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La Repubblica Rassegna Stampa
22.01.2023 12 pagine scritte a mano dal prigioniero di Putin
Longform a cura di Carlo Bonini, Rosalba Castelletti, Laura Pertici

Testata: La Repubblica
Data: 22 gennaio 2023
Pagina: 15
Autore: Carlo Bonini, Rosalba Castelletti, Laura Pertici
Titolo: «Il prigioniero»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/01/2023, a pag. 15-17, con il titolo "Il prigioniero" il longform a cura di Carlo Bonini, Rosalba Castelletti, Laura Pertici.
Un documento che rivela la mostruosità del regime Putin, e la debolezza delle democrazie occidentali. Cari lettori, non lasciatevi colpire dalla lunghezza del testo, Putin gode ancora della nostra tolleranza, dalla sinistra e dai vari Salvini a destra. 

Per i russi che hanno deciso di stare dall’altra parte della barricata, non ci sono scelte facili. «Per chi parte, il Sinai. Per chi resta, il Golgota», scriveva il poeta sovietico, di Kharkiv, Boris Chichibabin, uno che nella vita aveva conosciuto la guerra, il Gulag e la fame. Ilja Jashin avrebbe potuto lasciare la Russia tante volte. Tutte le volte che le forze di polizia avevano disperso una sua protesta. Tutte le volte che era stato scarcerato per rifinire in cella. Tutte le volte che le autorità avevano respinto pretestuosamente una sua candidatura. O la volta che sicari senza mandante avevano ucciso all’ombra del Cremlino il suo mentore Boris Nemtsov. Ma è rimasto e ne ha raccolto il testimone. Jashin ha scelto di restare anche quando, il 4 marzo scorso, a pochi giorni dall’inizio dell’offensiva russa contro Kiev, le autorità hanno approvato in fretta e furia la oramai famigerata “legge sulle fake news” che punisce chi getta “discredito” o pubblica “informazioni false” sulle forze armate. Vietato criticare la guerra. Vietato persino usare la parola “guerra”. Quello che accade in Ucraina si può chiamare soltanto “operazione militare speciale”. Pena 15 anni di carcere. Il Cremlino non vuole che si sappia la verità e perciò l’ha resa illegale. A soccombere sotto gli ultimi colpi d’accetta della ventennale repressione putiniana sono state le poche voci libere sopravvissute a un anno, il 2021, che aveva già fatto terra bruciata di opposizione, media e società civile. Chiuse la radio Echo Moskvyj , Tv Dozhd o il giornale Novaja Gazeta . “Liquidata” Memorial, la storica Ong in difesa dei diritti umani premiata l’anno scorso da un Nobel per la pace che è diventato la lapide mai deposta. Migliaia di russi hanno lasciato il Paese e anche gli ultimi reduci dell’opposizione russa, già falcidiata da anni di esodi e condanne, hanno scelto l’esilio. Jashin no. A dispetto di qualsiasi legge orwelliana, è rimasto e ha continuato a chiamare per nome l’orrore in Ucraina pur sapendo che, dopo Aleksej Navalnyj, sarebbe toccato a lui, ultimo leader dell’opposizione in Russia ancora in libertà, finire dietro le sbarre. Una sorte segnata. Lo scorso dicembre Jashin è diventato l’oppositore russo a cui sinora è stata inflitta la condanna più pesante per aver protestato contro l’orrenda offensiva contro Kiev: otto anni e sei mesi di prigione, più del massimo della pena previsto per una rapina, uno stupro o un assassinio con attenuanti. Il suo crimine: aver rilanciato in aprile sul suo canale YouTube le accuse delle efferatezze commesse dalle forze russe nella città ucraina di Bucha. Nel mondo capovolto di Vladimir Putin, le verità di Jashin sui massacri sono state giudicate fejk ,false. «Era chiaro sin da marzo come sarebbe andata a finire. Sì, avrei potuto lasciare la Russia o stare zitto. Ma come avrei potuto avere ancora rispetto per me stesso? Putin ha iniziato una guerra in nome dell’intero popolo russo, sta cercando di macchiarci tutti di sangue e questo è molto peggio della prigione. Lo pensavo prima del verdetto e lo pensotuttora. Se ritornassi indietro di sei mesi, mi comporterei esattamente allo stesso identico modo», ci scrive Jashin dal carcere nella sua prima intervista dopo l’assurda e spropositata condanna rispondendo per iscritto alle domande che Repubblica è riuscita a inviargli tramite i suoi avvocati con 12 pagine numerate e vergate a mano con penna blu. Tutte in bella, soltanto tre ritocchi. Righe oblique e tante “P” maiuscole in ossequio del nemico pur nella lotta. «Il tempo trascorso dietro le sbarre è uno spreco — è l’incipit — perché qui è impossibile vivere una vita piena, ma cerco di sfruttare al meglio i miei giorni. Leggo molto, scrivo molto, rispondo a centinaia di lettere, scrivo testi per i social network. Faccio esperienze di vita. Comunico con persone che mai mi avrebbero parlato fuori di qui. Imparo. Vedo tante ingiustizie».

