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Donne e Jihadismo. Il caso di Milano deve farci riflettere
Stefano Piazza intervista Francesco Bergoglio Errico
(dal Mattino della Domenica)
Stefano Piazza Francesco Bergoglio Errico Dal vostro studio Donne e Jihad emergono una quantità di dati impressionanti che mostrano come la radicalizzazione e talvolta l’azione violenta non siano più un solo affare per uomini. Partendo dal presupposto che non esiste un ‹‹processo di radicalizzazione tipo››, analizzando i casi specifici – come si può riscontrare nel rapporto – si possono estrapolare quei fattori che incidono maggiormente nel percorso verso l’ideologia jihadista. A livello generale, nel caso delle donne, possiamo trovare tre fattori o percorsi principali: Può essere il partner o marito che, essendo già connesso ad un network virtuale o fisico, influenza la propria congiunta verso lo jihadismo. Può essere il nucleo famigliare, nel quale si possono trovare uno o più esponenti – ad esempio il fratello, la madre o un cugino– che sono già imperniati di jihadismo. Altro percorso, invece, è quando la donna, in modo autonomo o semi-autonomo, finisce nella rete di un gruppetto di amiche e conoscenti o di un network virtuale, dove trova il germe del jihad e un nuovo senso della vita. Ciò premesso, è utile dire che tali percorsi possono anche coesistere tra di loro.
Può tracciare una tipologia della donna che si avvicina ai circoli dell’Islam riletto nella maniera più estrema e violenta? Chi sono queste donne e cosa vogliono? Riguardo a chi sono queste donne e cosa vogliono, mi limito a dire che sono delle jihadiste e in quanto tali sono un pericolo per la sicurezza internazionale e delle rispettive nazioni di appartenenza, indipendentemente dal fatto che siano attive a livello di operatività terroristica in senso stretto, anche perché allevare i propri figli secondo una dottrina distorta e violenta – cosa che spesso accade – è azione alquanto inumana e deprecabile.
Quante sono le donne che hanno scelto la jihad a livello globale e quante sono quelle europee? Non è facile stimare quante sono le donne che rientrano nel cappello del jihadismo. Tuttavia, il rapporto dell’ICSR From DAESH to Diaspora ha tentato di stimare il numero totale mondiale di soggetti legati ad Islamic State. Questo rapporto ci dice che sul totale di 41490 affiliati, il 13% sono donne. Nello specifico, le donne provenienti dall’Europa occidentale sono 1023 (il 17%), mentre quelle provenienti dall’Europa dell’est compresa la Russia sono 1396 (23%). Dati enormemente significativi in quanto dimostrano che l’Europa ha espresso il maggior numero di donne affiliate ad Islamic State. Inoltre, è interessante comparare questo dato con quello dell’area dei Paesi a maggioranza islamica – area MENA (Middle East and North Africa) -, la quale regione ha espresso 1081 donne affiliate (6%). Detto ciò, è chiaro che all’interno dell’Europa il fenomeno Islamic State abbia attecchito considerevolmente il mondo femminile più di quanto al Qaida e altri gruppi abbiano fatto in passato. Per quanto riguarda l’Italia nel rapporto vengono analizzati 18 procedimenti penali concernenti 20 donne imputate per terrorismo jihadista e 20 donne che non sono state imputate ma che hanno avuto legami stretti con gli indagati. Il numero di 40 donne può sembrare di poco spessore; tuttavia, il livello di radicalizzazione raggiunto da molte di esse è cosa alquanto rilevante e, soprattutto, vorrei sottolineare come la nozione di ‹‹donna vittima›› sia fuorviante. Oggi la donna è parte attiva del sistema!
È un fenomeno in crescita? E perché? Vorrei innanzitutto far presente che la crescita del numero di donne jihadiste anche nelle nostre società occidentali è un fenomeno che nel passato non era così pronunciato per via di questioni dottrinali interne al mondo qaedista e salafita-jihadista più in generale. Se da un lato il mondo qaedista è rimasto un sistema settoriale e altamente pragmatico che vede la donna non come una componente attiva delle cellule terroristiche, dall’altro lato Islamic State ha aperto la porta del jihad anche al mondo femminile tramite l’utilizzo preciso di hadith decontestualizzate e destoricizzate. Tuttavia, ciò non significa che al Qaida non utilizzi le donne. Altresì, ritengo che il maggior numero di donne jihadiste sia un effetto voluto della strategia ‹‹populista›› dell’Islamic State e se vogliamo dell’idea utopica di costituire il Califfato, che è stato sconfitto territorialmente ma non ideologicamente. Tale strategia, tra le altre cose, trae origine dal fatto che le donne sono parte fondante della ‹‹nuova società islamica››,visto la loro intrinseca capacità di generare nuovi soldati, nonché parte della progettazione e della mera esecuzione dell’attività terroristica. Inoltre, tengo a precisare che lo jihadismo non è presente solo in Europa, ma lo si trova anche in India, in Africa centrale e nel Sud Est asiatico, nel quale si sono registrati numerosi attacchi terroristici commessi da interi nuclei famigliari.
E come si combatte? Infine, sul come si combatte è difficile rispondere. A mio parere, se da un lato lo jihadismo si combatte tramite strumenti repressivi quali le espulsioni e, in particolare, la fattispecie normativa introdotta dall’art.270 bis c.p. che prevede l’anticipazione della soglia dell’intervento penale. Dall’altro questa ideologia violenta la si contrasta tramite attività preventive che si devono basare su delle azioni culturalmente adeguate che abbiano un riflesso multidisciplinare e di ampio respiro, partendo dalle scuole, dalla formazione degli insegnati, fino ad arrivare soprattutto nei luoghi sociali più emarginati. https://www.confessioni-elvetiche.ch/ |
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