’ingresso della Spianata delle Moschee. Secondo sondaggi recenti, soltanto il 17 per cento degli israeliani vorrebbe vedere un tempio ricostruito sulla celebre montagna, ma ben il 93 per cento, dunque gran parte dell’Israele laica, è a favore di riportare in qualche forma il culto sul sito più conteso al mondo. Oggi persino deputati moderati, come Otniel Schneller di Kadima, partecipano a seminari sul Tempio. Appena vent’anni fa, era il 1993, il rabbino capo Mordechai Eliahu disse che era ridicolo pensare di ricostruire il Tempio perché questo sarebbe “calato dal cielo”. Il ventre della montagna cova dunque una guerra e intanto c’è la corsa ad accaparrarsi ogni casa e collina che si affacci sul monte. Una vasta “mezzaluna ebraica” dovrebbe avvolgere i lati sud ed est della città vecchia, a partire dalla vallata di Hinnom (la “Gehenna”), per proseguire sul monte Sion, nel rione di Silwan, lambire il monte degli Ulivi, spingersi nella valle di Kidron e finire nella zona del monte Scopus. Il cuore di questa guerra è il rione Ras al Mud, lungo la strada maestra che da Gerusalemme conduce a Gerico, eretto alle pendici di uno sperone che la Bibbia chiama “montagna della Perdizione”. Da questo luogo, un tempo ricoperto di cedri, veniva il grasso utilizzato per “ungere” re e sacerdoti. Secondo la leggenda, veniva dall’odierno Ras el Amud il ramo d’ulivo che la colomba diede a Noè per annunciargli la fine del diluvio e il ritiro delle acque. Sempre da lì Gesù guardava Gerusalemme prevedendone la distruzione. E’ il monte su cui la “Shekhinah”, la Presenza di Dio, si trasferì quando il Tempio fu distrutto dai romani. Lì risorgeranno gli uomini al momento del giudizio universale. La terra restituirà i corpi di ciascuno e anche chi non è seppellito vi giungerà per risorgere. A Silwan, quartiere da anni conteso, la violenza è di casa da millenni. Tremila anni fa questo sperone roccioso fu teatro di una battaglia fra la tribù cananea dei Gebusei e il giudeo David che, proveniente da Betlemme, lo espugnò passando sotto alle fortificazioni, dalle viscere della terra. Nella parte superiore dello sperone il re ebreo avrebbe costruito il proprio palazzo. Il figlio, Salomone, avrebbe in seguito eretto il Tempio. Oggi lì archeologi israeliani scavano senza sosta per trovare i resti del castello fortificato di Davide. Si possono immaginare i pellegrini che salivano le scale verso le Porte di Culda e cantavano il Salmo 126: “Quando il Signore fece ritornare i prigionieri a Sion, eravamo come in un sogno”. Qui pochi metri quadrati di tunnel sono considerati il punto più vicino al Sancta Sanctorum della religione ebraica, il luogo in cui si trovava l’Arca dell’Alleanza e le tavole della legge. Vi si arriva percorrendo un cunicolo stretto, che rimase senza uscita, per non rischiare una crisi internazionale e una intifada degli abitanti arabi, fino al settembre 1996, quando per ordine dell’allora premier Netanyahu venne costruita l’ultima parte del tunnel (ci furono ottanta morti negli scontri). Oggi soldati israeliani sorvegliano notte e giorno la porta blindata del sotterraneo che dà nel cuore del quartiere islamico, di fronte alla Via Dolorosa dei cristiani. Oggi i dirigenti palestinesi accusano Israele di mettere in pericolo la stabilità del “Nobile Santuario”, Al Haram al Sharif, da dove Maometto secondo la tradizione musulmana salì in cielo in sella al cavallo Buraq. Yitzhak Rabin, che sapeva dell’esistenza del corridoio, non aveva voluto aprirlo, mentre aveva permesso che continuassero silenziosamente i lavori di scavo. Sotto la città vecchia di Gerusalemme c’è dunque un universo parallelo fatto di