Nel carcere dov’è stato trasferito prima di Capodanno, il Sizo-1 diIzhevsk, un ex mattatoio nella capitale dell’Udmurtia, Russia centro-orientale, non lontano dagli Urali, la cella è piccola, ma almeno c’è l’acqua calda e un solo compagno non fumatore. Non c’è frigorifero, né tv. Nulla che interferisca con la scrittura. In questi sei mesi dietro le sbarre, per Jashin, uno che è sempre stato immerso nella politica e nelle piazze, scrivere è diventato un ponte levatoio oltre il filo spinato, l’unico varco per portare la sua parola al di là del muro. A dispetto dei suoi 39 anni e della faccia da eterno ragazzo, appena avvizzita dalla barba incolta da recluso, Jashin è un veterano dell’opposizione russa. Ha abbracciato la politica proprio quando un oscuro ex agente del Kgb è diventato presidente, ma è sempre stato dall’altra parte della barricata per tutto il ventennio putiniano. Non c’è protesta o contestazione a cui non abbia partecipato. Eppure, quando persino un giornalista asservito ha chiesto a Putin se otto anni e mezzo per un’opinione non fossero una condanna «bestiale», il presidente ha finto di non conoscerlo: «Chi è? Un blogger?». «Putin ha manie di grandezza. Pretendendo di ignorare l’avversario, pensa di umiliarlo. Finora non ha mai pronunciato il nome di Navalnyj. Ha finto persino di non conoscere il musicista Jurij Shevchuk, sebbene lo abbia invitato al Cremlino. Con la parola “blogger” vuole sminuirci. Per lui è una parolaccia. Ha una mentalità preistorica. È convinto che Internet sia un progetto della Cia, snobba i social e crede solo nella tv. È ridicolo», ci scrive Jashin, il nuovo Nessuno contro il Ciclope. La sua storia è la storia di un’intera generazione che è diventata adulta con il putinismo e ha provato a sconfiggerlo in ogni modo possibile: ha combattuto, è scesa in piazza, è finita in cella, ha sepolto i suoi compagni di battaglia e alla fine è stata sconfitta, ma non ha perso la speranza. «Sì, le abbiamo tentate tutte per partecipare alla politica in maniera legale», ribadisce l’oppositore nella lunga missiva. «Abbiamo registrato partiti, ci siamo candidati, abbiamo proposto progetti di legge e riforme. Ma tutte le volte che ottenevamo consensi e vittorie, le autorità reagivano con forza. Prima con i veti sui partiti e il rifiuto delle candidature alle elezioni, poi con la dispersione delle manifestazioni pacifiche e, infine, con le uccisioni e gli arresti di massa. Ora la pressione ha raggiunto la sua apoteosi». Dal 4 marzo oltre 160 persone sono state incarcerate per “fake news”, la stessa imputazione mossa contro di lui. Almeno 50 sono in attesa di un giudizio altrettanto scontato e severo, altre 2mila hanno ricevuto pene minori. In totale sono stati circa 20mila i fermi per le proteste contro la barbarie in Ucraina sfociati in almeno 370 procedimenti penali. E 200mila siti Internet sono stati bloccati. Per questo Jashin è contrario all’idea di “responsabilità collettiva”. E non soltanto perché in tanti, come lui, hanno provato a dire “no” all’orrore. «È importante capire che anche i miei compatrioti sono vittime di Putin. Qualcuno è stato ingannato, qualcuno ha subito il lavaggio del cervello della propaganda, qualcun altro è stato semplicemente intimidito. Il mio popolo è ostaggio di questo potere e purtroppo spesso i governi occidentali lo colpiscono con sanzioni che hanno un effetto opposto: offrono nuovi argomenti alla