Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
21.01.2022 Viaggio ad Auschwitz
Analisi di Tonia Mastrobuoni

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 21 gennaio 2022
Pagina: 15
Autore: Tonia Mastrobuoni
Titolo: «A due passi dal Lager»

Riprendiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA di oggi, 21/01/2022, a pag. 15, con il titolo "A due passi dal Lager", l'analisi di Tonia Mastrobuoni.

Risultati immagini per tonia mastrobuoni repubblica

Tonia Mastrobuoni

Polonia, processo alla Storia e alla memoria della Shoah - la Repubblica

OSWIECIM-AUSCHWITZ (Polonia). Quando la liberarono dal lager, Lidia Maksymovich era una minuscola bambina «dalle gambe livide e la pelle da vecchia», dice. Il suo ritorno a casa avvenne a un pugno di chilometri dal campo di sterminio: Lidia fu adottata da una famiglia della polacca Oswiecim, Auschwitz in tedesco. Crebbe, si sposò, fece un figlio accanto al lager dove avrebbe dovuto morire. E l'ombra del campo non la abbandonò mai. Né si è dissolta per gli abitanti di questa cittadina, ribattezzata prima della guerra "la Gerusalemme polacca" grazie all'integrazione felice tra ebrei e cattolici. Alla vigilia dell'ottantesimo anniversario della Conferenza delWannsee che sistematizzò la "soluzione finale", il lager di Auschwitz-Birkenau attrae oltre due milioni di visitatori all' anno. o È ancora, comprensibilmente, un buco nero che risucchia ogni altra identità nel raggio di chilometri. L'antichissima Oswiecim, per esempio: siamo venuti qui per capire come si vive sull'orlo dell'abisso. Lidia ci mostra le foto ingiallite della sua infanzia. Il battesimo al quale partecipò tutta la città, la prima comunione. Nonostante fosse cattolica la chiamavano «bambina ebrea» per il numero tatuato sull'avambraccio sinistro: 70072. Per anni, durante il comunismo, ha preferito coprirlo. E per tutta la vita non è mai più riuscita a piangere.Il lager le aveva asciugato tutte le lacrime, le aveva schiacciato il cuore. «Non sono più riuscita a farmi coccolare, ho cresciuto mio figlio senza abbracciarlo mai. In fondo mi sono sempre vergognata di essere sopravvissuta, di essermi lasciata rinchiudere in un posto del genere». Aveva tre anni, quando fu deportata nel lager di Auschwitz. Al ritorno, il giorno che le regalarono una bambola col passeggino, Lidia buttò via la bambola. Non aveva idea che fosse un gioco. E con i compagni di classe di Oswiecim ripeteva sempre lo stesso rituale. Li metteva in fila e poi gridava: «Tu vai a sinistra. Tu a destra». Non conosceva altro modo di rapportarsi agli altri, solo la burocrazia della morte. Nei diciotto mesi di permanenza nel campo aveva imparato a nascondersi sotto alla branda quando passava"l'angelo della morte", Josef Mengele. Ad Auschwitz i bambini «erano come uccelli di passo», scrisse un altro sopravvissuto, Primo Levi. Trasferiti dopo pochi giorni alle baracche, o destinati molto più spesso alle camere a gas.

