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La Repubblica delle donne Rassegna Stampa
30.08.2014 Il lavoro di Daniel Liebeskind, architetto
Intervista di Lisa Corva

Testata: La Repubblica delle donne
Data: 30 agosto 2014
Pagina: 69
Autore: Lisa Corva
Titolo: «Liebeskind e il gioco delle torri»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA delle DONNE di oggi, 30/08/2014, a pag. 69, con il titolo "Liebeskind e il gioco delle torri", l'articolo di Lisa Corva.


Daniel Liebeskind


Il Jewish Museum di Berlino, progettato da Liebeskind

Il segreto di un'archistar come Daniel Libeskind è nei dettagli. Come il braccialetto che porta al polso destro. Un intreccio perfetto di pelle black, come un labirinto, quasi una possibile architettura. «Labirinto e simbolo di vita», dice Libeskind sorridendo. «Ma in realtà è solo un regalo a cui sono affezionato, brasiliano: viene da Sao Paulo». Libeskind sorride molto. È un piacere, in questo mondo di architetti super-famosi e super-seriosi. Forse per questo, anche quando i suoi edifici racchiudono pagine di storia drammatiche (il Jewish Museum a Berlino, del 1999, o il lavoro sul World Trade Center post 9/11 a Manhattan) hanno una leggerezza, una consapevolezza lieve e profonda insieme, se così si può dire di cemento, vetro e acciaio. Anche le pagine della sua storia personale sono, o potevano essere, tragiche.


Il progetto sul World Trade Center

Nato in Polonia nel 1946, a Lodz, figlio di ebrei scampati all'Olocausto, emigrato prima in Israele e poi a New York. Cresciuto nel Bronx, ma poi, nomade di lusso dell'architettura: anni a Berlino, quando prese l'incarico per il Jewish Museum; ora di nuovo a Manhattan. Lo incontriamo, insieme al figlio Lev, a Milano, nel suo studio - perché ha uno studio anche in Italia - nel cuore della città, accanto alle vetrine golose di Peck, «una tentazione continua», ride. Uno studio a Milano è utile soprattutto a seguire i lavori della Torre Libeskind in costruzione a CityLife (conclusione prevista per il 2018), nella nuova città in divenire per l'Expo, accanto alle torri di Arata Isozaki e di Zaha Hadid. Com'è il rapporto con gli altri due architetti? «Ottimo. E spero che le tre torri riflettano questo, quando saranno completate: il dialogo tra di noi. Sono, o vogliono essere, una composizione: affacciate sulla stessa piazza, colpo d'occhio uscendo da quella che sarà la stazione Tre Torri della nuova linea della metropolitana». Milano gli sta molto a cuore, «forse perché ci ho vissuto, negli anni 80, per tre anni l'ho scoperta e amata. Mia figlia è nata qui (Libeskind ha tre figli: Lev, Noam e Rachel, ndr); mio figlio Lev e i miei tre nipotini vivono qui». E lei con loro parla in italiano? «In inglese. E ogni tanto qualche parola in polacco...».


In centro, la Freedom Tower

Anche nella Polonia in cui è nato ha costruito un grattacielo, Zlota, un'onda morbida di vetro e acciaio inaugurata quest'estate nella piazza centrale di Varsavia. «È proprio di fronte al gigantesco Palazzo della Scienza e della Cultura, "regalo" dei russi nel 1955», dice l'architetto. «E una coincidenza: Zlota sorge dove un tempo abitava mia madre, che era di Varsavia; nel vecchio quartiere ebraico, di cui ora non rimane più traccia. Una coincidenza singolare, che mi ha molto commosso. Ricordo ancora quando, da bambino, venivamo a Varsavia e io guardavo, piccolissimo, il palazzo russo, che ai miei occhi era ancora più grande». E sua madre? «Non c'è più, ma sarebbe stata molto orgogliosa di questa pacifica rivincita». Libeskind ha lasciato la Polonia, con i suoi genitori, a 11 anni: un lungo viaggio-esodo in treno, da Lodz a Varsavia, da Varsavia a Vienna, e poi ancora, passando per Trieste, Venezia. «Lì ci siamo imbarcati sulla nave che ci portava ad Haifa. E poi Tel Aviv, poi ancora gli anni in un kibbutz», dice Libeskind. «Ma ricordo ancora la sontuosità, la meraviglia della grande nave che partiva da Piazza San Marco». Incroci di terre e storie: «La famiglia di mia madre veniva dalla comunità ebraica di Padova, nel Seicento». Storie e persone, strade e ritorni, e labirinti, come nel suo braccialetto, come nel Jewish Museum di Berlino. Per Libeskind, che è un vero gourmet, molti ricordi passano per il cibo. «Per esempio dai pierogi di mia madre, i "ravioloni" ripieni di formaggio, cavoli o patate che ora vado a cercare nei ristorantini polacchi di Manhattan», dice l'architetto. «E mi ricordo anche i vecchi bar mleczny di Varsavia», le latterie-bistrot di un tempo, sono stati salvati e ristrutturati da gruppi di trentenni. «Ma per me il cibo dell'infanzia è quello cucinato a casa. E la cucina dove, da piccolo, facevo anche il bagno, in una tinozza. Ancora adesso, la cucina è l'ambiente che prediligo: il piacere maggiore, quando la sera torno nel nostro appartamento di Tribeca, è trovare mia moglie Nina ai fornelli. Beviamo, chiacchieriamo, prepariamo insieme». Lei cucina? «No, ma adoro mangiare...», esclama, e poi aggiunge, «per questo mi è piaciuto disegnare la cucina che abbiamo presentato lo scorso aprile qui al Salone del mobile: la considero il vero "hub" di ogni casa. E ho usato un nuovo tipo di Corian (il composito avanzato, fatto soprattutto di resina acrilica), in nero, per renderla più iconica, funzionale, eco-energetica». Nero: Libeskind, come molti architetti veste sempre di nero. T-shirt e giacca, come oggi. «Sì, le mie famigerate T-shirt nere, le compro sempre qui a Milano, da Prada. Ma non sono un purista. Indosso anche blu o grigio scuro. E poi, se penso al total back, mi viene sempre in mente Mies van der Rohe, che vestiva di nero perché così era più facile mascherare buchi o strappi negli abiti con un pennarello scuro. Era così povero allora...».

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