propaganda del Cremlino sull’Occidente ostile e non lasciano altra scelta alla gente che stringersi attorno a Putin», sostiene Jashin lanciando un appello alla comunità internazionale: «Cercate alleati nei russi, non nemici. Porgete la mano al mio popolo invece di cercare di punirlo e umiliarlo». Nel settembre 1999, il neopremier Vladimir Putin è ancora un semi-sconosciuto. Promette di «sgozzare i terroristi anche al cesso»: una frase che lo porta a vincere le presidenziali nel marzo del 2000. Jashin ha soltanto 17 anni. Famiglia moscovita borghese, studia per diventare scienziato politico. La retorica militarista del nuovo leader del Cremlino non gli piace e si unisce al partito liberale Jabloko, “Mela”, l’unico che si opponga a quella che viene spacciata come “un’operazione antiterrorismo”, la seconda guerra cecena. Gli eufemismi andavano già di moda. Un anno e mezzo dopo è a capo dell’ala giovanile del partito. Nel 2004 succede l’impensabile: per la prima volta nella sua storia Jabloko perde le elezioni alla Duma, la Camera bassa del Parlamento russo. Se la sconfitta mette a dura prova la vecchia guardia del partito, dà ai giovani nuovo slancio. Jashin li raduna e annuncia che è iniziata l’era della «lotta radicale ».

È convinto che il Paese si stia trasformando nel mondo distopico descritto da George Orwell in 1984tanto che il partito ne finanzia una ristampa con una caricatura di Putin nelle vesti di Grande Fratello in copertina e una prefazione dello stesso Jashin. Diciassette anni dopo, 1984 è il libro più venduto e più letto dell’anno. E anche il più pericoloso. Un uomo viene accusato di aver screditato l’esercito per averne distribuito alcune copie per strada, un altro per aver issato il cartello “La libertà è schiavitù, la guerra è pace, l’ignoranza è forza”, gli slogan dell’Oceania di Orwell che il giovane Jashin aveva associato a Putin sin dai primi anni del suo regime. «Già allora mi sembrava ovvio in che direzione stesse andando il Paese. Tutte le tendenze erano evidenti: onnipotenza dei servizi, spionaggio totale dei cittadini, odio in tv, bispensiero, ipocrisia di Stato, aggressione, militarismo. Forse se Orwell fosse andato di moda prima, la Russia avrebbe preso una strada diversa», commenta raccontando di aver trovato una copia di 1984 in tutte le carceri (cinque) e le celle (undici) in cui ha vissuto in sei mesi di detenzione. Negli anni Duemila la protesta non è ancora stata bandita. Insieme ai suoi compagni, Jashin si lancia in azioni provocatorie e flashmob: si rasa a zero davanti alla Difesa per protestare contro l’intenzione di annullare i rinvii della leva per gli studenti o lancia vernice rossa sulla facciata della sede dell’Fsb. Nell’autunno del 2006, quando Putin abolisce per decreto le elezioni dei governatori, si imbraca e si cala da un ponte con l’attivista Maria Gajdar per srotolare lo striscione: “Ridate le elezioni al popolo, bastardi!”