OTTOMILA SU TREDICIMILA A Oswiecim «ogni ricordo è un presente» come scriveva Novalis. Chiunque associa il suo nome tedesco, Auschwitz, coniato durante il Sacro romano impero, allo sterminio. Pochi sanno che accanto al campo esisteva una città antica, fiorita mille anni fa all'incrocio di due fiumi. E nessuno ricorda che prima dell'invasione nazista la maggioranza dei suoi abitanti — ottomila su tredicimila — erano ebrei, arrivati qui soprattutto durante l'occupazione austroungarica. Mentre l'età degli Asburgo era stata un'età dell'oro, quella dell'occupazione nazista avviò l'età della vergogna e dell'oblio. Manfred Deselaers, prete cattolico arrivato qui dalla Germania quasi trent'anni fa, racconta di aver imparato a Oswiecim-Auschwitz che «il dialogo non è due persone che si parlano, ma due persone che si ascoltano. Soprattutto per me che sono tedesco». Nell'800, l'imperatore degli Asburgo si fregiava anche del titolo di "Duca diAuschwitz". «E i commercianti ebrei arrivavano qui dalla Boemia, dalla Moravia, dall'Ungheria. Gli ebrei furono ben accolti sin dalle origini della città», ci racconta Wioletta Oles, direttrice del Museo della storia di Oswiecim. E ospitato nel più antico castello della città, sovrastato da una vecchia torre medievale. In mezzo a vetrine con prodotti artigianali e gigantografie in bianco e nero, nasconde una piccola chicca. Una vera automobile degli anni Trenta: seduti al volante, premendo l'acceleratore, i visitatori possono fare un giro virtuale attorno alla principale piazza della cittadina. Le viuzze del centro scorrono sul parabrezza virate in seppia, come un videogioco d'epoca. La piazza dei mercanti, "Rynek", è ancora l'ombelico di Oswiecim; fu ribattezzata dai nazistiAdolf Hitler Platz. Quando lo ricordiamo alla direttrice, ha un moto di fastidio. Dopo la visita al museo la attraversiamo a piedi, è dominata dal tribunale ottocentesco e adornata da un gigantesco albero di Natale. C'è un pozzo antico, e la pavimentazione trasparente al centro copre il vecchio bunker dei nazisti. Ma non c'è un cartello, nulla che faccia riferimento agli anni bui del Reich.

CAMPIONI DELLA POLONIA Qualche chilometro più in là abbiamo appuntamento nello stadio del ghiaccio con Waldemar Klisiak. E seduto al tavolo del bar con altri ex giocatori di hockey. Sullo sfondo, attraverso una parete a vetro, si intravedono i ragazzi nelle tute imbottite blu e bianche che scivolano sul campo velocissimi. Klisiak è una vecchia gloria polacca dell'hockey, ex difensore con due partecipazioni alle Olimpiadi. La squadra di Oswiecim è motivo di grande orgoglio per la città: ha vinto otto campionati nazionali. «Ho giocato anche in Italia» ci racconta «e alla prima partita con il Brunico, uno mi ha chiesto da dove venivo. Era incredulo. Come se Oswiecim-Auschwitz fosse una landa desolata». Dopo l'allenamento incrociamo anche Patryk Noworta, cappellino da baseball e borsone a tracolla. Patryk ricorda le polemiche in Israele quando un centravanti israeliano di recente fu comprato proprio dall'o swiecim: «Però fu una cosa buona: finalmente il resto del mondo scoprì che qui non c'è solo il lager, ma anche una formidabile squadra di hockey sul ghiaccio!».