tunnel che lambiscono il monte. Non vi si respira lo smog del traffico in superficie, né ci sono le sassaiole fra la polizia e i militanti palestinesi. Meir Margalit, consigliere comunale del partito di sinistra Meretz, dice che i nazionalisti stanno agendo su tre livelli: “In superficie, sui tetti e sottoterra”. Il municipio della capitale replica che stanno invece portando in dono al mondo “la più grande scoperta culturale e archeologica dell’ultimo secolo”. E’ in questi tunnel che sorgevano le botteghe da cui Cristo voleva cacciare i mercanti. La loro apertura porta benefici economici anche agli abitanti arabi della città. Cinque sono i tunnel della discordia: quelli del Muro del pianto, il parco della città di Davide, il tunnel che dal quartiere musulmano va alla piazza del Muro e quello di Zedekiah, che si estende sotto la zona islamica. A sud della Moschea al Aqsa, che ha dato il nome alla Seconda Intifada, gli archeologi stanno penetrando in un tunnel descritto duemila anni fa dallo storico Giuseppe Flavio. Alle pendici del Monte, quel tunnel era stato usato dagli ebrei dell’epoca per sfuggire ai romani. Un cartello informa: “E’ il posto più vicino al Sancta Sanctorum”, ossia al luogo più segreto di Gerusalemme. Il mondo islamico ne ha fatto una delle leggende nere: dice che Israele con i tunnel voglia far crollare le moschee che sorgono sopra il Muro del pianto. Ce n’è abbastanza per incendiare di nuovo il medio oriente. Quattro anni fa anche l’ex first lady Laura Bush andò là sotto a pregare. Ogni contenzioso territoriale a Gerusalemme è un rebus legale tra arabi ed ebrei prestato inevitabilmente alla politica. Sul fazzoletto di terra più conteso del mondo regna un caos giuridico che risale ai tempi in cui Gerusalemme era parte dell’impero ottomano. I turchi avevano imposto nel 1858 una legge catastale, chiedendo che tutte le terre e le proprietà fossero esaminate e registrate al Tabou, il catasto. La terra era stata divisa secondo la legge agraria ottomana in cinque classi di proprietà: mulk, proprietà assoluta (mobile o immobile); miri, proprietà dello stato; wakf, proprietà delle istituzioni religiose; metruke, terreni lasciati a uso pubblico; mewat, terra considerata morta, come le dune sabbiose o le montagne di roccia. La zona archeologica ebraica di Silwan è gestita da un’organizzazione della destra religiosa, Elad, che riceve fondi pubblici e che l’ha ribattezzata “Ir David”, città di Davide (fra i benefattori dell’organizzazione ci sarebbe anche il miliardario russo Roman Abramovich). Frotte di turisti si accalcano ogni giorno su queste rocce, mentre un video tridimensionale ripercorre tremila anni di storia e dice che “la Gerusalemme ebraica iniziò proprio qua”, sullo sperone conquistato dal re David. Intanto il piccolo conglomerato ebraico di Beit Yonatan sorge in mezzo agli arabi di Silwan. Una vita di trincea. Sopra le case sono state costruite gigantesche menorah, i candelabri ebraici, di legno, mentre la tomba di Simeone il Giusto, un saggio del Talmud, fa da magnete per i nazionalisti israeliani. La sinistra israeliana dice che i religiosi nazionalisti dal monte del Tempio pianificano la presa del paese. Già trent’anni fa uno scrittore israeliano, Yona Yagol, pubblicò un libriccino di fantapolitica intitolato: “Putsch sul monte del Tempio”. Per decenni i rabbini ortodossi hanno vietato agli ebrei di entrare nel monte, per il timore che inavvertitamente entrassero nel perimetro più intimo e santo del Tempio distrutto. Oggi però molti rabbini hanno “ritagliato” nella Spianata “zone sicure”, dove è lecito entrare. Gli archeologi, diretti da Ronny Reich, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, attorno alla montagna hanno scoperto la famosa piscina di Siloam, quella in cui Gesù ha curato un uomo cieco dalla nascita, e poi anche un anello d’oro appartenuto ai sacerdoti del Tempio, le spade romane usate nel sacco di Gerusalemme e molte monete con iscrizioni ebraiche. I lavori archeologici sono accompagnati dal ritorno, letterale, di comunità ebraiche nei rioni arabi di Gerusalemme. Se si ripopolano i quartieri attorno al monte sarà più facile garantire il diritto di culto. Il quartiere di Maaleh Zeitim sorge fra l’orto del Getsemani e il monte degli Ulivi, luoghi sacri anche ai cristiani (lì Gesù resuscitò Lazzaro ed esiste un’impressionante cupa vestigia della sua tomba) e sovrasta letteralmente la moschea di al Aqsa. Quando ancora prima del 1967 il monte Scopus era un’enclave, vi si trovava l’ospedale dove ogni giorno arrivava un convoglio di medici attraverso il territorio arabo (furono uccisi a dozzine in un attacco terroristico). Lungo la strada c’è il quartiere di Sheikh Jarrah, con l’edificio che divenne lo Shepherd Hotel, di cui Netanyahu ha dato mano libera, in nome della “sovranità sull’intera città”, alla demolizione perché un tempo era abitato dal mufti palestinese alleato di Hitler, Amin al Husseini. Fu Ehud Olmert, da sindaco di Gerusalemme, ad approvare il piano di duecento unità abitative ebraiche nella zona fra Kfar Shiloah e Har Ha Zeitim, a ridosso del monte degli Ulivi. Un’isola con un muro di cinta nel cuore di un villaggio arabo. Netanyahu ha concesso poi agli ebrei una “testa di ponte” ebraica nel rione arabo alle pendici del monte degli Ulivi. Il progetto è finanziato da un milionario americano di Miami, il dottor Irving Moskowitz, figlio di poverissimi profughi polacchi e padre di otto figli (di cui due rabbini) che ha perso ben centoventi parenti nell’Olocausto. Moskowitz ha finanziato il Beit Orot, un collegio rabbinico sul monte degli Ulivi a breve distanza dalla casa del dirigente palestinese Faisal Husseini. Beit Orot in ebraico significa “Casa delle luci” e i suoi abitanti dicono: “Dalla nostra scuola faremo luce su Gerusalemme”. All’inaugurazione c’era l’ex candidato alle primarie presidenziali degli Stati Uniti, Mike Huckabee, e l’attore Jon Voight, padre di Angelina Jolie. Si corre per conquistare la valle del Kidron, giù nello sprofondo, un viaggio nella notte dei tempi di Gerusalemme menzionata undici volte nella Bibbia, nota come valle dei Re o Giòsafat. La tomba a piramide è di Zaccaria, condannato a morte per aver profetizzato la caduta del Tempio. Poiché il monte degli Ulivi è ottanta metri più alto del monte del Tempio è diventato un luogo di lamento. Nel suo cimitero gli ebrei seppelliscono da tremila anni. E’ il luogo strategico per “tenere” Gerusalemme. Lì soggiornarono la decima legione dell’imperatore Tito, i crociati nel 1099 e i britannici nel 1917. A lungo il cimitero è stato trascurato da Israele. Durante i diciotto anni di dominio giordano, dal 1948 al 1967, centinaia di tombe ebraiche furono distrutte. Durante la Seconda Intifada era rischioso avventurarsi lassù e le famiglie dei defunti lasciavano il corpo alla società funeraria, scortata dalla polizia. Poi ci hanno pensato “i coloni”, una decina di famiglie che oggi vivono in un palazzo con la bandiera israeliana sul tetto. Quando gli attivisti hanno chiesto a Moskowitz se avesse altre richieste, il dottore ha risposto: “Tenete duro e salutatemi Gerusalemme”. Domani, dopo lo Shabbat, in tanti ritenteranno “la salita” nella metropoli della morte e della resurrezione.

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