. Sono gli anni delle “Rivoluzioni colorate” nei Paesi dell’ex Urss: in Ucraina e Georgia le manifestazioni di piazza rovesciano i regimi. Il Cremlino le studia per contrastarle, l’opposizione per replicarle. Dopo aver discusso la tesi “Tecnologie di organizzazione della protesta nella Russia moderna”, nel marzo 2005 Jashin lancia il movimento di coalizione Oborona, “Difesa”, che riunisce i giovani di Jabloko e Unione delle forze di destra. Nel frattempo, si candida alla Duma moscovita, ma ottiene poco più del 14% dei voti. Poco dopo viene fatto fuori anche alle elezioni del consiglio di “Difesa”. Ha 22 anni ed è già sopravvissuto alla prima sconfitta elettorale e al primo tradimento di partito. Nel 2007 è convinto che Jabloko debba boicottare le parlamentari “senza scelta”, ma è in minoranza. Oramai è chiaro che la Russia non seguirà l’esempio delle sue ex sorelle sovietiche. Allo scadere dei suoi due mandati al Cremlino, Putin non cederà il potere: andrà a fare il capo di governo e al suo posto metterà il vicepremier Dmitrij Medvedev. Jashin indossa una tuta ignifuga e si dà fuoco davanti al Cremlino stendendo lo striscione: “Nessun successore o brucia all’inferno!”. È l’ultima performance. Dopodiché si allontana dall’azionismo, e anche da Jabloko, e si avvicina a una politica più convenzionale, e all’ex vicepremier eltsiniano Boris Nemtsov che diventa suo amico e mentore. Insieme allo scacchista Garri Kasparov, i due fondano Solidarnost, altra coalizione di forze democratiche. Ma per Jabloko è un affronto. Jashin viene espulso nel dicembre 2008. Nel 2010 si unisce ai ranghi del neonato Partito della libertà popolare, o Parnas, co-guidato da Nemtsov. Da giovane capofila di Jabloko, Jashin ha condiviso per ben sei anni l’ufficio con Aleksej Navalny, allora vicepresidente non altrettanto famoso della sezione moscovita del partito, che nel 2007 viene espulso. L’unico a votare contro è Jashin che non ci metterà molto a subire la stessa sorte. Non a caso Navalny lo descrive come il suo «primo amico in politica». Fuori da Jabloko, i due prendono strade diverse. Jashin continua a partecipare a elezioni, creare partiti e movimenti, Navalny pubblica inchieste anticorruzione. Il 5dicembre del 2011 si ritrovano sullo stesso palco alla manifestazione indetta da Solidarnost contro i brogli alle parlamentari e contro il ritorno di Putin alla presidenza dopo quattro anni da premier in barba alla Costituzione. La stampa li presenta come il «leader dell’opposizione» Jashin e il «blogger » Navalny. Non lo sanno, ma è l’inizio della più grande manifestazione di dissenso mai vista a Mosca sotto Putin: la “Rivoluzione bianca” — dal colore dei nastri simbolo della protesta — che per la prima volta unisce tutte le anime dell’opposizione “non sistemica”, tenuta fuori dal Parlamento. È qui che Jashin incontra Ksenia Sobchak, la “Paris Hilton russa”. Diventano, come li chiamano i giornali, «i Romeo e Giulietta della Russia rivoluzionaria»: lui uomo d’azione, con più arresti alle spalle che soldi in banca; lei presunta figlioccia del presidente. Il 6 maggio 2012, vigilia del terzo mandato presidenziale di Putin, la “Marcia del Milione” sfocia in scontri tra dimostranti e polizia. Sono il pretesto per il cosiddetto “affare Bolotnaja”, dall’omonima piazza, il primo grande processo politico della nuova era. Come si erano riempite, le strade si svuotano. Degli arringatori di piazza non resta più nessuno. Molti scelgono l’esilio. Sobchak lascia Ilja e le barricate. Il leader di estrema sinistra Serghej Udaltsov viene sbattuto in carcere. Jashin è costretto a passare da oppositore a dissidente. «L’opposizione è parte integrante del sistema politico, opera nell’ambito delle istituzioni statali e può salire al potere attraverso il processo elettorale. È così che abbiamo cercato di lavorare per anni, ma Putin non ce lo ha permesso», scrive il detenuto politico.