FACILE DA RAGGIUNGERE Un secolo e mezzo fa, Oswiecim si arricchi della ferrovia che facilitò i commerci. Fu la sua fortuna e la sua condanna. Dal 1856 la città divenne uno dei più importanti snodi ferroviari dell'impero asburgico; di qui passavano i treni che portavano a Vienna e a Berlino, a Cracovia e a Katowice. Ma proprio per questo, molto più tardi, i nazisti la scelsero per lo sterminio. Era facile raggiungerla, ed era facile isolarla. Il campo nacque nelle vecchie baracche sorte all'epoca delle grandi migrazioni ottocentesche verso le "terre promesse": gli Stati Uniti, l'Inghilterra, il Canada. Da porta del paradiso, Oswiecim si trasformò nel giro di un secolo nella porta dell'inferno. Nei megalomani piani dell'architetto nazista Hans Stosberg, una strada avrebbe dovuto spianare il centro, abbattendo anche la chiesa medievale di Santa Maria, per collegare direttamente la stazione a uno dei più ambiziosi progetti industriali della Germania di Hitler: la fabbrica di IG Farben. Il vecchio complesso industriale c'è ancora: è sopravvissuto al nazismo, al comunismo, alla caduta del Muro di Berlino. All'imbrunire i circa mille operai cominciano a uscire alla spicciolata dall'ingresso sbarrato dai tornelli. Chi a piedi per raggiungere il parcheggio, chi in bici, con le grandi ciminiere che torreggiano alle loro spalle. Nel 1940 i nazisti vollero "germanizzare" questa parte della Polonia anche attraverso una fabbrica che avrebbe sfruttato i prigionieri di Auschwitz per costruire una gomma ricavata dal carbone. All'inizio li costrinsero a percorrere i sette chilometri dal campo a piedi. Poi, siccome morivano come mosche, stremati dalla sveglia alle tre che si aggiungeva alla fame straziante e alle condizioni fisiche disperate, accanto alla fabbrica costruirono un lager. Non per pietà: per ottimizzarne la produttività. Quello di Monowitz fu il primo campo di concentramento costruito da un'impresa privata. Oggi nulla lo ricorda. L'aspettativa di vita degli operai crebbe, certo: da poche settimane a tre mesi. La Ig Farben è rimasto uno dei simboli della "distruzione attraverso il lavoro" teorizzata alla Conferenza del Wannsee dal ministro della Giustizia del Reich, Georg Thierack. Anche il nonno di Aneta Ciagala-Madej lavorò qui,nell'impresa statale chimica chei comunisti continuarono a far funzionare nellavecchia fabbrica della vergogna. Aneta, 37 anni, una figlia di otto anni e un'altra in arrivo, è cresciuta qui, a Oswiecim. Durante la sua prima visita al lager, da adolescente, scopri che sua nonna Alfreda e la sua bisnonna Wiktoria Nikiel avevano aiutato i prigionieri, erano state tra le tante donne polacche che, rischiando di essere fucilate, aiutarono gli spettri rinchiusi dietro al filo spinato. Allo Yad Vashem sono 5.800 i polacchi "Giusti" ricordati per il loro sostegno agli ebrei. Ma a Oswiecim, come altrove, tanti fecero finta di non sentire la puzza di carne bruciata che veniva, penetrante, dai crematori del camp o, di non vedere gli scheletri che arrivavano in città a lavorare come schiavi. «Non è stato facile crescere qui», ammette.«Quando andai perla prima volta in vacanza all'estero, in Croazia, mi chiesero di dov'ero. Quando risposi Auschwitz si misero a ridere, imbarazzati. "Ma come, vivi in un lager?"». Aneta ricorda ancora l'indignazione internazionale scatenata nel 2000 dalla notizia che, a un chilometro dal campo, nelle vecchie concerie naziste, era stata aperta una discoteca. Si stringe nelle spalle: «Quella discoteca è stata semplicemente spostata altrove. Ma era un'idea giusta. Per noi giovani qui non c'era niente. Il fatto davvero terribile è che ogni volta che succede una cosa del genere — proteste per un McDonald's o un supermercato che apre troppo vicino al lager — i miei concittadini dicono che "è tutta colpa degli ebrei". L'antisemitismo, qui, è ancora forte». In Polonia lo stalinismo rimosse sistematicamente la Shoah. L'imperativo fu per decenni quello di mettere in risalto le vittime polacche e di nascondere il collaborazionismo e le stragi degli ebrei, soprattutto quelle perpetrate dai civili come l'eccidio di Jedwabne. Osservò lo storico Witold Kula ancora nel 1970: «In passato gli ebrei erano invidiati per il loro denaro, i loro titoli, le loro posizioni e i loro contatti internazionali. Oggi sono invidiati per i forni crematori in cui vennero ridotti in cenere».Il governo ultra conservatore guidato da Mateusz Moraviecki tre anni fa sembrò essersi riallacciato alla tradizione vittimista dei comunisti promuovendo una legge che criminalizza chiunque definisca "polacco" il campo di sterminio diAuschwitz. Un'isteria stigmatizzata da Stati Uniti, Israele e dalla Ue.

