Riprendiamo dalla REPUBBLICA delle DONNE di oggi, 30/08/2014, a pag. 18, con il titolo "Il volto dolce della tv araba", l'intervista di Anais Ginori a Muna Abusulayman.
Sarà indubbiamente brava la giornalista, ma la condizione della donna in Arabia Saudita non è così rosea, nemmeno in prospettiva, in un Paese che non è mai uscito dal proprio Medio Evo.
Anais Ginori Muna Abusulayman
Provocare dolcemente, dare una scossa senza muoversi, aprire una porta con un soffio leggero. C'è qualcosa di magico e incantatore nel modo di parlare di Muna Abusulayman, che pratica un'arte sublime e antica come quella di Sheherazade, conducendo uno dei più popolari programmi televisivi del mondo arabo, un talk show da mille e una notte in cui le donne possono finalmente parlare di sesso, famiglia, divorzio, carriera, violenza domestica. «Discutiamo con gli ospiti di temi controversi, senza mai scioccare. Se devo affrontare un argomento particolarmente delicato indosso sempre l'hijab, così sarò davvero ascoltata da tutti. In questi casi, non lascio scoperto neppure un capello». A modo suo, Muna è il volto delle contraddizioni di un universo femminile lontano dai cliché. «In Occidente avete una visione riduttiva, stereotipata delle donne arabe, che vi impedisce di comprendere la complessità della nostra realtà e i cambiamenti in corso, che pure ci sono». Lei è stata una delle prime donne ad aver divorziato in Arabia Saudita. Aveva 28 anni e due bambine piccole. «Sono tornata a vivere vicino ai miei genitori. Non per necessità ma per rendere la mia situazione socialmente accettabile. Se fossi rimasta da sola, in un altro quartiere di Riyad, mi avrebbero trattato da scostumata». Poco dopo, nel 2002, un'altra piccola rivoluzione. Muna, che insegnava all'università, passa un provino insieme ad altri trecento candidati per presentare un nuovo programma del network panarabo MbcTv. La scelta cade su di lei. «Sono stata la prima donna ad andare in tv usando il mio vero nome. Fino ad allora le poche altre conduttrici usavano pseudonimi perché si vergognavano». Muna diventa subito una star, nominata Godwill Ambassador dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, inserita tra le 500 persone più potenti del Medio Oriente, guida una fondazione per favorire l'empowerment femminile e ha lanciato una collana di gioielli e vestiti. «E pensare che all'inizio ho dovuto chiedere a mio padre di firmare un'autorizzazione scritta per lavorare. Un tempo funzionava così per figlie e mogli. Ora per fortuna non serve più». Il padre non è stato contento di vedere Muna mettere in piazza i fatti propri e degli altri davanti a milioni di persone. «Eppure mi ha lasciato fare. Per fortuna ho una famiglia democratica anche nel dissenso». Il suo dialogo settimanale con le donne arabe dura ormai da dodici anni. Kalam Nawaem, "parlando dolcemente", è uno dei talk show più seguiti dall'Egitto al Pakistan, dal Libano all'Arabia Saudita. E Muna assomiglia a una sorta di Oprah Winfrey con il velo. «Per molte spettatrici sono come una madre, una sorella. Ma abbiamo anche un'audience maschile. Sto attenta a non avere mai un atteggiamento aggressivo con mariti e padri, per evitare che si mettano sulla difensiva e smettano così di ascoltare il nostro programma», racconta seduta in un albergo del Marais. È venuta a Parigi invitata da Ferite a Morte, la Spoon River al femminile immaginata tre anni fa da Serena Dandini e Maura Misiti che sta girando il mondo, con rappresentazioni da Washington a Bruxelles. Uno dei testi parla di una ragazza araba uccisa dopo aver chiesto il divorzio. «Sarebbe potuto succedere anche a me. Potrebbe accadere a ognuna di noi». Muna non conosce la parola "femminicidio" ma ha condotto una campagna intitolata "No more abuse", con spot e interventi di celebrità. «Abbiamo donne ministro in Marocco e persino in Iraq. Ma nella vita di tutti i giorni, c'è sempre il rischio di regredire, soprattutto nei piccoli villaggi o in zone di guerra». Il suo talk show non parla ufficialmente di politica, anche se le storie che racconta hanno un ovvio legame con l'attualità. Gli