«Oggi è più corretto chiamarci dissidenti che, come sotto l’Urss, criticano il Cremlino e dicono la verità rischiando la libertà e talvolta la vita». Come è successo a Nemtsov. Nella notte del 27 febbraio 2015, Nemtsov viene freddato da quattro colpi di pistola sul ponte Bolshoj Moskvoretskij che porta al Cremlino. Prima dell’assassinio, stava preparando un rapporto sulla guerra iniziata l’anno prima nel Donbass, Est Ucraina. «Nel 2014 Putin ha risolto due problemi: primo, ha annesso la Crimea e rafforzato la sua traballante posizione; secondo, ha creato un focolaio di tensione permanente che ha usato come leva di pressione su Kiev e sulla Ue. Era chiaro a tutti che avrebbe potuto provocare un’escalation da un momento all’altro», ragiona a posteriori il delfino rimasto orfano. Nel maggio 2015 il giovane dissidente porta a termine il lavoro di Nemtsov e pubblica “Putin. Guerra”, concludendo che fermare il conflitto è «vero patriottismo». Nove mesi dopo dà alle stampe un altro rapporto: stesso formato, nuovo imputato. Stavolta punta il dito contro il leader ceceno Ramzan Kadyrov noncurante della fine che hanno fatto tutti quelli che, come Anna Politkovskaja, ci hanno provato prima di lui. Lo accusa di essere coinvolto nell’omicidio di Nemtsov. Gli amici gli consigliano di emigrare. Ma Jashin resta. Gli eroi non sono soltanto quelli che muoiono. Sono anche quelli che non fuggono. Jashin continua a partecipare a campagne elettorali. Come osservatore, assistente o in prima persona. Alle amministrative si candida nella regione di Kostroma, uno dei soli sei oppositori su oltre 187mila aspiranti deputati locali. Sa di perdere, eppure ci prova. Ma non demorde. Alle municipali del 2017 la sua tenacia paga: vince un seggio nel consiglio municipale moscovita di Krasnoselskij insieme ad altri sei candidati indipendenti. Un «declassamento», gli dice Navalny. Ma in realtà è la piùgrande vittoria. Jashin è l’unico dissidente riuscito a salire al potere grazie a un voto, anche se a livello municipale. Vuole fare «esperienza di governo reale » e dimostrare di esserne all’altezza. Un mese dopo è a capo del consiglio. Nel 2019 torna a puntare più in alto: riprova a ottenere un seggio alla Duma, ma la Commissione elettorale respinge tutte le candidature indipendenti, compresa la sua. È un’estate di protesta. Jashin arringa la folla dal tetto di un’auto parcheggiata: «Non so se vinceremo o perderemo, ma, puttana, non mi arrenderò senza combattere!». La sfida non resta impunita. In due mesi lo arrestano cinque volte. Unaccanimento inedito anche per la Russia. Dopo essere stato rilasciato, Jashin tenta nuovamente di candidarsi alla Duma moscovita, invano. Si sposa e divorzia. Nel frattempo, mentre il mondo è distratto dalla pandemia, con il pretesto del coronavirus, il Cremlino vieta di fatto qualsiasi azione politica, compresi i picchetti solitari. Navalny viene avvelenato e poi incarcerato. Una mannaia si abbatte su ogni voce libera. Migliaia di attivisti, testate e Ong sono dichiarati “agenti stranieri”, “indesiderati” o “estremisti”. Con Navalny in carcere e il suo movimento disperso, Jashin resta l’ultimo leader dell’opposizione ancora libero in Russia. Nell’estate 2021 si dimette dall’unico incarico che era riuscito a strappare allo Stato: vuole sollevare il municipio di Krasnoselskij dalle pressioni asfissianti.