CHE COSA È MEGLIO RICORDARE Il tentativo di esaltare l'eroismo dei cittadini che aiutavano, anche a costo di mettere in ombra il destino degli ebrei, ha allungato la sua ombra fino a Oswiecim. Il governo ha voluto lasciare il segno anche qui. Il ministero della Cultura ha speso una montagna di soldi per costruire un nuovo Museo della Memoria che avrà il compito di raccontare anzitutto la storia dei polacchi. L'inaugurazione è prevista per aprile. Le lussuose poltrone rosse all'ingresso sono ancora imballate, i pannelli al primo piano che sveleranno le storie degli uomini e delle donne coraggiose che portavano cibo e medicine ai prigionieri, che contrabbandavano le loro lettere dal campo, che nascondevano i fuggiaschi, sono ancora vuoti. Ma i loro nomi sono già scolpiti su sontuose lastre di pietra. Per ammissione della direttrice del museo, Dorota Mleczko, «non ci saranno le storie dei collaborazionisti e di chi aiutava i nazisti, ma soltanto dei polacchi che hanno opposto resistenza al lager e ai nazisti aiutando i prigionieri». Quando le chiediamo se non significhi raccontare solo una parte della storia, scuote la testa: «Negli anni Duemila abbiamo cominciato a preoccuparci perla narrazione che era tornata in Europa sulla Auschwitz "polacca". Era un campo tedesco. E la storia degli eroi polacchi è stata raccontata troppo poco». Anche Bogdan Wasztyl, giornalista e animatore dell'associazione Auschwitz Memorial, che punta a riconciliare Oswiecim con la propria storia, è d'accordo con l'idea che «non si possa dire "campo polacco"». I nonni di Wasztyl furono sfollati dai nazisti per fare posto a Birkenau, la parte del lager costruita per accelerare lo sterminio. Il giornalista non vuole commentare il museo governativo. Ma avrebbe preferito un'operazione più condivisa, meno politicizzata. Quello di separare lo sterminio degli ebrei dalle atrocità commesse contro i polacchi esaltando soprattutto le seconde fu il leitmotiv dei regimi comunisti fino a Solidarnosc. Il sindacato di opposizione guidato da Lech Walesa chiese negli anni Ottanta una discussione pubblica per spostare maggiormente l'attenzione sulle vittime, sugli ebrei, sul genocidio. Perché, come rilevò nel 1986lo storico Aleksander Smolar, la propaganda stalinista aveva avuto conseguenze nefaste: «La Polonia fu l'unico Paese in cui l'antisemitismo conservò la sua legittimità patriottica e nazionale».

L'ULTIMO "OSPITE" L'ultimo ebreo è morto a Oswiecim nel 2000. Si chiamava Szymon Kluger, e la sua casa, proprio accanto all'unica delle oltre venti sinagoghe spazzate via dalla furia nazista, è diventata un altro museo. Alla caffetteria si vendono spille, bandiere arcobaleno, tazze con la scritta "Nessuno è illegale". L'aria vagamente hipster è accentuata dalla presenza di una mezza dozzina di ragazzi che leggono, sorseggiano tè, chiacchierano. Vengono da Israele, Germania, Stati Uniti, sono borsisti che fanno volontariato e ricerche su Auschwitz, ci spiega Artur Szyndler, storico e curatore del museo. All'ingresso, Szyndler ci mostra una scritta che lascia senza fiato: "Oshpitzin", ospite. «Fino all'Olocausto gli ebrei di qui si autodefinivano così. Anche se non mancavano le tensioni con i cattolici, sicuramente si sentivano più a casa che nel resto della Polonia». Nella galleria fotografica lo storico ci indica la foto di Lola e Maurycy Bodner. «Furono loro i primi ebrei a tornare qui dopo la guerra». La comunità era stata spazzata via — deportata nei ghetti o ad Auschwitz — ma qualcuno si riavventurò nella sua città natale. I coniugi Bodner li registrarono tutti e adottarono un bambino sopravvissuto agli esperimenti di Mengele. Dopo la morte di Szymon Kluger, gli ebrei, nella città così vicina all'Olocausto, si sono totalmente estinti. La "Gerusalemme polacca" è un lontano ricordo.

Per inviare al Venerdì di Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/ 49823128, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


segreteria_venerdi@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui