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La Stampa Rassegna Stampa
13.09.2022 Il Cremlino tentato dall'escalation
Commento di Anna Zafesova

Testata: La Stampa
Data: 13 settembre 2022
Pagina: 15
Autore: Anna Zafesova
Titolo: «'Picchiare più duro su obiettivi civili', il Cremlino tentato dall'escalation»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/09/2022, a pag. 15, con il titolo " 'Picchiare più duro su obiettivi civili', il Cremlino tentato dall'escalation", l'analisi di Anna Zafesova.

Anna Zafesova | ISPI

Anna Zafesova

Holding Russia to account for war crimes | Financial Times

Il ministero dell'Istruzione russo ha già diramato la circolare per inserire la «operazione militare speciale» nel corso scolastico di storia. Vista da Kharkiv e Kherson, dove l'esercito ucraino continua a liberare territori occupati, appare una mossa un po' prematura, ma Vladimir Putin continua a mantenere il silenzio riguardo alla fuga del suo esercito dal Nordest dell'Ucraina, e in assenza di indicazioni la sua macchina della propaganda fa finta che non sia successo nulla. L'ex presidente Dmitry Medvedev ripete che l'unico obiettivo della Russia è la «capitolazione di Kiev alle nostre condizioni», il patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill predica la «grande missione storica globale della Russia e del suo popolo», e la Commissione elettorale informa sul successo dei candidati del regime nelle elezioni locali (dopo l'arresto di decine di contestatori, e falsificazioni totali). Nel campo mediatico ufficiale la catastrofe sul fronte non esiste, e quindi anche la convocazione del Consiglio di sicurezza – l'organismo consultivo del quale fanno parte i principali ministri, i capi dei servizi segreti e i presidenti delle camere – per venerdì prossimo viene presentata come un appuntamento di ordinaria amministrazione. La realtà però filtra dai talk show e dai giornali, dai canali Telegram e perfino da qualche fonte ufficiale, come il deputato e membro del comitato per la sicurezza della Duma Mikhail Sheremet che dichiara ad alta voce quello che è il dilemma del Cremlino: «Non riusciremo a ottenere risultati senza una mobilitazione generale». La trasformazione della «operazione militare speciale» in guerra totale, senza eufemismi, viene chiesta a gran voce dai nazionalisti dei gruppi più estremi, ma anche da molti militari in cerca di giustificazioni per la loro disfatta, e dai propagandisti televisivi. Il fallimento della campagna di reclutamento strisciante – con gli emissari del Cremlino che hanno cercato volontari perfino nelle prigioni e negli ospizi per i senzatetto – era evidente ancora prima della controffensiva ucraina, ma ora la quantità (per non parlare della qualità) dei potenziali arruolati sta tendendo allo zero, nonostante la promessa di stipendi vertiginosi. Il fronte dei radicali chiede il sangue degli ucraini, e applaude ai bombardamenti delle centrali elettriche che domenica hanno lasciato senza luce diverse città, ma è una rappresaglia più che una iniziativa strategica, anche se il politologo putiniano Sergey Markov teorizza l'estrema crudeltà nei confronti dei civili: «Le masse disprezzano i deboli e amano la durezza, più li picchiamo oggi più la Russia verrà amata in Ucraina domani». L'idea che i risultati si ottengano solo con la forza, e che l'assenza del risultato è dovuta solo a una mancanza di spietatezza, è radicata profondamente nella cultura politica del putinismo, e l'esperto d'opposizione Abbas Galyamov dice che al Cremlino «le soluzioni moderate ormai non vengono nemmeno discusse, e i moderati hanno paura di venire accusati di collusione con il nemico». Le soluzioni radicali però stanno incontrando un limite fisico: la Russia non è in grado di proseguire la guerra, meno che mai di vincerla. I corrispondenti di guerra, la forza d'attacco della propaganda russa, stanno scrivendo che Izyum e Kupiansk sono state perse «non agli ucraini, ma direttamente alle truppe Nato», e raccontano di «soldati di colore che parlano inglese»: fake news che forse devono giustificare la sconfitta militare russa, ma potrebbero essere anche rivolte a mobilitare i russi. Difficile però che i russi che stiano perdendo lavoro a causa delle sanzioni – Putin ieri ha parlato di 234.000 nuovi disoccupati, ma le stime sono molto più elevate – vorranno barattare un impiego in una multinazionale con una trincea nel Donbass. Galyamov ritiene che la chiamata forzata alle armi farà precipitare una «rivoluzione», i cui primi segni si vedono nella rivolta dei deputati municipali di Mosca e Pietroburgo: ieri il numero dei consigli di quartiere che hanno chiesto le dimissioni di Putin era arrivato a 18, un gesto istituzionalmente irrilevante, ma politicamente impensabile fino a due giorni prima. Il margine di manovra diventa dunque sempre più ristretto, e per Mosca girano voci di un licenziamento del ministro della Difesa Sergey Shoigu, una buona candidatura a capro espiatorio per i militari. In vent'anni però Putin non ha mai praticato licenziamenti clamorosi: è contrario a farsi condizionare dall'opinione pubblica, e in più cacciare un ministro che era diventato uno dei cortigiani preferiti del presidente significherebbe ammettere che la guerra non sta andando bene.

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