Poi arriva il 24 febbraio 2022. Nella sua lettera aRepubblica, il dissidente ammette che, nonostante tutti i segnali, non si aspettava «una guerra così grande». «Sembrava uno scenario assolutamente irrazionale e quindi irrealistico. Credo che, se avesse saputo in anticipo a che cosa sarebbe andato incontro, Putin stesso non avrebbe ordinato un attacco contro l’Ucraina. È improbabile che fosse pronto a pagare un tale prezzo. Ma era vittima dell’illusione del suo stesso potere. Succede spesso ai dittatori che si circondano di persone che dicono loro soltanto ciò che si vogliono sentir dire. I generali lo avevano convinto che stesse creando un esercito invincibile e arsenali di ultima generazione. Ma si è scoperto che le nuove armi erano soltanto uno spot e che per combattere bisognava aprire i vecchi magazzini sovietici. E che i generali sono mediocri e mandano i loro sottoposti al massacro mentre al petto dei loro figli appendono medaglie». Nonostante gli errori, secondo Jashin, Putin non ha più altro da perdere che la faccia. «È arrabbiato con i capi militari. Ma che cosa dovrebbe fare? Mettere il ministro della Difesa dietro le sbarre? Licenziare il Capo di Stato Maggiore? Ma poi dovrebbe ammettere anche i suoi sbagli ma ne è patologicamente incapace. Perciò si è affidato a strutture di potere parallele che gli sembrano più efficaci: al suo vecchio amico Evgenij Prigozhin che ha formato un esercito privato di mercenari e prigionieri e a Kadyrov. Putin credeva che, attaccando l’Ucraina, avrebbe cambiato gli equilibri mondiali e costretto l’Occidente ad accettare la sua leadership. Ma è diventato un criminale di guerra e un emarginato che probabilmente finirà i suoi giorni dietro le sbarre o nascosto in un bunker». Dopo il 24 febbraio Jashin non scende in piazza, sa che da lì finirebbe dritto in prigione. Ma denuncia le aberrazioni del regime e della sua folle aggressione sui suoi profili social o sul suo canale YouTube da quasi un milione e mezzo di iscritti. Guadagna un po’ di tempo, ma il suo destino è già scritto. Nell’aprile del 2022, dopo l’approvazione della draconiana legge sulla censura militare, la capa del consiglio municipale Krasnoselskij che ha preso il suo posto, Elena Kotenochkina, e il suo vice, Aleksej Gorinov, vengono accusati di “falsi” sulle forze armate. Kotenochkina finisce latitante all’estero, Gorinov condannato a sette anni di carcere. Jashin ci mette poco a fare la stessa fine. Viene multato ben quattro volte per “discredito” dell’esercito. Un invito a partire o tacere. «Le forze di sicurezza danno a quasi tutti la possibilità di andarsene. Alludono, minacciano, spingono a emigrare in tutti i modi possibili», spiega Jashin nella sua lettera a Repubblica scannerizzata e inviata a fine dicembre. «Nell’idea del Cremlino un politico che fugge si scredita, ratifica la sua codardia. Gli oppositori che, come me, nonostante tutti i rischi, resistono e restano, diventano un problema. Il giorno del mio arresto l’investigatore me lo ha detto: “Se te ne andassi, sarebbe più facile per tutti”. Ma non ho voluto rendere loro la vita facile». Nella tarda serata del 27 giugno, mentre passeggia in un parco, la polizia lo arresta e un tribunale lo condanna a 15 giorni di fermo per “disobbedienza verso pubblico ufficiale”. Lo stesso copione adottato due mesi prima contro un altro erede di Nemtsov, Vladimir Kara-Murza, sopravvissuto a due avvelenamenti: doveva cavarsela con due settimane di carcere, ma è ancora dietro le sbarre in attesa di processo per falsi sull’esercito e alto tradimento, ora rischia vent’anni. Il 13 luglio, allo scadere dei 15 giorni, Jashin viene scarcerato per essere subito riarrestato perché in aprile, sul suo canale You-Tube, ha denunciato «l’assassinio di civili» a Bucha che Mosca nega. Dieci giorni dopo si ritrova iscritto nel registro degli “agenti stranieri”, marchio d’infamia che equivale allo staliniano “nemico dello Stato”. È chiaro come andrà a finire. Ma, tra il Sinai e il Golgota, Jashin ha già scelto. «Entrambe le opzioni sono cattive: l’esilio e la prigione. Ma le autorità non lasciano alternative», spiega per iscritto. «La logica di Putin è semplice: se non sei con noi, sei contro di noi. E “contro di noi” in stato di guerra significa “nemico”. È possibile cambiare la Russia dal carcere? Non lo so. Ma credo che una parola contro la guerra pronunciata da una cella russa pesi molto di più di una detta da un accogliente caffè parigino ».

