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La Stampa Rassegna Stampa
04.07.2021 Ebrei in Iran: quello che rimane di una antica e fiorente comunità
L'articolo omissivo di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 04 luglio 2021
Pagina: 23
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «Nella Teheran degli ebrei persiani fedeli alla Repubblica Islamica»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/07/2021, a pag.23, con il titolo "Nella Teheran degli ebrei persiani fedeli alla Repubblica Islamica", il commento di Giordano Stabile.

Dopo l'ascesa al potere degli islamisti, seguita alla cacciata dello Shah, il primo gesto di Khomeini fu di impiccare il presidente della più importante banca persiana, un ebreo. Stabile non lo ricorda e disegna un quadro idilliaco per la comunità ebraica in Iran, ma il suo articolo è segnato dalle omissioni. Non viene detto che il numero degli ebrei nel Paese degli ayatollah è in continua diminuzione, della miseria prevalente e del disprezzo in cui viene tenuta la comunità ebraica e si fa solo un cenno alla limitazione dei diritti per gli ebrei, che non possono accedere ad alcune cariche e impieghi.

Ecco l'articolo:

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Giordano Stabile

Jews in Iran freely observe their religion, communal leader says - The  Jerusalem Post
Una cerimonia religiosa ebraica in Iran

La mezuzah è ben in vista sullo stipite della porta a casa di Maryam Yashayaie, nel quartiere residenziale di Tavanir, in quella Teheran che con i suoi viali alberati sale sempre più ripida verso le montagne, verso il fresco, e anche nella scala sociale. È una zona di professionisti, medici, avvocati, e le famiglie ebraiche sono ancora numerose. È uno dei paradossi della Repubblica islamica, il più acerrimo nemico di Israele, ma che vuole preservare ottimi rapporti con la sua comunità ebraica, la più importante del Medio Oriente, 25 mila persone in tutto il Paese, diecimila nella capitale. Dopo la nascita dello Stato ebraico le grandi comunità di Baghdad, Aleppo, Damasco, Alessandria sono scomparse, gli abitanti sono emigrati, o cacciati in massa, specie in seguito alla disfatta araba nella guerra dei Sei giorni del 1967. Gli ebrei iraniani hanno seguito un'altra traiettoria. Prima sotto lo scià alleato degli americani, in buoni rapporti persino con il Mossad. E poi con l'ayatollah Ruhollah Khomeini, che dopo la vittoria non dimenticò i rivoluzionari curati e nascosti nell'ospedale ebraico di Sapir ed emanò una fatwa in loro protezione, anche se poco dopo dichiarò Israele il «piccolo Satana», accanto al «grande Satana», gli Usa. In ogni caso le mezuzah, questo simbolo di protezione e volontà di preservare la propria fede all'ingresso di casa, sono rimaste. E così centinaia di sinagoghe grandi e piccole, quaranta solo a Teheran. Nel salone Maryam Yashayaie tiene una foto del figlio dopo la cerimonia per la maggiore età e una del padre, Haroon, a lungo alla guida della comunità ebraica, una figura stimata da tutti. Ricorda quando l'ex presidente Mahmoud Ahmadinejad cominciò con le sue provocazioni, la minimizzazione dell'Olocausto, la proposta di trasferire gli ebrei israeliani in Austria o Germania. «Mio padre gli scrisse subito una lettera — ricorda -. E gli chiese di ritirare quei propositi assurdi. Non ha mai ricevuto risposta». Haron Yashayaie si dimise poco dopo, ma passato il periodo burrascoso di Ahmadinejad le cose sono tornate alla normalità. «Godiamo di quasi tutti i diritti civili — precisa Yashayaie, giornalista scientifica specializzata in medicina — anche se siamo esclusi dalle forze armate e da alcune posizioni apicali nella pubblica amministrazione e nel settore giudiziario. Ma per esempio partecipiamo alle elezioni come tutti gli altri. Io ho votato il dottor Hemmati, che purtroppo è andato molto male». Sul vincitore, il nuovo presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, il giudizio è ancora sospeso. «Nella comunità abbiamo accolto con sollievo il fatto che la moglie sia andata subito in visita alla sinagoga di Yazd. È un segnale positivo, anche se non sorprendente». Per il regime è importante dimostrare che non è antisemita e che tutela le minoranze religiose. Le visite degli ayatollah sono frequenti, specie per le festività più importanti. Il grande tabù resta Israele. Pregare al muro del Pianto è uno dei sogni di Yashayaie, come di tutti i suoi correligionari, ma è consapevole che un viaggio verso lo Stato ebraico può essere senza ritorno. «In teoria è proibito e rischi di non poter tornare indietro o perdere la cittadinanza, anche se alcuni sono riusciti ad andare, passando per altri Paesi». Un conto però è la Terra promessa, un conto il governo israeliano: «Non condivido la politica nei confronti dei palestinesi: non riconoscere i diritti degli arabi è stato il grande errore di Benjamin Netanyahu. È uno degli errori degli ashkenaziti». Gli ebrei persiani fanno parte dei mizrahi, quelli mediorientali, e sostengono di essere arrivati in Iran «2600 anni fa, ai tempi della grande cattività babilonese». Allora l'impero persiano era un rifugio dalle persecuzioni del re Nabuccodonosor. Un'affinità elettiva che culminò con Ciro il Grande, l'editto perla libertà di culto in tutte le terre sotto il suo dominio, la possibilità per gli ebrei del ritorno in Israele. La memoria storica ha attraversato decine di regimi diversi ma si è riverberato fino alla fatwa di Khomeini, che stabiliva la protezione di ebrei, cristiani, e persino zoroastriani, la religione tradizionale prima dell'arrivo dell'islam. Con la repubblica islamica la comunità si è però chiusa in se stessa, con meno contatti verso il mondo esterno, tesa soprattutto a preservare le tradizioni, senza immischiarsi troppo con la politica. La sera gli uomini si riuniscono in sinagoga, a leggere i libri sacri e a pregare. Quella di Youssef Abad, costruita dal grande rabbino Abri Shamir, è una delle più frequentate. La scritta in ebraico all'esterno resta nascosta dalle fronde dei platani, l'interno è magnifico, con due grandi menorah dorate, i candelabri ebraici, sulla parete dietro il bimah, il podio, e una serie di orologi accanto all'hekhál, l'arca. Servono a conoscere con precisione il momento di ogni preghiera. «L'ebraismo è tutto digiuni e salmi, non le consiglio di convertirsi», scherza il rabbino Elias Yahoo. Sui banchi vicino all'entrata sono disponibili per tutti i libri sacri. Ne apre uno, con le righe in ebraico in caratteri più grandi, e la traduzione in persiano sotto. Nella comunità pochissimi parlano l'ebraico e tutta la vita quotidiana si svolge in farsi. Ma i testi sacri vengono preservati con cura certosina e le preghiere riecheggiano la lingua dei profeti. Anche sugli altipiani iranici così lontani dalla Terra promessa.

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