integralismi religiosi continuano a mettere in pericolo proprio le donne: il loro corpo, i loro diritti. E i nuovi focolai di conflitti nel Medio Oriente, con la proclamazione di un califfato tra Siria e Iraq, non rassicurano certo una musulmana moderata come Muna. Già nel 1994 suo padre, studioso dell'Islam, ha pubblicato un'analisi in cui spiegava che le punizioni corporali su donne e bambine non sono previste dal Corano. Ha ricevuto minacce di morte, per anni la famiglia ha vissuto sotto protezione. Lei ha continuato la battaglia sul piccolo schermo, invitando in trasmissione una donna saudita il cui volto tumefatto era apparso su un giornale. «Siamo riusciti ad aprire finalmente un dibattito in tutto il mondo arabo, spezzando l'abbandono e la solitudine di queste donne». Kalam Nawaem ha affrontato anche i delitti d'onore. «Per spiegare che non sono ordinati solo da padri e fratelli. Spesso le donne sono complici o addirittura mandanti». Muna è andata in un ospedale per intervistare i medici di una bambina agonizzante dopo le percosse dei genitori. La sua lunga campagna contro gli abusi sui minorenni ha convinto il governo saudita a cambiare la legge, creando maggiori tutele e un numero verde per le denunce. Un filo rosa che scavalca le frontiere. «Attraverso una conversazione globale tra saudite, marocchine, egiziane, palestinesi, kuwaitiane, irachene, cerchiamo di allargare i punti di vista». La trasmissione, registrata ogni settimana a Beirut, ha sempre ospiti rappresentativi di diversi Paesi, in una miscela di culture e origini che è la ricchezza del mondo arabo. Muna rilancia spesso i temi del talk show dai suoi profili Twitter e Facebook. Qualche mese fa ha lanciato l'hashtag #myhijabdidnotpreventmefrom, "il mio hijab non mi impedisce di"... scalare una montagna, guidare un aeroplano, vincere una maratona. La religione, spiega ancora Muna, è presentata sempre in modo positivo. «Per una trasmissione come la nostra, che deve rivolgersi a diversi popoli e Paesi, l'Islam è il minimo comune denominatore». Durante la campagna contro l'analfabetismo sono stati invitati degli imam per ricordare come Aisha, la moglie del Profeta, era una brillante studiosa. Ci sono puntate di Kalam Nawaem in cui le ospiti sono ingegnere, architette, persino hacker. «Parliamo anche molto della maternità, che non deve diventare un ostacolo al lavoro. L'accadimento dei bimbi dura solo qualche anno. Prima e dopo, le donne devono saper far anche altro, com'è successo a me». La figlia più grande di Muna ha 21 anni e studia a Oxford. L'altra, 13 anni, ormai respinge le coccole della mamma prima di dormire. «È il ciclo naturale della vita. Io intanto ho sempre più progetti professionali, giro il mondo e sto facendo a quarant'anni quello che non ho potuto fare a venti». Muna è spesso invitata a conferenze a Londra, Washington, Parigi. Con il suo stile mansueto ma sincero, riesce a dare una visione mai banale del mondo arabo, cercando di costruire ponti di comprensione. «I media vorrebbero rinchiudermi in un cliché. Faccio attenzione. Purtroppo molte personalità femminili diventate famose in Occidente poi vengono guardate con diffidenza nei loro Paesi, com'è capitato a Malala in Pakistan». Le semplificazioni non aiutano a capire. Una sistema di oppressione, spiega Muna, nasconde vantaggi e benefici. «Ci sono donne che dietro al niqab si sentono più forti». In Arabia Saudita si discute da tempo della possibilità per le donne di guidare. «Molte però preferiscono avere un autista che porta a scuola i bambini o avere una scusa per mandare il marito a fare le commissioni». I diritti senza consapevolezza non servono a molto. Ci sono donne istruite, ricorda, che accettano l'infibulazione come fosse una normale pratica culturale. «In molti Paesi il problema non è più l'educazione, ma cosa fanno le donne con ciò che imparano: per la carriera, la vita famigliare, il rispetto sociale». La sua ricetta però non passa attraverso rivendicazioni, pretese, denunce. Raccontare una storia, e poi un'altra, finché qualcuno forse capirà.
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