Nessuna vocazione al martirio. Jashin è rimasto in Russia perché ha ancora una speranza. Sa di essere entrato in un tunnel, ma è convinto che prima o poi ne verrà fuori. «In un modo o nell’altro, l’arresto non ha fatto sì che tacessi o mi allontanassi dalla politica. Sul mio canale YouTube continuano a essere pubblicati video dove esprimo, sebbene in contumacia, la mia opinione. I miei testi compaiono regolarmente sui social. E ho cercato di trasformare ogni udienza in una tribuna dalla quale pronunciare discorsi contro la guerra». Lo ha fatto anche durante la sua “ultima parola”, poslednee slovo, com’è lugubremente chiamato l’intervento riservato all’imputato a fine dibattimento. Un processo, quello di Jashin, contrassegnato da rinvii, allarmi bomba e persino da una scazzottata, ma aperto al pubblico e alla stampa. Un’eccezione nella terra della “giustizia telefonica”, dove nei casi politici ai giudici viene detto sin dall’inizio quale verdetto emettere. Jashin lo riconosce alla giudice Oksana Gorjunova. Poi lancia un appello a Putin a «fermare immediatamente questa follia». E infine si rivolge i suoi sostenitori: «Non cadete nella disperazione. Credetemi, la Russia sarà libera e felice ». Una dichiarazione di sfida, ma anche di ottimismo. Perché se è vero che la prima vittima di ogni guerra è la verità, la seconda è la speranza. E la Russia può salvarsi solo se continua a coltivarla. Anche se è un seme gettato verso il futuro, non un fiore che sboccerà oggi. Il 9 dicembre, nell’aula del tribunale distrettuale Meshchanskij di Mosca, tutto avviene secondo un copione consolidato. Jashin, però, maglione a collo alto, occhiali e barbetta, non smette di sorridere, scherzare e mostrare indice e medio in segno di vittoria pur tra le manette. Annuisce canzonatorio anche mentre la giudice legge con tono monocorde verbali e articoli del Codice penale per giustificare il verdetto di colpevolezza. Dopo quasi un’ora d’interminabile litania, Gorjunova obbedisce quasi alla lettera alle richieste dell’accusa: otto anni e mezzo di carcere anziché nove. Tutto prevedibile. Ma la madre di Jashin lo guarda sgomenta, il padre affonda il volto tra le mani. Ilja invece accoglie il verdetto con il sorriso. Con la serenità di chi sa di essere dalla parte giusta della storia. Sussurra due parole di conforto ai genitori dalla gabbia di vetro in cui è relegato e poi interrompe il silenzio gelido in cui è piombata l’aula urlando: «Se qualcuno pensa che Putin governerà per altri otto anni, allora è un grande ottimista». I sostenitori rispondono con un applauso. Qualcuno grida: «Uscirai prima! Non disperare!». Jashin non dispera. Anzi, scrive a Repubblica, conta sulle nuove generazioni. «Non capiscono che cosa ci facciano le truppe russe in Ucraina. Vogliono vivere e lavorare in pace, viaggiare liberamente ed essere parte della civiltà umana. Per loro Putin è un dinosauro della Guerra Fredda. E il futuro appartiene a loro. Oggi sono bambini, domani saranno il popolo». Jashin è convinto che Putin «alla fine se ne andrà e nei libri di testo rimarrà un assassino e un cattivo». «Non so quando perderà il potere», conclude. «Forse scivolerà giù dal trono quest’anno. Forse, improbabile, durerà altri cinque o dieci anni. Ma, catapultandosi in questa guerra, si è indebolito. Finora la sua stabilità era nel patto con società ed élite: lealtà in cambio di un tenore di vita relativamente agiato. Ora ha sconvolto questo equilibrio. È condannato. Non importa quanto si aggrapperà al potere. Forse dopo di lui altri assassini proveranno a insediarsi al Cremlino, ma è improbabile che rimarranno lì a lungo. Il criminale Prigozhin o il bandito Kadyrov non saranno mai accettati dal popolo russo. Noi oppositori sì. Perché l’attuale militarismo sarà sostituito dal desiderio di pace, umanesimo e sviluppo. Di quei valori che io e i miei compagni abbiamo difeso per anni e per i quali siamo finiti in prigione e abbiamo rischiato la vita. Il futuro appartiene a noi. Lo so».

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