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La Repubblica Rassegna Stampa
11.08.2022 Che cosa insegna la guerra dei tre giorni a Gaza
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 11 agosto 2022
Pagina: 1
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «La lezione della guerra»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/08/2022, a pag. 1-35, con il titolo "La lezione della guerra", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

La Jihad Islamica mostra missile in grado di colpire Tel Aviv

Non è bella la guerra. Mai. E più passa il tempo e meno mi sembra sopportabile l’idea stessa, in una guerra, di vittime o danni “collaterali”. E tuttavia, questo scontro di tre giorni fra la Jihad islamica e Israele è stato oggetto di commenti tanto assurdi, irragionevoli e talvolta contrari alla verità che mi sento in dovere di ricordare quanto segue. Israele ha lanciato missili mirati, la Jihad islamica ha lanciato razzi alla cieca. Israele puntava ai tunnel, agli arsenali e, naturalmente, ai comandanti di un esercito, allo scopo di distruggerlo; la Jihad islamica colpiva città e paesi abitati soltanto da civili. È la Jihad islamica, non Israele, che si è preso il rischio assurdo di puntare su Gerusalemme ed è alla Cupola di ferro dell’Idf che tocca proteggere la città tre volte santa, santa anche per l’Islam. Metà delle quarantotto vittime di questi scontri è dovuta ai lanci sbagliati della Jihad islamica che si sono abbattuti su Gaza. Dall’altra parte invece si è visto spesso un ufficiale israeliano, quando sul suo schermo, vicino all’obiettivo, appariva una macchia scura che indicava la presenza di un civile che non aveva sentito l’avviso di evacuazione, rinunciare all’ultimo momento a lanciare un missile o deviarne la traiettoria in volo: havlagh («ritegno»), tohar haneshek(«purezza delle armi»), Ein Brera (« nessuna alternativa»), bokhim ve yorim («sparare e piangere»); queste formule, ereditate dai pionieri di Israele, che ho sentito pronunciare spesso durante i miei reportage dalle guerre del Libano o dalla prima guerra di Gaza; questi appelli alla misura e allo scrupolo sono rimasti, in mezzo alla violenza dei combattimenti, al centro delle regole d’ingaggio dell’esercito israeliano. È un fatto, e va detto per onestà. La Jihad islamica, peraltro, non è quella “cellula impazzita” forte di “qualche centinaio” di combattenti di cui parlano un po’ tutti; è il braccio armato di una potenza, l’Iran, che non ha mai fatto mistero della sua volontà di annientare l’“entità sionista”. Non si tratta di un movimento isolato: è il fratello di Hezbollah, che rappresenta, sul fronte nord dove sta in agguato, l’altro braccio armato dell’Iran e dispone, lui sì, di missili a lunga gittata capaci di colpire Haifa e Tel Aviv. Questi assassini sono professionisti del rapporto di forza. Quando lo riterranno opportuno, lanceranno la guerra che hanno annunciato e sarà una guerra totale, nel vero senso della parola, dal momento che non poggia, contrariamente alle guerre palestinesi di un tempo, su una rivendicazione o una disputa territoriale precisa. Di fronte a queste organizzazioni che tutte le altre democrazie considerano terroriste; di fronte a questi cugini armati di Al Qaeda o di Daesh, animati da un’ideologia simile; di fronte a questi amici della morte di cui gli osservatori si meravigliavano, a qualche ora dal conflitto, che si fossero, nella loro grande bontà, astenuti dal lanciare razzi fra il 19 luglio e il 5 agosto, cioè per ben tre settimane, gli eredi di David Ben Gurion non hanno diritto né all’errore né alla debolezza. Detesto parlare così. Sogno un Paese che, come mi disse un giorno quell’altro amico di Israele che era Romain Gary, possa mostrare anche il suo lato vulnerabile, debole. Vorrei un Israele più ateniese e meno spartano, in cui le forze dell’anima brillassero di un fulgore non meno vivo di quello delle armi e in cui ci si ricordasse che essere ebrei significa preferire le sottigliezze della legge, la trama fine delle parole e l’ombra delicata dei commenti ai muri di granito o d’acciaio dietro i quali i corpi, sempre troppo pesanti, si proteggono e si seppelliscono. E credo che questo desiderio sia realizzabile, perché è al cuore del genio dell’ebraismo, che è alla base del sionismo come degli antichi regni di Israele: da Gedeone, che non voleva essere re, a Salomone, che lo volle, non sentivano forse tutti che il loro massimo onore, il lorokavod, stava nel precetto enunciato dal profeta Zaccaria: “non con la potenza, non con la forza, ma con il mio spirito”? I vicini arabi di Israele l’hanno capito. Hanno finito per comprendere che la vera forza dello Stato degli Ebrei è nella sapienza e nella speranza. Hanno fatto la scommessa di un’alleanza abramica tra fratelli che per troppo tempo sono stati nemici ma sono uniti dalla frequentazione dello stesso Libro. Questa fraternità rinnovata è stata uno dei rari eventi felici in questa nuova epoca di mostri a cui sempre di più assomiglia l’inizio del XXI secolo. Possa l’antica Persia intraprendere presto un cammino simile. Perché nessun Paese al mondo può vivere con la minaccia costante di missili puntati sulle sue città. Perché i palestinesi, senza più fiato né speranza, non ne possono più di signori locali e lontani che li tengono in ostaggio e li privano di un futuro. E perché uno scontro diretto fra gli eredi di Dario e quelli di Gedeone infiammerebbe la regione e sarebbe, per il resto del mondo, non meno disastroso della guerra d’Ucraina o di una guerra a Taiwan. La tregua è fragile, il tempo stringe.
(Traduzione di Alessandra Neve)

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