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La Repubblica Rassegna Stampa
22.11.2022 Qatar: chi rischia la vita e chi ha paura di una squalifica
Commento di Gianni Riotta

Testata: La Repubblica
Data: 22 novembre 2022
Pagina: 9
Autore: Gianni Riotta
Titolo: «Chi rischia la vita e chi ha paura di una squalifica»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/11/2022 a pag.9 con il titolo "Chi rischia la vita e chi ha paura di una squalifica", il commento di Gianni Riotta.

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Gianni Riotta

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Ristorante italiano, con pizza gommosa stile chewing gum, al centro della capitale in Qatar. Un gruppo di tifosi dell’Iran, con la maglia della nazionale, chiede di sedere «nella sezione fumatori per favore», qui ce ne sono ancora, e viene accontentato, tirando subito la prima avida boccata. Il 6-2 incassato dall’Inghilterra non rovina la serata, la conversazione punta sul rifiuto dei calciatori iraniani di cantare l’inno nazionale, scritto da Sayed Bagheri, musica di Hassan Riyahi, adottato nel 1990 e scritto in onore dell’ayatollah Khomeini “Il tuo messaggio, oh Imam, indipendenza e libertà è marchiato nelle nostre anime… con il clamore dei martiri…”. Gli amici si accalorano, «Avete visto come sequestravano le vecchie bandiere persiane?», che risalgono ai giorni democratici del premier Mossadeq, lamentando che la polizia qatariota abbia stracciato i loro cartelli di sostegno alla lotta delle donne a Teheran, dopo l’assassinio di Mahsa Amini, seguito da centinaia di altre vittime. Qualcuno è riuscito a conservare la bandiera tradizionale, con impresso lo slogan del movimento “Zan Zendegi Azadi”, donne, vita, libertà e quando la ragazza che canta nel locale coglie la concitata conversazione, con un cenno al tastierista, intona Bella Ciao. Alla vigilia della partita, i bianchi leoni di Inghilterra avevano ruggito, diffondendo foto del fiero Capitan Kane con la fascia One Love e i colori LGBTQ. Altre europee giuravano a loro volta di schierarsi contro l’oppressione degli omosessuali in Qatar, salvo poi, quando la zelante Fifa ha minacciato cartellino giallo contro chi indossasse l’insegna non ufficiale, ritirarsi a gambe levate. In Iran si muore per la libertà, come in Ucraina, in Russia e Cina si finisce in galera ma gli assi del calcio non rischiano un’ammonizione. Se Kane e la sua federazione avessero avuto il fegato di disubbidire, cosa sarebbe successo? Davvero l’arbitro brasiliano Raphael Claus sarebbe stato così servile con i capi? E se gli altri team avessero seguito l’esempio, la Fifa avrebbe espulso gli assi migliori, davanti a miliardi di telespettatori? Il coraggio morale, diceva il senatore Bob Kennedy, è la virtù più rara, ieri, davanti a rischi gravosi, gli iraniani, in campo e fuori, ne han dato prova, gli inglesi no, e l’inginocchiarsi contro la violenza razzista è sembrato stavolta patetico. Il 16 ottobre del 1968, ai Giochi Olimpici di Città del Messico, dal podio dei 200 metri, i velocisti americani Tommie Smith e John Carlos, salutarono a pugno chiuso, scalzi, contro la repressione del movimento per l’uguaglianza nel loro Paese. L’australiano Peter Norman, medaglia d’argento, indossò a sua volta la coccarda dei dissidenti e il capo del Cio, l’americano Avery Brundage ordinò la cacciatadi Smith e Carlos. Il comitato olimpico Usa rifiutò, Brundage, incanaglito, minacciò di squalificare tutti gli atleti statunitensi. Solo gli autori dello storico gesto, dunque, pagarono, con discriminazioni, minacce di morte, drammi familiari, depressione, ricordate nel saggioTrentacinque secondi ancora di Lorenzo Iervolino. A Londra i tabloid mugugnano ancora perché la Bbc ha boicottato la cerimonia di apertura, parata degli uomini forti del Medio Oriente, i danesi promettono ora una maglia speciale per le vittime dell’odio, ma fin qui solo gli iraniani, musulmani sciiti nel regno sunnita, con gravi prezzi da pagare al ritorno, hanno infranto il conformismo. Non so se riascolteremo, da qua alla finale, Bella Ciao, ma l’illusione di una Coppa del mondo formato despoti è subito finita ed è un gran bene.

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